giovedì 31 dicembre 2015

La scomparsa di Sabino Acquaviva
Così vicino, così lontano


Di Sabino Acquaviva (*) come ultimo ricordo  abbiamo il suo fare capolino, sette-otto anni fa,  a una riunione di intellettuali  di varia estrazione  culturale e politica, organizzata da Alessandro Campi, allora direttore scientifico di “Fare Futuro”. Acquaviva si sporse dal portale che introduceva all’ antico e freddo salone della Roma patrizia. Esitava. Sembrava un passerotto, timido e curioso. Indossava  un giacchetto di pelle, da lontano, segaligno e in jeans,  ricordava un poco Pasolini.  Si mise seduto vicino all’uscita, senza poi dire una parola. Sparì, dopo una decina di minuti. Evidentemente, aveva capito tutto, in un lampo: la cultura critica, quella che piaceva a lui, non abitava lì.  Come, del resto, trent’anni prima, aveva subito compreso, molto prima di  chi scrive, che la Nuova Destra di Marco  Tarchi  non era che l’ennesimo flop in divenire di una cultura politica morente. Perciò leggere   benché su Wikipedia, dove si cita da un libriciattolo in argomento -  “considerato vicino alle idee delle Nuova Destra”, lascia perplessi. E parecchio.
Acquaviva ha rappresentato in qualche misura  il genio e la pavidità del sociologo di successo. Diciamo, da Prima Repubblica, imbevuta di futurismo (e buoni affari) catto-socio-comunista (socio, sta per socialista). Genio, per  gli studi pionieristici sulla secolarizzazione, dove però già trasparivano certe sue arcaiche perplessità da immaginario post-dossettiano verso la società moderna e di mercato;  pavido, per il suo atteggiamento,  non solo come studioso,   verso  l’ala più violenta e prevaricatrice della sinistra extraparlamentare, sconfinante nel terrorismo, alla quale egli concedeva, con ostinazione, un sostrato religioso, millenarista,  salvifico.  A tale proposito, il suo  Sinfonia in  rosso resta lettura interessante, come malinconico e terribile bilancio del dominio, barbaro e incontrastato, degli autonomi di religione toninegriana nell’università padovana.  Pagine dense, perfino dolorose in alcuni passaggi, che decostruiscono i disinganni di un teorico della resa.  A un tempo,  così vicino, così lontano  alle  e dalle cose che si imponeva di studiare (da vicino). E di  capire (da lontano), forse per tutto assolvere, benedicente. Come il  Papa di Morselli.
Acquaviva,  dentro  il secolare, cercava  ancora il sacro,  però separato dal trascendente.  Nulla di  male, era il classico  sociologo imbevuto  di  materialistica  e pragamatica cultura (però  con rimorsi) trial and error.  Di qui, i suoi inevitabili e rapsodici innamoramenti epistemologici e politici,  seguiti dalla regolare caduta delle illusioni: culturalismo, biologismo,  sinistra, destra. Però l’unico dato certo, rimane  che la ricerca, la sua, non poteva, non doveva finire. Mai. La ricerca come fine, non come mezzo.  In questo senso, Acquaviva  non era  vicino a nessuno. Forse neppure a se stesso.




mercoledì 30 dicembre 2015

Il centrodestra cerca un leader
E tu di che Mara sei?




Ieri su “Il Foglio”, che meritoriamente, sebbene sottovoce (almeno cosi sembra), ha sollevato la questione di  un leader  per il centrodestra  “per non affogare nella  bolla salviniana”, è apparsa l’intervista a  Giovanni Orsina e Angelo Panebianco (*). Succo: Berlusconi come prodotto politico è scaduto da un pezzo; i colonnelli e post-colonnelli (Meloni, Fitto, Alfano, Toti), oggi, in ordine sparso, non sono all’altezza; agenda liberale chiusa, forse per sempre: “l’impopolarità spaventa” (Panebianco), dal momento che "si tratta di far arrabbiare un po’ di gente  nel breve periodo per avere enormi vantaggi e popolarità nel lungo periodo” (Orsina).   Nelle sondaggio-democrazie non c’è pazienza, insomma. La scoperta dell’acqua calda.
Sul possibile identikit del  leader, Panebianco tace, e giustamente.  Mentre Orsina si sbilancia anche troppo: dovrebbe essere giovane, addirittura sotto i trenta, dalle “enormi capacità comunicative”,  “spontaneo e sorgivo”, “ci vorrebbe un altro Renzi o un Craxi”. Mah…
Nella chiusa, sempre Orsina, il più loquace, visto che Berlusconi non vuole sentir parlare di primarie, suggerisce di opporre a Salvini, un leader  da   “ fabbricare in laboratorio”,  (Berlusconi potrebbe “se ne avesse voglia - cosa di cui dubito”). Chi?  Mara Carfagna,  facendola girare in televisione, eccetera, per dire le stesse cose di Salvini, ma in modo educato. Mah…  Il medium è il messaggio, disse un tale…   E la televisione o è urlata e/o innaffiata da copiose lacrime o non è  Quindi , anche se non interpellati,  proponiamo un’altra Mara.  La Venier.
Carlo Gambescia



martedì 29 dicembre 2015

Lo smog e la “cultura dell’emergenza"
Una lezione di sociologia




Questa storia dell’Italia nella "morsa  dello smog" merita un commento. Sociologico.
Appena i media si sono impadroniti della cosa - come è naturale che sia perché  i mezzi di comunicazione sociale inseguono e rilanciano l’attualità, per statuto ontologico -   martellando fin dalle aperture, si è aperto, come si dice, un dibattito politico, su come contrastare, prima a colpi di statistiche, poi di provvedimenti, addirittura a livello centrale,  “l’increscioso fenomeno”.  
Ora, se si fa un giro su Internet, o ( meglio) in libreria, si scopre subito che sulla questione (entità, cause, conseguenze) esiste una bibliografia vasta e contrastante. Insomma, lo schieramento scientifico, medico  e statistico  è profondamente diviso. Per non parlare del mondo  politico, dove la sinistra vuole imporre la sua cultura ecologista, basata sul principio di precauzione (meglio prevenire che curare) e la destra, per  tutta risposta,  l'imperativo darwinista ( né curare, né prevenire, ma  lasciar fare).
Cosa insegna la sociologia? Che ogni stato di  emergenza porta con sé un giro di vite alle libertà. Ad esempio, la guerra ( ce ne stiamo rendendo di nuovo conto) determina l’irrigidimento se non l’irreggimentazione  del sistema sociale: si serrano i ranghi e si introducono divieti e controlli alla produzione, alla libertà di movimento eccetera. Lo  stesso discorso vale, fatte le debite proporzioni, per la calamità naturali. Però il dato fondamentale è rappresentato dall’imminenza ed entità del pericolo.  Due fattori, ci dice sempre la sociologia,  manipolabili dal punto di vista comunicativo (non nel senso stretto dei media).  Certo, un terremoto, resta un terremoto. Tuttavia, quanto più la cultura si allontana dalla natura, tanto più il fenomeno da contrastare diventa labile, perché i fatti segnano il passo rispetto alle opinioni scientifiche - attenzione, "opinioni", perché di scuola -  che, a loro volta, devono però  tradursi, in quei  dati statistici o meglio "parametri"  dai quali  poi dipendono le decisioni  politiche. Scelte che possono essere (ideologicamente) giuste o sbagliate, ma che, di sicuro, implicano sempre il giro di vite cui abbiamo accennato. Scelte compiute,  ripetiamo, su basi parametriche,  quindi convenzionali, se si vuole, presuntive (nel senso che presumono eccetera...).  Alle quali -   di nuovo,  attenzione -  i cittadini,  di regola, si piegano,  per ragioni  ideologico-morali legate alla integrità fisica personale ( “è per il vostro bene”) e per puro spirito gregario-emulativo (“lo fanno tutti”; “lo ha detto la televisione”; “si va in prigione” , “si paga una grossa multa”).
Insomma,  l’emergenza, ma a questo punto sarebbe giusto definirla cultura dell’emergenza,  mette in moto una specie di macchina sociologicamente acefala: si pensi a due mandibole che, una volta avviate,  cominciano ad aprirsi e richiudere sulle nostre libertà. 
Qualcuno potrebbe pensare che stiamo esagerando.  In realtà, quel che ci preme sottolineare è che nei processi sociali, la forma (le mandibole politiche) sono indipendenti dai contenuti ( la rappresentazione culturale dell’emergenza).  Di qui, il pericolo, se ci si passa la battuta, di usare la bomba atomica per uccidere un povero e libero passerotto. 

