giovedì 30 aprile 2015

Ancora su Fusaro
Un Renzi  anticapitalista



Ieri sera, un caro amico, buon conoscitore di Preve, dopo aver letto il post su Diego Fusaro, mi ha telefonato, consigliandomi di lasciar perdere. Al mio perché, ha risposto: “Si sgonfia da solo”. Aggiungendo: “Se si è sgonfiato Cacciari, che a trent’anni era un filosofo vero, figurarsi un Renzi anticapitalista, macchietta filosofica, affamato di potere (accademico) e successo (mediatico). Tempo qualche anno, tornerà all’ovile, perché gli conviene: certo, con cattedra e comparsate radiotelevisive,  magari per parlare di teologia e incidenti del sabato sera. Un caso da manuale,  perdi il tuo tempo, lascia stare. Se Renzi è il nulla politico, Fusaro è  il nulla filosofico. Sono entrambi triste segno dei tempi: un vuoto che parla ad altri vuoti.... Quarant'anni fa non era così”.
La telefonata  mi  ha  lasciato senza parole. A dire il vero,  in quel che ho letto di Diego-Matteo, non ho mai trovato nulla di interessante: solo anticapitalismo, una specie di fermento lattico  presente in quantità industriali  in tutta sua produzione. Detto altrimenti: un’idea fissa, quindi patogena come ogni monomania, capace di appropriarsi e  storpiare qualsiasi forma di pensiero.  Si pensi solo al suo trattamento di  Gentile (da Preve giudicato filosofo se non pericoloso molto ambiguo), squisitamente teoretico, mai  storico, salvo poi usare, regolarmente, le armi della storia (in primis come "senso") contro il capitalismo e  tutto quel che odori di liberaldemocrazia e modernità. Insomma, doppio registro, come hanno ben  provato indagando le epistemologie totalitarie pensatori del calibro di  Popper, Polanyi (Michael), Hayek, Boudon: teoresi per arruolare, senso della storia per fucilare. Quindi in Fusaro il nulla c’è, ma  strutturato. Pronto a fare male. Anche se il Nostro sembra buono. Proprio come Renzi.
Sono curioso di leggere il saggio su Gramsci, autentico tenore del progresso e della modernità. Suppongo però che Diego-Matteo ci spiegherà  che il valore morale dell’idea di libertà del pensatore comunista è da ricondursi a quella premoderna, anzi antica nella doppia e contrastante versione platonico-aristotelica eccetera, eccetera.  Cose note  a  chiunque conosca Preve (però in rapporto a Marx).
Il mio amico ha ragione, ma amo le cause perse. E soprattutto fiuto i cialtroni a mille miglia di distanza.
Carlo Gambescia

mercoledì 29 aprile 2015

A proposito del "fenomeno" Fusaro




Segnalo un articolo  indispensabile per capire  i limiti del  "fenomeno" Fusaro:

http://www.minimaetmoralia.it/wp/che-cosa-abbiamo-fatto-per-meritarci-diego-fusaro/

Invito, ufficialmente,  il suo l'autore, Raffaele Alberto Ventura,  a scrivere una monografia sul giovane allievo di Preve. Sarebbe veramente meritorio. Penso a qualcosa di simile ai debunking di Francesco Bucci su Galimberti e  Scalfari.   
Dell'articolo non condivido tutto.  Ad esempio Preve, che ho conosciuto di persona e con il quale ho lavorato editorialmente,  non  era un tuttologo come  il suo allievo. Cosa che andrebbe sempre ricordata. Preve  parlava e scriveva di ciò che conosceva (così mi rispose quando gli chiesi un libro su Del Noce, Gentile e Marx).   E poi era anti-accademico,  sia nei toni, sia nel linguaggio. Né Alain de Benoist, altro intellettuale che conosco altrettanto bene,  può essere liquidato alla stregua di un magliaro  neofascista:  il suo pensiero e il  fenomeno ND (soprattutto francese) sono  molto più complessi.  
Fusaro, come giustamente scrive Ventura,  è molto abile  nel presentare  i suoi "quattro concetti" dalla cattedra, con tono professorale. Il che, mi permetto di  aggiungere, indica una pericolosa "predisposizione" accademica:  fatto che in sé  non sarebbe un male,  ma  non  per un filosofo che si imponga  marxianamente (Undicesima tesi su Feuerbach) non di interpretare ma di  trasformare il mondo...  Parlo di quell'irritante condiscendenza -  una specie di patinato birignao -  da prof   "padrone della letteratura in argomento" che favorisce intorno alla sua figura  l'insano clima di appeasement editoriale, così ben circoscritto da Ventura.  Sarebbe perciò interessante, al di là della pur importante sottolineatura delle fallacie argomentative, del resto evidenti,  andare a scoprire le carte euristiche di Fusaro: indagando fonti bibliografiche e citazioni,  in cerca  di possibili sorprese.  Del resto Ventura avanza la tesi di un legame, come dire argomentativo,  tra Galimberti e Fusaro, abilissimi nel porre e riprendere gli stessi argomenti, interpolando (nel senso di ripetere a intervalli precisi) citazioni su citazioni.  E se la liaison  fosse anche di altro tipo?         

