lunedì 27 ottobre 2025

Le sorelle Meloni. Le radici, il selfie e l’arte dell’ammiccamento

 


Colpisce questo selfie delle sorelle Meloni. Una foto familiare, certo, ma anche  - come spesso accade nella politica contemporanea -  occasione per un piccolo esercizio di metapolitica. Sotto vi si parla di radici. Si razionalizza, cioè si giustifica ex post, l’ esistenza di un passato degno di essere trasmesso ed evocato. E come  evidenzia, quasi messo lì per caso quel "Giorgia 2027", già si lavora, in modo previdente, per le prossime politiche. Le metastasi  reazionarie si fanno ambiziose.

Intanto, quali radici, esattamente?

Tra i commentatori (fin dove siamo riusciti a leggere), alcuni evocano la Garbatella: il quartiere popolare dove Giorgia Meloni è cresciuta per un certo periodo della sua infanzia. È il consueto repertorio mitizzante: il popolo vero, l’autenticità, la romanità, il quartiere come habitat identitario. Ma a guardare meglio, quella parola - radici - funziona come un segnale a più livelli.

Le radici, nel linguaggio della destra nostalgica italiana, non sono mai solo geografiche o affettive. Sono un modo elegante per parlare d’identità, di appartenenza, e soprattutto di continuità. Nel caso specifico al Movimento Sociale Italiano, partito che si richiamava al fascismo. E al quale Giorgia aderì giovanissima. Poi vennero Alleanza Nazionale e Fratelli d’Italia. 

Gli unici tentativi di costruire una destra democratica in momenti diversi – Democrazia Nazionale (1976) e Futuro e Libertà per l’Italia (2010) – abortirono miseramente: la base post-missina e soprattutto gli elettori non vollero saperne.

Pertanto radici è una parola che rassicura e insieme seleziona: fa sentire “a casa” chi riconosce il codice “nero”, e lascia tranquilli gli altri, cioè coloro che chi vi leggono solo un richiamo familiare.

Però - cosa che va detta -  sotto quel selfie non appare nessun commento apertamente neofascista, almeno non nello spazio visibile.

Ma non è questo il punto. Il linguaggio allusivo serve proprio a non dover dire. È un gioco di riconoscimento tra chi parla e chi ascolta, un ammiccamento simbolico che lega la comunità politica molto più di qualsiasi slogan. Non dimentichiamo che stiamo parlando di un’area politica legata, e da sempre, alla retorica dell’ “esule in patria”.

Ovviamente “esule” nella patria democratica, cioè dopo il 1945. Sarebbe invece necessario parlare di barbari accampati in Italia per oltre vent’anni, dopo averla messa a ferro e fuoco. Perché il fascismo, per sua stessa ammissione, teorizzò e praticò l’antidemocrazia. Ma quali “esiliati in patria”? Quali “esuli”? Se di radici si tratta, sono radici che affondano nella barbarie del "Ventennio".

Di conseguenza, la Garbatella -  in realtà quartiere antifascista che nel dopoguerra si affiancò a San Lorenzo, altro luogo simbolico della resistenza romana (durante la cosiddetta Marcia su Roma vi furono lì gli unici scontri armati con i fascisti) - diventa oggi il pretesto popolare di una genealogia più profonda: quello di celebrare, senza fare troppo rumore le vere radici, quelle ideologiche, che affondano nel Movimento Sociale Italiano e, più indietro ancora, nel fascismo storico.

Nessuno le nomina, si preferisce evocarle. È un linguaggio di superficie che rimanda a un fondale ben noto, “nero”: chi sa, capisce. E apprezza. Sotto il selfie si legge qualcosa di tremendo se lo si riconduce alle radici fasciste e neofasciste: “Le radici sono la nostra forza. Chi ti conosce da sempre sa da dove vieni e perché non ti fermerai mai”. Occhio: dietro il cuoricino c'è il  vecchio santo manganello. 

Quando il linguaggio politico diventa fortemente simbolico e cifrato, la trasparenza democratica ne risente: l’elettore “capisce” se sa leggere il codice, chi non lo sa può restare fuori o interpretare diversamente: ciò porta a una sfida nella sfera pubblica: come discutere ciò che non viene detto esplicitamente? 

È qui che la complicità simbolica mostra la sua forza: costruisce consenso senza confronto, appartenenza senza argomentazione.

E infatti oggi si parla sempre meno di fascismo e neofascismo.

Il rischio democratico non sta tanto ( o solo) nei saluti romani quanto in un fatto preciso: se la destra utilizza simboli che richiamano il passato fascista e neofascista senza nominarlo, si ha una normalizzazione simbolica. che in altri tempi sarebbe stato oggetto di dibattito pubblico acceso e di ben altre reazioni politiche.

Quando un messaggio riesce a dire due cose diverse a due pubblici diversi, rassicurando i moderati e galvanizzando i nostalgici, la democrazia si ritrova davanti a una nuova ambiguità: quella dell’identità che non osa dirsi, ma che organizza il consenso.

In fondo, non siamo davanti a un selfie privato ma a un autoritratto politico. Che potrebbe essere anche quello del popolo italiano, un popolo di smemorati, che sembra aver dimenticato cosa fu il fascismo: la dittatura, le persecuzioni, l’antisemitismo, l’alleanza con Hitler, la guerra civile. Ma come si può dire che Mussolini “fece anche cose buone”?

Eppure lo si dice, se non lo si dice lo si pensa. Sicché quel selfie è intriso di una nostalgia che è genealogia. E quando la genealogia si traveste da affetto, la storia smette di essere maestra,  diventa complice di una ideologia: la neofascista.

Carlo Gambescia

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