Carlo Gambescia
     

                

giovedì 24 dicembre 2015

 Serve un leader per la destra,  “Il Foglio" lancia un sondaggio
Liberali, arrangiatevi!



“Il Foglio” dell’ex direttore Giuliano Ferrara  - che tuttavia incombe più di prima -  ha lanciato tra i lettori  un sondaggio   (pre-primarie?)  per trovare  un nome alternativo al lepenista e impresentabile Salvini (*).
Diciamo subito  che la fissa leaderistica  ha radici,  e profonde,   nella politologia di  Ferrara,  tipico giornalista con il complesso del principe.  Sindrome che egli  ammanta di impalpabili teoresi, per carità ben scritte,  sul contrasto vecchia-nuova politica, ri-fondata quest’ultima sul carisma mediatico del capo, of course. Il che può pure servire a vincere, ma come si leggeva una volta  sul “Corriere dello Sport”, non  a convincere e soprattutto a governare (come prova il molle  disfacimento del governo  berlusconiano  nella  legislatura 2001-2006).
Ma poi -  ammesso e non concesso che basti la bacchetta magica del carisma  - dove sono gli aspiranti leader della destra? Parliamo dei papabili, da contrapporre a Renzi…   Brunetta, Romani, Fitto, Quagliariello, Gelmini, Verdini, Alfano e compagnia cantante? Roba da ridere…
Prendiamone atto, in Italia  l’ultima destra liberale  risale alla “storica”, quella  che unì l’Italia: socialmente coesa e perciò non prigioniera della demagogia. Quindi "strutture" e "individui", per buttarla sul sociologico. Insomma,  roba di e per pochi e probi eletti.  E comunque sia, da una sola volta nella storia.  Giunta al capolinea il 18 marzo 1876, con le dimissioni di Marco Minghetti. Dopo di che, come gridò Totò agli orfani della legge Merlin in un famoso film: “Italiani, arrangiatevi!” .
Così è stato. E così sarà.  Purtroppo. Liberali, arrangiatevi!  
Sorge però un dubbio: che il nostro Machiavelli della carta stampata, sotto sotto, voglia tirare l’ultima volata a un redivivo (per poco) Cavaliere?

Carlo Gambescia            

mercoledì 23 dicembre 2015

Lo Spirito del Natale
Libertà



Quando  qualcuno mi chiede lumi sulle fonti intellettuali e/o psicologiche della socialdemocrazia redistributiva, che gioisce nel massacrare di tasse i cittadini, consiglio sempre di leggere  A Christmas Carol di Dickens, pubblicato nell’anno di grazia 1843.  E per una semplice ragione: in quel romanzo si costruisce e giustifica quel senso di colpa che ancora oggi è alla base delle politiche welfariste, fondate sul singhiozzo dell’uomo borghese. Leggetelo e capirete.
Ma non è di questo che oggi voglio scrivere. Nel romanzo,  giocando sull'idea di spirito come fantasma e di spirito come significato, si rappresenta lo  Spirito del Natale, e per la prima volta, in chiave completamente secolare, e, cosa più importante, ricattatoria, moralmente ricattatoria.  Semplificando: a Natale si deve essere tutti  più buoni.  A cominciare dal cattivo capitalista, che deve perciò redimersi. Altrimenti, nessuno si ricorderà più di lui. Nel Manifesto di Marx ed Engels, che apparirà cinque anni dopo, alla redenzione si sostituirà l’auto-estinzione della borghesia, con l’aiutino del “proletari di tutti il mondo unitevi”.  Da un lato, Dickens, padre dello stato redistributivo e tassatore, frutto dolciastro del senso di colpa borghese,  dall’altra, Marx & Co. che puntano sulla sparizione dello stato borghese -  generoso o meno -  e dello stesso   senso di colpa, indotto o meno. Detto altrimenti: riformismo costoso contro catarsi sociale  ancora più costosa... 
Ma allora, se esiste, qual è lo Spirito del Natale? Diciamo che il riformista Dickens, fortunatamente o meno,  ha avuto la meglio sul rivoluzionario Marx: però lo spirito vero del Natale non può essere quello del “tutti buoni davanti al panettone welfarista".  Forse l’autentica eredità  della Rivoluzione industriale britannica  resta l’idea di libertà.  Perciò  libertà di trascorrere il Natale come si desidera: in Chiesa a pregare o in montagna a sciare; di battersi sul petto o di andare a cena con l’amante;  di aiutare i  poveri o di banchettare con i ricchi; oppure di  far festa  con due madri, con due padri o con un padre e una madre, chi più ne ha ne metta. Qualcuno potrebbe dire: e il sacro?  (per non parlare del trascendente…). Non piace a tutti. E non tutti lo ritengono necessario. Tuttavia, chi lo tiene in non cale non può  - anzi non deve -  obbligare chi invece non può farne a meno.  E viceversa.   
Libertà. E per tutti.   Ecco il vero Spirito del Natale.

Carlo Gambescia                

martedì 22 dicembre 2015

Un editoriale di Ilvo Diamanti
Post-stupidità sociologiche


Povera sociologia! Se Bauman ha sdoganato l’aggettivo “liquido”, banalizzandolo in più di venti libri e  riscoprendo un fenomeno già  noto a Tönnies, Simmel e Weber (ma si vedano anche gli studi sulla metropoli di Hellpach), Ilvo Diamanti, nel suo piccolo, martella sul prefisso post (infausto lascito delle filosofie  post-heideggeriane, nessuno è  perfetto,  in salsa cacciariana). Però, da empirico di scuola veneto-durkhemiana, neppure se ne accorge.   Ormai,  va in automatico. Come le illusioni.
Si prenda, ad esempio, l’editoriale di oggi sulla fiducia decrescente degli italiani verso le banche (*).  Di chi sarebbe la colpa? Dei “post-partiti”,  privi di ideologie, che  quindi  non dialogano con una “post-società”, purtroppo edonistica, che invece parla solo a se stessa, e che non può che partorire “post-banche”, dedite solo a imbrogliare. Che profondità! Per la serie si stava meglio quando si stava peggio!  Tradotto: viva l’Italia, catto-socio-comunista.   E i Paschi di Siena?  Frutto avvelenato  della summer  fall  dell’Italia ideologica ( e partitocratica), così rimpianta da Diamanti?     
Il tutto dopo avere citato -  tra pochi giorni è  Natale - il saggio di Caio, l’ultimo libro dell’allievo di Tizio, senza dimenticare quello di Sempronio. Ovviamente, tutti iscritti d’ufficio alla sociologia progressista: di Gioele amici siam/e insieme noi cantiam…  Insomma,  animali in twedd e velluto a coste,  da  Direzione Ufficio Studi ( tutto in maiuscolo), e non importa se del sindacato triplicista o della confindustria socialdemocratica.  Basta il bonifico. E che la barca vada. Tutto,  in chiaro, per carità.
Concludendo: post-stupidità, sociologiche. Con le quali però si campa. E pure benino  