Carlo Gambescia 


  

martedì 28 aprile 2015

L’ultimo film di Moretti è secondo al botteghino
Un cinema per coetanei



L’ultimo film di Moretti incassa. Perché si va a vedere un suo  film?  Proviamo a  formulare alcune ipotesi.
Perché è di sinistra. E i progressisti, stando alle indagini statistiche,  investono di più nelle attività ricreative alte ( mostre,  musei,  libri, cinema italiano).
Perché  (a poco prezzo, in fondo) conferisce  allo spettatore  lo status ( o patentino) di “intellettuale”. Il che gratifica. Soprattutto le "zecche"
Perché  si condivide la Weltanschauung morettiana: “tutto va male,  però  siamo in pochi a  intuirlo” Il che spiega le simpatie, tra i "fasci". 
Tre ragioni che potrebbero combaciare con la quarta:   l’età degli spettatori morettiani (usiamo il condizionale perché privi di dati al riguardo).  Età,  che a nostro avviso, potrebbe essere più alta di quella media (di solito abbastanza bassa).  Probabilmente il cinema  morettiano copre   la fascia alta, dai quaranta-quarantacinque in su.  Del resto l'Italia è invecchiata, la sinistra pure, il sindacato è pieno zeppo di pensionati.  Insomma, potremmo essere davanti a un cinema quasi per coetanei. Del regista.  
Carlo  Gambescia     


lunedì 27 aprile 2015



Arma dei Carabinieri (*)
Nucleo di Polizia Giudiziaria di [omissis]
VERBALE DI INTERCETTAZIONE DI CONVERSAZIONI O COMUNICAZIONI
(ex artt. 266,267 e 268 C.P.P.)
L'anno 2015, lunedì 6 aprile, in [omissis] presso la sala ascolto sita al 6o piano
della locale Procura della Repubblica, viene redatto il presente atto.
VERBALIZZANTE
M.O Osvaldo Spengler
FATTO
Nel corso dell'attività tecnica di monitoraggio svolta nell'ambito della procedura riservata n. 765/2, autorizzazione COPASIR 8932/3a [Operazione NATO “ASCOLTO FRATERNO” N.d.V.] è stata intercettata, in data 23/04/2015, ore 11.32, una conversazione in teleconferenza intercorsa tra le utenze di Stato: n. 321***** in uso a S.E. MACCARELLA PINO, n. 345**** in uso a S.E. FINZI MATTIA, n. 388***, in uso a S.E. BOLLINI LARA. Si riporta di seguito la trascrizione integrale della conversazione summenzionata:

[omissis]

