L’oltraggio alla statua di Wojtyla durante il corteo pro-Palestina non è solo un atto di vandalismo. È un gesto che rivela una doppia sordità, un’incapacità di fare i conti con la storia che continua a dividere l’Italia e più in generale l’Occidente.
Si registra un' assenza di memoria. Si rifletta. Da una parte chi non ha mai affrontato davvero il fallimento del comunismo reale; dall’altra, se pensiamo alle repliche spropositate di coloro che sono al governo, chi non ha mai metabolizzato la distopia fascista. Due cieche fedeltà opposte e ugualmente sterili.
Coloro che hanno insultato Wojtyla come “fascista di merda” non hanno mai metabolizzato il suo ruolo nella fine del totalitarismo comunista. Cioè rifiutano tuttora di riflettere sul fatto che l’idea comunista, quando si è fatta potere, ha represso ogni forma di libertà, inclusa quella religiosa. Si continua a ripetere, come un mantra, la vecchia formula della religione “oppio dei popoli”, senza interrogarsi su ciò che è davvero accaduto in Russia o in Spagna, dove gli anarchici furono perseguitati proprio da coloro che predicavano la liberazione. È una forma di anarco-comunismo anticristiano, ostile a qualsiasi idea non materialistica, che confonde la religione con la sottomissione e non distingue tra istituzione ecclesiastica e messaggio evangelico. Per costoro, la fede non può che essere il volto spirituale dell’oppressione.
Ma dall’altra parte sopravvive un’analoga sordità. Esiste ancora chi non ha mai fatto davvero i conti con il fascismo, con il suo culto dell’autorità, della nazione, della tradizione come valori assoluti. Come ripetiamo spesso, con tono critico “quelli” del mantra “dio, patria e famiglia”. “Quelli” del Mussolini “grande statista” perché stipulò il Concordato. Chi, insomma, rifiuta la libertà perché la associa al disordine, chi vede nel dissenso solo sovversione, chi scambia l’obbedienza per virtù civica. Anche qui l’incapacità di pensare criticamente il passato produce deformazioni del presente: si finisce per difendere ogni simbolo in nome dell’identità, ogni gerarchia in nome dell’ordine, ogni privilegio in nome della storia.
Tra queste due sordità, la religione diventa ancora una volta campo di battaglia. Per gli uni è l’oppio, per gli altri il bastione. Eppure il cristianesimo, piaccia o no, è stato nel tempo entrambe le cose: annuncio dei poveri e linguaggio del potere, rivoluzione spirituale e istituzione politica. Ridurlo a una sola immagine significa non capire nulla né della fede né della storia. E diciamo pure, di metapolitica: si pensi alla regolarità — nel senso di ciò che si ripete — tra movimento e istituzione. Per capirsi: in ogni rivoluzionario (movimento) c’è un conservatore (istituzione). Detto alla buona: nel bombarolo di oggi c’è il carabiniere domani. Così va il mondo. La rivoluzione non è mai permanente.
Forse il vero nodo del nostro tempo è questo: la difficoltà di riconoscere la complessità della metapolitica (*). Mancano il senso del limite, l’autoironia, quel distacco che impone ogni seria conoscenza della natura umana. Ovviamente sono cose che non si possono chiedere alle masse, soprattutto quando “radicalizzate”, a sinistra come a destra. Ma alle élite dirigenti sì.
E invece, basta leggere i commenti politici e giornalistici di oggi, per capire che tuttora ci dividiamo tra chi sogna l’utopia anarchica (quindi si minimizza o si nega) e chi rimpiange l’ordine perduto, incapace di pensare una libertà che non sia distruttiva e una tradizione che non sia dogmatica (quindi si criminalizza).
E così, un gesto stupido come imbrattare una statua finisce per diventare simbolico: non della forza di un’idea, ma del vuoto di pensiero che resta quando le ideologie si riducono a rabbia e la fede a bandiera.
Il nemico principale del nostro tempo è ciò che Theodor Geiger definiva “democrazia emotiva”(**): una forma di vita pubblica in cui lo slogan, o se si preferisce l’idea-forza sostituisce la conoscenza, il sentimento prende il posto dell’argomento e il risentimento diventa criterio morale.
In questa democrazia deformata, le passioni politiche non sono più il motore della partecipazione, ma il carburante dell’ostilità reciproca. Si reagisce, non si pensa. Si grida “contro”, mai “per”. Ogni questione — religiosa, civile o storica — diventa un test di appartenenza emotiva: sei dei nostri o dei loro?
Il risultato è una società dove la complessità viene espulsa come un corpo estraneo e la riflessione scambiata per ambiguità. La politica si trasforma in teatro dell’offesa, la fede in militanza identitaria, la memoria in tribunale morale.
Uscirne non significa tornare a una neutralità impossibile, ma recuperare — direbbe ancora Geiger — la freddezza morale della ragione individuale, che nelle élite, quando abili e prudenti, può trasformarsi in ragione pubblica. Insomma in quella distanza interiore che permette di distinguere il giudizio dal risentimento.
Solo così la democrazia può tornare ad essere quel che dovrebbe essere, cioè liberal-democrazia.
Non la somma delle nostre emozioni, ma la forma civile, liberale e metapolitica, dei nostri limiti.
Carlo Gambescia
(*) Ci permettiamo di rinviare al nostro Trattato di metapolitica, Edizioni Il Foglio, 2023, 2 voll.
(**) T. Geiger, Democrazia senza dogmi, in Id., Saggi sulla società industriale, a cura di P. Farneti, Utet, 1970, pp. 281-624.



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