Carlo Gambescia

lunedì 21 dicembre 2015

Arma dei Carabinieri (*)
Nucleo di Polizia Giudiziaria di [omissis]
VERBALE DI INTERCETTAZIONE DI CONVERSAZIONI O COMUNICAZIONI
(ex artt. 266,267 e 268 C.P.P.)
L'anno 2015, lunedì 21 dicembre, in [omissis] presso la sala ascolto sita al 6o piano
della locale Procura della Repubblica, viene redatto il presente atto.
VERBALIZZANTE
M.O Osvaldo Spengler
FATTO
Nel corso dell'attività tecnica di monitoraggio ambientale svolta nell'ambito della procedura riservata n. 642/2, autorizzazione COPASIR 3636/3b [Operazione NATO “SCAMBIAMOCI UN SEGNO DI PACE” N.d.V.] è stata intercettata, in data 20/12/2015, ore 11.32, presso la Casa di Santa Maura, una conversazione intercorsa tra S.S. SANCHO I e MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL, suo terzo segretario. Si riporta di seguito la trascrizione integrale della conversazione summenzionata:

[omissis]


MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL: “Ci sarebbe la proposta della Banca Mondiale, Santità”.
S.S. SANCHO I: “Ah sì. Vediamo.”
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL: [leggendo] “Santità, in vista del Giubileo prossimo venturo, Le proponiamo un’iniziativa congiunta per il Santo Natale 2016...”
S.S. SANCHO I: “Riassumi, Juan.”
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL: “Santità...[lunga pausa] Propongono un aggiornamento del presepe.”
S.S. SANCHO I. “Avanti.”
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL: “Una trasmissione televisiva in mondovisione. In ogni paese, al posto del bue e dell’asinello gli animali caratteristici del luogo.”
S.S. SANCHO I: “Cioè in Australia canguri, in Cile pinguini…?”
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL: “…in America l’aquila dalla testa bianca...”
S.S. SANCHO I: “…e in Russia l’orso, ho capito.”
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL: “La Russia è esclusa, Santità.”
S.S. SANCHO I: [pausa]“E la Sacra Famiglia?”
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL: “Come già immagina, Santità.”
S.S. SANCHO I: “Nera in Africa, gialla in Giappone, bionda in Norvegia, bruna in Spagna, e così via?”
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL: “Esattamente.”
S.S. SANCHO I: “Be’? Niente di nuovo, Juan.”
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL: “Niente di nuovo. Però c’è un paragrafo che mi preoccupa. Glielo leggo. Vediamo…ecco qua: ‘I personaggi della Sacra Famiglia saranno rappresentati in conformità sia alle caratteristiche etniche e alla tradizione culturale dei vari paesi ospitanti, sia ai valori etici e simbolici universali, ma sempre nel rispetto della dignità e della libertà della donna e dell’uomo.’ 
S.S. SANCHO I: “Non vedo il problema.”
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL: “Santità, che cosa sarebbero questi ‘valori etici e simbolici universali’? e perché ‘dignità e libertà della donna e dell’uomo’? Non bastava dire ‘dell’uomo’? Non vorrei che…”
S.S. SANCHO I: “Non vorresti che?”
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL: “Santità, e se questi ci fanno dei presepi con le coppie omosessuali?”
S.S. SANCHO I: “Impossibile! Una malafede simile è…impensabile. E anche se volessero, è impossibile, Juan. Quante volte ho detto che il matrimonio omosessuale è inaccettabile? Che è la movida del diablo?”
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL: “Certo, Santità. Ma una volta dato il benestare della Chiesa all’iniziativa, Lei pensa che saremmo in grado di controllarla fin nei dettagli? Basta una sola Sacra Famiglia sacrilega convalidata dal Papa per…”
S.S. SANCHO I: “Mai!”
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL: “Chi saprebbe discernere tra una convalida vera e una convalida falsa, Santità? Con i media che ripeterebbero…”
S.S. SANCHO I: “Basta così, ho capito. Ci rifletterò. Quanto offrono?”
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL: “Cinque miliardi di dollari.”
S.S. SANCHO I: “Cinque miliardi?!”
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL: “Uno subito, gli altri in rateazione semestrale dopo la conclusione dell’iniziativa.”
S.S. SANCHO I: “Cinque miliardi…”
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL: “Pare anche a me una cifra enorme, Santità. Un’enormità sospetta, a parer mio.”
S.S. SANCHO I: “Quante cose si potrebbero fare con cinque miliardi, Juan! Quanto bene!”
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL: “Vero, Santità, ma i poveri…”
S.S. SANCHO I: “I poveri tu non li conosci, Juan. Cosa facevano i tuoi genitori?”
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL: “Mio padre ha delle terre, Santità”
S.S. SANCHO I: “Tuo padre possiede mezza Estremadura, Juan. Alleva i più bei tori da corrida della Spagna. E dopo il seminario sei entrato subito in diplomazia. Tu i poveri li conosci dai libri.”
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL: “E’ vero, Santità. Infatti, mi perdoni: Le stavo per citare un libro.”
S.S. SANCHO I: “Non c’è niente di male a nascere ricchi, la Chiesa è la casa di tutti. E tu sei un buon sacerdote e un segretario perfetto. Preparami un memorandum, e poi vedremo.”
[S.S. SANCHO I ESCE]
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL [tra sé]: “ ‘I poveri saranno sempre tra voi’, Santità. E’ un libro anche il Vangelo.”

Letto, confermato e sottoscritto
L’UFFICIALE DI P.G.
M.o  Osvaldo Spengler

(*) "Trattasi" -   tanto per non cambiare stile,  quello  della  Benemerita...  -   di ricostruzioni che sono  frutto della mia  fantasia di  autore e commediografo.  Qualsiasi riferimento  a fatti o persone  reali  deve ritenersi puramente casuale. (Roberto Buffagni)


Chi è il  Maresciallo Osvaldo Spengler?  Nato a Guardiagrele (CH) il 29 maggio 1948 da famiglia di antiche origini sassoni (carbonai di Blankenburg am Harz emigrati nelle foreste abruzzesi per sfuggire agli orrori della Guerra dei Trent’anni), manifestò sin dall’infanzia intelletto vivace e carattere riservato, forse un po’ rigido, chiuso, pessimista. Il padre, impiegato postale, lo avviò agli studi ginnasiali, nella speranza che Osvaldo conseguisse, primo della sua famiglia, la laurea di dottore in legge. Ma pur frequentando con profitto il Liceo Classico di Chieti “Asinio Pollione”, al conseguimento della maturità con il voto di 60/60, Osvaldo si rifiutò recisamente di proseguire gli studi, e si arruolò invece, con delusione e sgomento della famiglia, nell’Arma dei Carabinieri. Unica ragione da lui addotta: “Non mi piace far chiacchiere .” (Com’è noto, il carabiniere è “uso a obbedir tacendo”). Mise a frutto le sue doti di acuto osservatore dell’uomo in alcune indagini rimaste celebri (una per tutte: l’arresto dell’inafferrabile Pino Lenticchi, “il Bel Mitraglia”). Coinvolto nelle indagini su “Tangentopoli”, perseguì con cocciutaggine una linea d’indagine personalissima ed eterodossa che lo mise in contrasto con i magistrati inquirenti. Invitato a chiedere il trasferimento ad altra mansione, sorprese i superiori proponendosi per la sala ascolto della Procura di ***. Richiesto del perché, rispose testualmente: “Almeno qui le chiacchiere le fanno gli altri.”

***

Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo lavoro, attualmente in tournée, è Sorelle d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista, musiche di Alessandro Nidi, regia di Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e Isa Danieli. Come si vede anche dal titolo di questo spettacolo, ha un po’ la fissa del Risorgimento, dell’Italia… insomma, dell’oggettistica vintage...



venerdì 18 dicembre 2015

Un articolo di Umberto Silva
L’ansia di Papa Francesco





Sul “Foglio” di  mercoledì  è apparso  il seguente ritratto di Papa Francesco, scolpito - non troviamo  verbo migliore -   da Umberto Silva, psicanalista e scrittore:

Povero Francesco, il suo viso non suggerisce Dio, il paradiso o chissà, è un volto stanco, ansioso di far qualcosa d’importante mentre sempre più faticosamente il tempo si annoda nelle mani delle Moire e la cupa Atropo è pronta a tagliarlo. (*)

Ansia di fare qualcosa di importante.  Silva coglie il punto decisivo, oltre ovviamente intuire cosa si nasconde dietro l’attivismo di Papa Francesco. Ansia,  male moderno,  frutto di paura o comunque di insicurezza, male che ha contagiato tutti, anche la Chiesa.  L’ansioso teme sempre di non farcela. Ma la Chiesa quando ha  iniziato  a temere di non essere all'altezza del suo (augusto) ruolo?  
Per alcuni, dopo che ha rinunciato al sacro, ai grandi riti collettivi, che segnavano la distanza tra la Chiesa benedicente, sulla sedia gestatoria, e le folle,  silenziose, sommesse e supplicanti.  Dopo Pio XII. Per altri, appena  ha  messo  in discussione, seppure ancora timidamente, la sua infallibilità, aprendosi alle profanità del sociale. Con Leone XIII.  Per altri ancora, quando l’umanitarismo, come passo ulteriore, rispetto all’apprezzamento del lavoro umano, in fondo fisiologico,  è penetrato nel cuore dogmatico della Chiesa. Con il Concilio Vaticano II.
Difficile dire. I grande reazionari cattolici, se reinterpretati alla luce della psicoterapia,  ci aiutano a ricondurre, le radici  dell’ansia, alla perdita dell’unità interna  (Riforma) ed esterna ( Illuminismo e Rivoluzione francese). L’ansia, traducendo il pensiero di  Joseph de Maistre in termini moderni, non sarebbe altro che il   frutto avvelenato  della separazione tra cattolici e riformati, tra Stato e Chiesa. Di qui, l’elogio della teocrazia, del dogma e del sacro come recupero della perduta unità. Ma anche - ecco il punto -  la conseguente l’ansia  di "non  farcela".
Insomma, non è facile capire le ragioni profonde dell’ansia che segna il volto di Papa Francesco.  Ne avanziamo una: ansia di recuperare la "fusione"  pre-moderna che però, proprio perché ci si è aperti al moderno, non si può indicare come “meta” ufficiale. Con il  “sospeso” che ne deriva,  angosciante e angoscioso,  che quanto più ci si integra nel moderno, tanto più  si allontana la sospirata riunificazione. Di qui,  l’accettazione, prima provvisoria, poi (come pare) definitiva, di quell’umanitarismo dolciastro che quanto più surroga l'antica unità, tanto più la rimpiazza  con  un insieme di credenze,   valori, istituti e comportamenti che sono l’esatto contrario dell'antica fede, compatta, senza se e senza ma. 
È un percorso in discesa, che, semplificando,  piace, come è giusto che sia, ai moderni. Quindi agevole, se non del tutto piacevole,  perché si svolge tra gli applausi delle folle assiepate ai lati del dolce declivio.  Il che però non significa che il Papa non sia in cuor suo consapevole della china. Di qui, quel volto ansioso e stanco. E quell’ansia di provare a  “fermare il carro”  facendo qualcosa di importante, come scrive Silva.
Forse gli  sarebbe utile un miracolo. Ma Dio sembra  tacere.  E da un bel pezzo.

Carlo Gambescia                     

giovedì 17 dicembre 2015

Consulta, fumata bianca, finalmente eletti  i tre giudici grazie a un accordo politico tra Pd e M5S
Abolire o riformare 
la Corte Costituzionale?



Vogliamo elevare il livello teorico? E uscire  dalle solite polemiche politichesi? Tipo,  ha vinto questo, ha vinto quello?  Ora, l’accordo sui giudici per la Consulta tra  Renzi e i pentastellati è frutto  dell’inimicizia politica. Nel senso che la politica non è  (o comunque non solo)  discorso pubblico, ben argomentato, in grado di convincere l’avversario  perché l’idea di bene comune, come spesso si legge,  è evidente a tutti e si pone  al di là della destra e della sinistra.  Magari lo fosse... 
In realtà, l’essenza del politico, come ha scritto Julien Freund sulla scia (fino a un certo punto) di Carl Schmitt,  è conflitto  amico-nemico su idee di bene comune che  poi così  comuni non sono.  Certo, il conflitto  può essere sublimato, nelle forme parlamentari, quindi proceduralizzato e depotenziato,  in qualche modo  addolcito.  Però conflitto resta. Ecco la grande lezione  del realismo politico. Precisazione per i maliziosi:  queste nostre conclusioni varrebbero  anche se i nomi per la Consulta fossero  frutto di un accordo  tra Renzi e Berlusconi.
Una cosa però è chiara:   come la Corte Costituzionale, che sulla carta dovrebbe essere istituzione apolitica o meglio apartitica  (nel senso di essere al di sopra della parti), finisca  in realtà  per essere schiava e succube delle divisioni politiche. Si dice, che  i suoi membri non dovrebbero essere eletti dal Parlamento. E  da chi allora? Dai  giudici stessi?  Dai  filosofi? Dagli  storici? Come se l’inimicizia tra gli uomini, legata in politica a idee differenti di bene comune,  non "corrompesse", anche giudici, filosofi e storici.  L'uomo è uno, anche in democrazia. E lottizza o si fa lottizzare, tanto per chiamare le cose con il loro nome. 
Pertanto delle due l’una:  o si prende atto, finendola con ogni ipocrisia,  che chi controlla, semplificando, la costituzionalità delle leggi, non è perfetto, e che quindi le nomine, andrebbero “spartite” tra giudici che rappresentino i legittimi interessi  delle “minoranze politiche”. Il che sarebbe “concretamente” liberale (equilibrio dei poteri, ma concreto, do you remember?)    Oppure, la si abolisca, prendendo atto che la neutralità affettiva e politica dei giudici costituzionali è una pura e semplice leggenda normativista. E che così com’è, la Corte Costituzionale, non è altro che l’ennesimo teatro di una lottizzazione interna alle istituzioni.
Insomma, per superare la lottizzazione  interna che contraddistingue l’attuale sistema,  dove i partiti lottizzano, nascondendosi  furbamente dietro un’idea di bene comune, in realtà non condivisa affatto ( e che, si badi bene, non esiste in "natura sociologica"),  si dovrebbe puntare o sulla  lottizzazione esterna,  istituzionale: ad esempio, governo (e parlamento) di destra, corte costituzionale di sinistra e viceversa, o sull’abolizione della Corte Costituzionale, perché pleonastica come la tv pubblica.
Ovviamente, esistono controindicazioni: nel primo caso, lottizzazione esterna, il rischio è quello del conflitto istituzionale, e quindi della paralisi,  conflitto  che però sarebbe manifesto, e che quindi responsabilizzerebbe, circa la necessità di scatenarlo,  maggioranza e opposizione; nel secondo caso, abolizione, il partito maggioritario, non avrebbe altri freni se non quello, semplificando, dei tribunali ordinari, spesso politicizzati e/o controllati dal Governo ( e qui si pensi all’esperienza, non del tutto felice, dello  Statuto Albertino).
Concludendo,  abolire la Corte Costituzionale, potrebbe non essere la soluzione dei nostri problemi, il che però vale anche per   l’attuale sistema.  Che fare? Riformarla, nel senso qui indicato? Forse. Sarebbe comunque un atto di realismo. Realismo politico.  
Carlo Gambescia                       

mercoledì 16 dicembre 2015

Iraq, 450 soldati italiani alla difesa della diga di Mosul
Renzi diplomatico? 
Sì, come Mussolini


Gaetano Salvemini  rimproverava a Mussolini  l’improvvisazione in politica estera e il piegarla a basse  ragioni di politica interna,  senza un disegno generale eccetera, eccetera. Atteggiamento politico che a suo avviso dava ragione delle scelte che condussero prima all’isolamento diplomatico, poi all’alleanza con Hitler, infine al disastro militare. Il suo testo,  Mussolini diplomatico,  viene tuttora letto con profitto dagli storici. Cosa c’entra tutto questo con Renzi?   Che l’ idea dell’invio a Mosul, zona di guerra caldissima, di 450 soldati  italiani per difendere la  diga e gli interessi di una impresa italiana  non può che essere frutto di improvvisazione.  Sicché ’ex Sindaco di Firenze - certo, fatte le debite proporzioni storiche -  rischia di  infilarsi, come Mussolini,  in un tunnel senza uscita. Dal momento che sul piano delle conseguenze esistono solo due possibilità:  o il frettoloso ritiro anti-stillicidio, dopo il mesto ritorno delle prime  decine di bare avvolte nel tricolore,   una progressiva escalation militare,  perché l’Isis,  maestra nei rilanci truculenti, non può farsi  sfuggire una Dogali 2 servita su un piatto d’argento.  Pensiamo in particolare al rischio-spirale, ossia  al  potere "avvitante" del crescente  invio di  truppe  a fondo perduto.  Per quale ragione usiamo quest'ultimo termine? Come definire altrimenti,  un’operazione militare, di pseudo-polizia?  Perciò priva di valori tattici, strategici, non inquadrata in alcuna alleanza ben definita, puro frutto (avvelenato)  di pacche sulle spalle scambiate con l’altro Sindaco a Washington, perché tale è la  levatura del Presidente americano, Barack Obama?   
Dicevamo, improvvisazione legata, come per Mussolini, a ragioni di politica interna. Quali potrebbero  essere le ragioni di Renzi diplomatico? Probabilmente, quelle cerchiobottiste, di mostrare alla destra interventista (poca roba in verità, però...) di fare comunque qualcosa, e provare  alla sinistra economica e pacifista (tanta roba, invece) di muoversi per scopi economici (gli interessi italiani)  e umanitari (acqua e luce), non scontentando in quest’ultimo caso, neppure il Papa.  E invece sul piano della politica esterna? Di collocarsi,  a poco prezzo  e vanitosamente - fare lo "splendido", se si preferisce... -  a metà strada tra Obama e Putin.  Il tutto, per l'appunto,  sulla pelle di 450 soldati,  comunque pochi in ogni caso.  Come lo Stato Maggiore ben sa, ma, fatte le debite proporzioni, come nel 1940, preferisce tacere e subire.
Pretoriani, destinati, comunque vada,  a pagare per tutti: senza  onore né gloria, per dirla con l’immaginoso ma efficace linguaggio di quel vecchio leone di  Jean Latérguy.  E con essi l’Italia.

Carlo Gambescia       

martedì 15 dicembre 2015

La fiction al tempo di Renzi
Il paradiso delle signore



Tutti ricordano la  televisione pedagogica del realismo sociale catto-comunista che celebrava le centocinquanta ore, le periferie romane e di  Caracas,  predominante  negli anni Settanta. Dopo venne  quella disimpegnata, con qualche culo di troppo, degli Ottanta. E infine  la televisione della “geeente”, che a dire il vero  ancora ci perseguita, degli anni Novanta e Duemila, dai dibattiti urlati a sfondo manettaro. 
Ora però i tempi sono cambiati. Hanno sdoganato il capitalismo, per decenni il nemico numero uno, perfino  degli svitati di Drive In… È ufficiale.  Dove? Come?  Quando?  Il titolo  è ripreso (con il al posto di al, a voler essere pignoli) da un romanzo di Zola, non dei migliori:  Il paradiso delle signore,  in parte riscritto e ambientato nella Milano degli anni Cinquanta. Sullo sfondo di una città calvinista qb e non ancora da bere. Dove tutti i sogni si possono avverare. In particolare, fra le stigliature leccatissime  di un grande magazzino. L’Italia riparte, il capitalismo pure: signori signore e  signorine (commesse) in carrozza!  
Diciamo che per i dialoghi  gli autori hanno saccheggiato Liala. Però la Marchesa Amalia Liana Negretti Odescalchi vendeva. E, anche  qui, gli ascolti sono ottimi: il cuore delle masse non cambia ( e forse è meglio così).  L’intreccio, ricorda Zola, quindi non è così male.  C’è però, ripetiamo,  qualcosa di profondamente  diverso,  diverso dalle fiction con Bruno Cirino, esangue maestro pasoliniano, ma con le mani a posto,  alle "meglio gioventù" sempre politicamente incazzate con padroni, questori e baroni.  Che cosa?   L’immagine del capitalismo come sogno collettivo che può diventare realtà. E per tutti:  dall’imprenditore serio, ovviamente con background americano, alla donna del Sud, femminista senza saperlo.  Milano come nuovo mondo. Un' Italia targata Max Weber. Non la Milano nebbiosa o misteriosa di Guareschi e Buzzati, ma la  Milano dinamica e solare dei pubblicitari futuristi. Senza camicia nera, però. Sono cose di cui scriveva Geminello Alvi, venticinque anni fa,  prima che  smettesse di studiare...  
Si esagera? Forse.  Del resto è la fiction al tempo di Renzi.  Buona visione a tutti.


Carlo Gambescia                           

lunedì 14 dicembre 2015

 Front National  a secco
La lezione francese



Non è vero che i sistemi elettorali non influiscano sulla lotta politica. In Francia,  grazie al doppio turno eccetera, il Front National e il suo pericoloso populismo sono  stati sconfitti. Però, è anche giusto parlare di influsso, non di  vero e proprio condizionamento,  perché al di là dei tecnicismi, restano gli uomini e le ideologie politiche. In Francia, la demagogica destra radicale è stata sconfitta da un accordo politico, tacito  o meno, tra socialisti e post-gollisti, per la difesa dei valori repubblicani.  Per contro in Italia -  leggi elettorali a parte -   la destra di Salvini, Meloni, Berlusconi vuole imitare  in tutto e per tutto  il  Fronte Nazionale, mentre Renzi  aspira ad assorbire il voto moderato. Il rischio perciò è quello di far vincere le prossime politiche ai populisti  del MoVimento5Stelle. Si dirà: i pentastellati però sono di sinistra. Sì, ma il populismo gauchista  non è migliore del populismo di destra    Perciò, per tornare sul ruolo dei sistemi elettorali: sì,  sono importanti, ma serve un surplus di unità politica, nel caso repubblicana, che in Italia manca totalmente.
Certo, come scrive oggi Alexis Brezet su “Le Figaro” non basta vincere: va intercettata la collera dei francesi. Guai ad abusare della fiducia di quegli elettori  che,  in nome de valori repubblicani, sono tornati al voto premiando i partiti costituzionali. Ascoltiamolo:

A gauche et la droite auraient tort cependant de plastronner et de revenir à leurs petites affaires comme si de rien n'était. Le FN n'a pas disparu, loin de là. La colère du peuple, non plus. En voix, le parti de Marine Le Pen fait le plus gros score de son histoire et progresse même entre les deux tours. Pour ses adversaires victorieux, l'obligation n'en est que plus grande de se montrer à la hauteur de la confiance qui leur a été accordée. (*) 

Ma questa per oggi, solo per oggi,  è un'altra storia. Godiamoci la vittoria. E soprattutto come italiani cerchiamo di imparare dai francesi. Dai "cittadini"  francesi.

Carlo Gambescia



sabato 12 dicembre 2015

Legge di stabilità: stop a spot sui giochi
Fascio-catto-comunisti  su Marte


A volte sembra di vivere su Marte. Quella dei fascisti su Marte. Oppure comunisti, tanto è la stessa cosa… (Oddio anche i cattolici non scherzano, si veda “Avvenire” di oggi).   Lo stop alla pubblicità sui giochi -  tv generaliste o meno, non importa  il problema è un altro - è veramente  roba da fantawelfare fascio-catto-comunista.  
Ciò che infastidisce e maleodora di toto, non “calcio”, ma “alitarismo”,  è l’idea di stato-etico che il divieto sottende, pericolosissima. Quella di una burocrazia in ciabatte che però paternamente  pretende di conoscere  a menadito ciò che è bene o male  per ogni singolo cittadino.  Giudicato come presuntivamente stupido, quasi a norma di legge,  e quindi bisognoso dell'aiutino etico.  Sicché la pubblicità sul gioco d’azzardo è out mentre la pubblicità-progresso sul fisco e derivati statalisti  è in…   Come quella sulle "lotterie nazionali",  rimasta al suo posto.  Quando si dice il caso… 
E nessuno  - o i soliti quattro gatti -  apre bocca. Che tristezza.

Carlo Gambescia   

venerdì 11 dicembre 2015

Banche fallite e suicidi
Perché gli italiani non sono -  né mai saranno - liberali

Luigi Einaudi, Presidente della Repubblica. Una rondine che purtroppo non ha mai  fatto primavera...

La vicenda delle banche fallite e del mantello protettivo  steso, subito (o quasi), dallo stato,  può essere occasione per ragionare sul perché gli italiani non sono - né mai saranno - liberali. Ovviamente, non siamo i primi a interrogarci sulla questione:  l’ampiezza della bibliografia in argomento è lì a dimostrarlo.
Diciamo subito, stando ai giornali di oggi, che in Italia destra e sinistra pari sono. Infatti, dicono le stesse cose: rimborsare, a spese di tutti, gli avidi e gli stupidi che si sono fatti raggirare -  come scrivevano ieri -  da un imbonitore bancario.   Dopo di che,  ne siamo più che certi,  saranno restituiti quattro soldi tra dieci-venti anni…  Il che  fa parte della commedia (all’italiana).  Però quel che purtroppo passa - parliamo del "messaggio"  -  riguarda l'errato principio che sottende l’operazione sul piano del non detto, del tacitamente accettato, e da tutti: lo stupido (perché l’avidità è una forma di stupidità) va salvato a  prescindere e soprattutto  a spese di tutti, anche di chi non avrebbe mai investito neppure un centesimo nelle obbligazioni di una  banca etrusca. E che quindi stupido non è.
Ora, il liberalismo, dal punto di vista esistenziale -  esistenziale, attenzione, non dottrinario -  non è un modo di vita  per stupidi e deboli.  Si rivolge, in primis,  ai liberi, forti e responsabili. A chi vuole salire in alto nella vita, e che quindi crede nell’impegno dello studio e del lavoro. A chi conta sulle proprie forze ed è pronto ad affrontare ogni sfida, accettando di  pagarne, responsabilmente, le conseguenze sociali, nel bene come nel male. Dal momento che, come ogni buon liberale dovrebbe sapere,  un imprenditore fallito è prima di tutto un uomo morto, socialmente morto. Ma non solo socialmente. In qualche misura, addirittura il suicidio  del pensionato di Civitavecchia,  potrebbe essere interpretato  come resipiscenza, mortale resipiscenza. E perciò essere di esempio per i gestori della Banca dell’Etruria: un bel colpo di pistola alla tempia, nel silenzio di un ufficio, per saldare il proprio debito morale… Altro che le elemosine dello stato…  Disporre  del proprio corpo, fondamentale diritto liberale,  può anche essere, anzi deve essere, soprattutto in questo caso, veicolo di espiazione e di riconquista, ex post, dell'onore sociale.
Come si capisce, un approccio del genere è per pochi, Per uomini speciali, diciamo edificatori.  E questo già è un handicap. Figurarsi in un paese di piagnoni come l’Italia, dove le tradizioni di uno stato padre-padrone sono fortissime, come del resto le attese di cittadini che aspirano contemporaneamente a fare i propri comodi e alla protezione dello stato. Detto altrimenti:  gente che mira a individualizzare i profitti e socializzare le perdite. Si è parlato, a tale proposito, di individualismo assistito. E quel che sta succedendo ne è un chiaro esempio.
Si dirà,  un liberalismo esistenziale, del genere, non esiste da nessuna parte. Giusto, però ci sono  società, dove gli individui (quindi anche politici e imprenditori) sono ritenuti forti, liberi e responsabili, più liberali insomma ( qui pensiamo al mondo anglofono), e  società, come la nostra, dove si piange con un occhio solo e si stende la mano in attesa della carità politica.  E quanto più, in Italia, si indugerà sul falso pietismo a sfondo statale, tanto più si allontanerà la possibilità di edificare - non dall’alto - ma dal basso, attraverso l’interazione, una società  di uomini liberi, forti e responsabili. Il che spiega il nostro pessimismo.
Uomini, liberi, forti e responsabili, che ovviamente saranno sempre pochi, sociologicamente pochi.Ma questa è un’altra storia.
Carlo Gambescia
         

giovedì 10 dicembre 2015

Banca fallisce, pensionato suicida
Il problema Vanna Marchi



Sì, si tratta del problema Vanna Marchi. Ma ci arriveremo alla fine. Un poco di pazienza. 
Oggi sui giornali tutti a piangere per il pensionato che si è suicidato, perché "rapinato" dalle banche (anzi banca, come entità collettiva) e dall' Unione Europea ( altra misteriosa entità collettiva rea di avere introdotto il  famigerato ball-in). E, ovviamente, tutti pronti, a chiedere, anzi imporre, l’intervento riparatore e protettivo dello Stato.
Cosa dire? Che ci dispiace per il povero pensionato. Che però, come amaramente ammette - nel biglietto lasciato alla moglie -  non è stato capace di salvare i suoi risparmi.
Una prima risposta è che con quel suicidio ha dato un esempio. Ma  a chi?   Ad altri nelle sue condizioni (pochi e sudati risparmi), perché evitino nel futuro di cadere, per avidità,  ingenuità, stupidità, nella trappola di guadagni facili, ma presentati come sicuri, da funzionari e direttori disonesti. I quali però, a loro volta, dovrebbero altrettanto dignitosamente suicidarsi, proprio come quel pensionato,  per dare un esempio di  vita ai colleghi  poco onesti.
Il suicidio è una risposta individuale. Per alcuni è segno di vigliaccheria (verso chi resta), per altri di libertà, dignità e coraggio (sempre per chi sopravvive). Non prendiamo posizione. Anche se, neppure scorgiamo, in una società di individui che si proclamino liberi (e responsabili delle proprie azioni, "fino in fondo"), altre possibilità.  Oltre a quella, ovviamente, più “normale”  della denuncia dei disonesti alla magistratura.
Ciò che invece resta assolutamente fuori luogo, ma non in Italia dove, purtroppo, il settore  bancario, fin dall’Unità è cresciuto all’ombra della politica  in nome di una fuorviante (come vedremo) difesa del bene comune. Quel che resta fuori luogo, dicevamo, dal punto di vista di una società economicamente libera, è l’intervento paternalistico dello stato. Che ottunde il senso di responsabilità, di tutti: politici, amministratori, clienti.  E che, con i salvataggi, che molti per pietismo (vero o falso)  auspicano,  riversa  - cosa che non va mai dimenticata - i danni provocati dagli avidi e dagli stupidi sulle spalle  di tutti i cittadini, e in particolare di quelli onesti e previdenti, che non sono pochi fortunatamente. Vittime comuni del bene comune. Ci sarebbe da ridere...
Ovviamente,  di quanto fin qui detto, basta aprire i giornali di oggi, nessuno  parla.  Perché? Purtroppo, per ragioni storiche, per mentalità e istituzioni, dal punto di vista dello sviluppo della società mercato, continuiamo a restare un paese latecomer, quindi tuttora arretrato. Perciò, si continua ad aspettare la manna statale dal cielo, invece di puntare su libertà e responsabilità.  Sicché si parla inopinatamente di "omicidio di stato" (per la serie rischiare individualmente  -  pardon -  mettendo però a rischio  il culo di tutti i cittadini); di "banca (attenzione non banche) "assassina"; di UE "crudele" e "di fondi salvezza pubblici necessari"  (quando, come è noto,  esistono le possibilità di assicurarsi individualmente e privatamente: certo, si deve rinunciare a una quota di profitto…)
La società di mercato, anche dei capitali, implica rischi.  Che, quando si decide di investire, vanno assunti. Non si hanno le cognizioni necessarie? Allora si mettano i risparmi sotto il materasso. Oppure, dopo, se truffati,  ci si  rivolga a un giudice. Ma non a Papà-Stato.  Naturalmente, resta la terza possibilità, cui accennavamo all'inizio. Ma non tutti ne sono capaci.
Concludendo, per coloro che sono stati truffati da Vanna Marchi - e sia  detto con tutto il rispetto per una donna che  ha coraggiosamente espiato la sua pena  -   non c’era e non è  stato  mai costituito alcun fondo sociale. E perché ce ne deve essere uno -  pagato  con le tasse di tutti i cittadini -  per le vittime di un imbonitore di  banca?      

Carlo Gambescia



mercoledì 9 dicembre 2015

Elezioni amministrative francesi
Ha vinto il Fronte Nazionale?
No, il partito della spesa pubblica



La vittoria, anzi la mezza vittoria del Fronte Nazionale,  trova la sua principale giustificazione, o causa efficiente,  nei tragici fatti di Parigi. Gli elettori, impauriti, vogliono protezione e si rivolgono verso chi la promette, o meglio in direzione di chi sappia  mostrare i muscoli. E su questo piano l’estrema destra ha una tristemente consolidata tradizione. Quindi risultato scontato, almeno al primo turno. Fortunatamente  la Francia ha un sistema elettorale che scoraggia la rappresentanza del cosiddetto terzo partito. Il contrario dell’Italia, dove grazie all’incapacità e imprevidenza della destra e della sinistra moderate, rischiamo alle prossime elezioni di  far vincere gli accoliti di Grillo.
Evitando le solite distinzioni di lana caprina tra fascismi e populismi, ottime per conquistare una  cattedra, ma non per studiare la realtà politica, sempre a proposito della protezione (in tutti i sensi però), c’è un elemento importante che accomuna il Fronte Nazionale al MoVimento5Stelle:  sono  partiti della spesa pubblica. Non tanto per il fatto che (protettivamente) promettono tutto a tutti in chiave puramente elettorale (il "partito pigliatutto"), quanto  per la gretta "filosofia" statalista (lo stato padre-padrone) dell’economia e della società, a cui si accompagna, inevitabilmente, una pericolosa concezione autarchica della nazione.  
Pertanto, con il Fronte Nazionale e  il MoVimento5Stelle  al  potere,  l’economia subirebbe un violentissimo contraccolpo. E di riflesso  ne risentirebbe il tenore di vita di tutti i cittadini. Ci spieghiamo: per redistribuire, come promettono, bisogna tassare o tagliare; troppe  tasse deprimono l’economia; troppi tagli fanno perdere i consensi.  Di qui, il rischio, per non perdere il potere fortunosamente agguantato, di involuzioni autoritarie: derive  che,  a differenza dei partiti di estrazione liberale,  sono invece nel Dna delle forze di estrema destra e di estrema sinistra. Inciso: dal momento che  il MoVimento5Stelle sembra favorevole alla decrescita e  il Fronte Nazionale a uno sviluppo controllato e limitato,  per capirne le dinamiche interne, si dovrebbe lavorare -  per ora si tratta di una semplice intuizione -  intorno al concetto di una possibile dittatura per il desviluppo (*).
In Francia, ripetiamo, hanno un sistema elettorale che funziona. Quindi il Fronte Nazionale, al di là del solito al lupo-al lupo  mediatico, rischia  di  restare fermo ai nastri di partenza. Mentre in Italia, la destra, vuole addirittura  importare la ricetta Le Pen… Ieri sui giornali fiancheggiatori era tutto un ridicolo inneggiare al duo Marine&Marion: il che, per ricaduta, indica l’autentico luogo dell’anima di personaggi come Salvini e Berlusconi (per non parlare dei nostagici post-mussoliniani): non il fascismo, non il populismo, ma qualcosa di più reale e in qualche misura pre-politico, una concezione "filosofica" a monte della politica:  lo statalismo. Che a sua volta rinvia teoricamente al costruttivismo sociale:  alla volontà di sapere, da parte di una certa élite (qui Foucault, non stona), cosa sia bene per ogni singolo cittadino.
Tradotto, e per fare un esempio: mai fidarsi dello statalista, di destra o sinistra ( quindi - attenzione - dubitare anche di Renzi…), che critica Equitalia, perché in cuor suo è un costruttivista. E quindi, sulle rovine fumanti dell'Equitalia di oggi, ne costruirà, domani, per dirla con Petrolini, una più bella e più superba che pria…
Carlo  Gambescia


(*) A.F.K Organski, Le forme dello sviluppo politico, Laterza, Bari 1970, pp.127-158, dove a proposito dei fascismi e parafascismi si parla di "regime sincratici" o, semplificando, forme di  dittatura per favorire lo sviluppo. Si tratterebbe, visto che siamo nel XXI secolo, di invertire il segno: dallo sviluppo al desviluppo,  passando, concettualmente,  dall'analisi ex post, basata su documenti storici, all'analisi, ipotetica, ex ante, sui possibili sviluppi virtuali. Una sfida politologica, piuttosto ardita, lo ammettiamo.  
           

lunedì 7 dicembre 2015

Arma dei Carabinieri (*)
Nucleo di Polizia Giudiziaria di [omissis]
VERBALE DI INTERCETTAZIONE DI CONVERSAZIONI O COMUNICAZIONI
(ex artt. 266,267 e 268 C.P.P.)
L'anno 2015, lunedì 7 dicembre, in [omissis] presso la sala ascolto sita al 6o piano
della locale Procura della Repubblica, viene redatto il presente atto.
VERBALIZZANTE
M.O Osvaldo Spengler
FATTO
Nel corso dell'attività tecnica di monitoraggio svolta nell'ambito del p.p. n 2367105 R.G.N.R. -R.R.I.T. nr. 34986, [Operazione “FINE PENA MAI”, N.d.V.] in data 06/12/2015, ore 09.45, è stata effettuata una intercettazione ambientale presso l’abitazione privata sita in Arcore (MI) di proprietà di BERNASCONI SILVANO. Presenti il detto BERNASCONI SILVANO e PERSONA IGNOTA, sedicente “LO SPIRITO DEL NATALE PASSATO”.  Si riporta di seguito la trascrizione integrale della conversazione summenzionata:

[omissis]

LO SPIRITO DEL NATALE PASSATO: “Silvano! Silvano!”
BERNASCONI SILVANO: “Scusi, chi sarebbe lei?”
LO SPIRITO DEL NATALE PASSATO: “Sono lo Spirito del Natale passato.”
BERNASCONI SILVANO: “Cribbio, è già Natale? Come passa il tempo…”
LO SPIRITO DEL NATALE PASSATO: “Ci mettiamo avanti, Silvano. Legge del marketing, se non lo sai tu…”
BERNASCONI SILVANO: “E cosa vende lei?”
LO SPIRITO DEL NATALE PASSATO: “Rimorsi, pentimento, espiazione, bontà.”
BERNASCONI SILVANO: “Capito, è un piddino. Guardi, abbiamo già dato. Se permette ho da fare, buongiorno.”
LO SPIRITO DEL NATALE PASSATO: “Ricordi, Silvano, il Natale del 1993, quando sei sceso in campo? Quando tu, l’unto del Signore, solo contro tutti impedisti che l’Italia cadesse nelle mani dei comunisti?”
BERNASCONI SILVANO: “Ricordo, ricordo. E infatti non c’è caduta.”
LO SPIRITO DEL NATALE PASSATO: “Come non c’è caduta? Al governo c’è il PD o non c’è il PD? E il patto del Nazareno chi l’ha firmato? Forza Italia, la tua Forza Italia, chi l’ha distrutta se non tu?”
BERNASCONI SILVANO: “E allora?”
LO SPIRITO DEL NATALE PASSATO: “Come ‘e allora’? Ma non ti vergogni? Non ti viene il rimorso? Non vuoi espiare, riconciliarti, essere buono?”
BERNASCONI SILVANO: “Mi piacerebbe, ma non me lo posso permettere.”
LO SPIRITO DEL NATALE PASSATO: “Con tutti i soldi che…”
BERNASCONI SILVANO: “…con tutti i soldi che avevo. Sai cosa m’è costato questo scherzetto di salvare l’Italia?”
LO SPIRITO DEL NATALE PASSATO: “L’Italia, il paese che…”
BERNASCONI SILVANO: “…il paese che amo, sì. Però vede, l’amore, a una certa età, uno si accorge che è sopravvalutato. Bello, eh? Ma è un po’ come i marchi di lusso. Fai bella figura, ma col rapporto costi/benefici non ci siamo: paghi 90 per la firma e 10 per il prodotto. Tutto sommato meglio, molto meglio le buone imitazioni. “
LO SPIRITO DEL NATALE PASSATO: “Che cosa triste hai detto, Silvano. Tu soffri, lo so!”
BERNASCONI SILVANO: “Un po’ soffro, sì, ma non poi tanto. E’ una buona imitazione della sofferenza, diciamo. Vedi, il segreto è questo: imitazioni, buone imitazioni. Lei dice che ho distrutto Forza Italia, che ho consegnato l’Italia ai comunisti. Mah. Fino a un certo punto. Ho consegnato l’Italia al PD, e cos’è il PD? Una buona imitazione dei comunisti: tante tasse; tanti diritti (a costo zero); tante chiacchiere sulla corruzione (sempre a costo zero); tante lacrime sugli immigrati invece che sugli operai; tanta UE invece di tanta URSS; in buona sostanza, tutto come al solito. E Forza Italia? Avrò anche distrutto Forza Italia, ma che cos’è il PD, se non una buona imitazione di Forza Italia? C’è l’uomo solo al comando, ci sono gli spin doctors che rigirano abilmente la frittella, ci sono i potentati locali, ci sono le seconde file ignoranti come capre, c’è anche lo slogan ‘Italia coraggio!”, cosa vuoi di più? Un’altra buona imitazione, e tutto come al solito.”
LO SPIRITO DEL NATALE PASSATO: “Va be’, ho capito. Ripasso per il Natale 2016.”
BERNASCONI SILVANO: “Le andrebbe di fare il Babbo Natale per la festa della Vigilia?”
LO SPIRITO DEL NATALE PASSATO: “Io non sono Babbo Natale! Sono lo Spirito del Natale passato!”
BERNASCONI SILVANO: “E che ci vuole? Una barba bianca, un costume rosso…insomma, una buona imitazione.”

Letto, confermato e sottoscritto
L’UFFICIALE DI P.G.
M.o  Osvaldo Spengler

(*) "Trattasi" -   tanto per non cambiare stile,  quello  della  Benemerita...  -   di ricostruzioni che sono  frutto della mia  fantasia di  autore e commediografo.  Qualsiasi riferimento  a fatti o persone  reali  deve ritenersi puramente casuale. (Roberto Buffagni)


Chi è il  Maresciallo Osvaldo Spengler?  Nato a Guardiagrele (CH) il 29 maggio 1948 da famiglia di antiche origini sassoni (carbonai di Blankenburg am Harz emigrati nelle foreste abruzzesi per sfuggire agli orrori della Guerra dei Trent’anni), manifestò sin dall’infanzia intelletto vivace e carattere riservato, forse un po’ rigido, chiuso, pessimista. Il padre, impiegato postale, lo avviò agli studi ginnasiali, nella speranza che Osvaldo conseguisse, primo della sua famiglia, la laurea di dottore in legge. Ma pur frequentando con profitto il Liceo Classico di Chieti “Asinio Pollione”, al conseguimento della maturità con il voto di 60/60, Osvaldo si rifiutò recisamente di proseguire gli studi, e si arruolò invece, con delusione e sgomento della famiglia, nell’Arma dei Carabinieri. Unica ragione da lui addotta: “Non mi piace far chiacchiere .” (Com’è noto, il carabiniere è “uso a obbedir tacendo”). Mise a frutto le sue doti di acuto osservatore dell’uomo in alcune indagini rimaste celebri (una per tutte: l’arresto dell’inafferrabile Pino Lenticchi, “il Bel Mitraglia”). Coinvolto nelle indagini su “Tangentopoli”, perseguì con cocciutaggine una linea d’indagine personalissima ed eterodossa che lo mise in contrasto con i magistrati inquirenti. Invitato a chiedere il trasferimento ad altra mansione, sorprese i superiori proponendosi per la sala ascolto della Procura di ***. Richiesto del perché, rispose testualmente: “Almeno qui le chiacchiere le fanno gli altri.”
***

Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo lavoro, attualmente in tournée, è Sorelle d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista, musiche di Alessandro Nidi, regia di Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e Isa Danieli. Come si vede anche dal titolo di questo spettacolo, ha un po’ la fissa del Risorgimento, dell’Italia… insomma, dell’oggettistica vintage...