S.E. MACCARELLA PINO: “Vi leggo la bozza del mio discorso di sabato, ditemi un po’ che ve ne pare, poi mi fate sentire i vostri.”
S.E. FINZI MATTIA: “Tu dov’è che lo fai?”
S.E. BOLLINI LARA: “Lo fa al Piccolo di Milano, Mattia.”
FINZI MATTIA: “Cos’è, un asilo?”
MACCARELLA PINO: “Un teatro. Sai, Strehler, Brecht…”
FINZI MATTIA: “Apperò! Ci sono i tedeschi!”
MACCARELLA PINO: “Aehm. Comincio così: ‘Oggi la nostra Repubblica celebra un sentimento di libertà che è diventato pietra angolare della nostra storia e della nostra identità. Dopo gli anni della dittatura l'Italia è riuscita a riscattarsi, unendosi alle forze che in Europa si sono battute contro il nazifascismo, anticipazione del percorso che avrebbe portato poi all'avvio del progetto europeo e che noi siamo chiamati ancora a sviluppare…’ “
FINZI MATTIA “E qua mi fai mille punti con la Merkel, bravo Pino!”
MACCARELLA PINO: “Aspetta, non è finito: ‘Oggi è la festa della libertà di tutti: una festa di speranza ancor più per i giovani. Battersi per un mondo migliore è possibile e giusto, non è vero che siamo imprigionati in un presente irriformabile’ . Eh?”
FINZI MATTIA: “Ma quanti piccioni mi prendi con questa fava? Il Jobs Act, La Buona Scuola, l’Italicum! Le riforme! Geniale!”
BOLLINI LARA: “Perché, lo ius soli no? ‘La libertà di tutti, Mattia: tutti, quindi anche i migranti.”
MACCARELLA PINO: “Grazie, grazie, troppo buoni. E voi?”
FINZI MATTIA: “Il mio fa così: ‘Viva l’Italia libera! Grazie a quel passato, oggi possiamo immaginare il nostro futuro e immaginarlo con fiducia: l'ottimismo che deve accompagnarci non è dunque un auspicio, un io-speriamo-che-me-la-cavo, ma è la certezza di poter contare su radici come queste. Un Paese in grado di rialzarsi da quelle macerie e ricostruirsi così è un Paese in grado di affrontare e superare tutto. Tutto. Il volto di oggi è stato pagato a caro prezzo ieri’ “.
MACCARELLA PINO: “Scusa Mattia: ‘Il voto di oggi è stato pagato…’ ?!”
FINZI MATTIA: “No, il volto, il volto.”
MACCARELLA PINO: “Ah, ecco…”
[le Loro Eccellenze MACCARELLA, FINZI, BOLLINI ridono]
BOLLINI LARA: “Comunque è bellissimo, guarda, mi commuovo…[scoppia a piangere]”
MACCARELLA PINO: “Lara, le hai prese le medicine?”
BOLLINI LARA: [ancora singhiozzando] “Scusate, ma sono parole così belle…[si ricompone]. Dunque. Il mio dice così: ‘Molti di quei giovani che arrivano da noi, nei loro paesi sono partigiani. Giovani che a volte osano sperare di poter vivere in pace e in sicurezza, osano richiedere anche loro questo diritto e a volte prendono ogni mezzo per arrivare in un posto sicuro, perché  non è un diritto che vale solo per alcuni, è un diritto che vale per tutti. Arrivano anche sulle nostre coste, ma avrebbero preferito stare a casa loro, ma non hanno questo privilegio: e molti di loro oggi sono partigiani nel loro paese.’ Che ve ne pare?".
[lunga pausa]
BOLLINI LARA: “Vi sembra un po’ troppo?”
MACCARELLA PINO e FINZI MATTIA [insieme]: “Ma no, assolutamente!”
FINZI MATTIA: “Anzi, guarda, mi fai venire in mente un’idea…”
MACCARELLA PINO: “Certo che tu, una ne fai e cento ne pensi…”
FINZI MATTIA: “Sentite un po’. Migranti = uguale partigiani, partigiani = libertà, ottimismo, fiducia, futuro…”
BOLLINI LAURA: “Tu sì che mi capisci, Mattia…”
FINZI MATTIA: “Aspetta, aspetta. Allora: se i migranti sono i nuovi partigiani…”
MACCARELLA PINO: “…e se i partigiani sono ‘la pietra angolare della nostra storia e della nostra identità’…”
FINZI MATTIA: “…come si fa a non dargli il diritto di voto?”
MACCARELLA PINO e BOLLINI LARA [insieme]: “Eh già!”
FINZI MATTIA: “Logico, no?”
MACCARELLA PINO: “Però, scusa…”
FINZI MATTIA: “Dimmi, Pino, parla pure liberamente.”
MACCARELLA PINO: “Cioè, di per sé non fa una piega, ma come facciamo a essere sicuri che…”
BOLLINI LARA: “Sicuri di cosa?! Pino!”
MACCARELLA PINO: “Sicuri che votano per noi, Lara. Sai, tra i migranti c’è anche gente arretrata, di destra, che segrega le donne, odia gli omosessuali…”
BOLLINI LARA: “Pino! Questi pregiudizi, da te non me li aspettavo!”
FINZI MATTIA: “No, Lara, Pino ha ragione, i voti sono voti, non scherziamo. Pino, quanto costa la tua Panda?”
MACCARELLA PINO: “Ma non lo so…poco, quasi niente…”
FINZI MATTIA: “Diecimila euro?”
MACCARELLA  PINO: “Anche meno.”
FINZI MATTIA “Gli diamo una Panda.”
BOLLINI LARA: “Bravo! Questa è integrazione!”
FINZI MATTIA: “Il diritto di voto, e la Panda. La Panda però, dopo le elezioni.”
[pausa]
MACCARELLA PINO: “L’idea è bella, ma scusa, Mattia: e i soldi? Dici che ci sono i soldi?”
FINZI MATTIA: “Si aumentano le accise sulla benzina, che ci vuole?”
MACCARELLA PINO: “Eh già.”
FINZI MATTIA: “E poi vuoi mettere l’effetto sul PIL, sulla domanda interna?”
BOLLINI LARA: “E sull’occupazione, poveri operai!”
FINZI MATTIA: “Come no, anche sull’occupazione.”
MACCARELLA PINO: “Sei proprio convinto, Mattia?”
FINZI MATTIA: “Al mille per cento.”
MACCARELLA PINO: “Però a una condizione.”
FINZI MATTIA: “Quale?”
MACCARELLA PINO: “Grigia.”
BOLLINI LARA e FINZI MATTIA [insieme] “Grigia cosa?”
MACCARELLA PINO: “La Panda: gliela diamo grigia. Non mandiamo messaggi diseducativi. Sobrietà, non consumismo.”
BOLLINI LARA: “Anche alle donne? Io in quanto donna vorrei un colore più…più sereno, ecco…”
MACCARELLA PINO: “Eh no, qua punto i piedi: grigia!!”
[pausa]
FINZI MATTIA: “E grigia sarà.”
BOLLINI LARA: “Ma…”
FINZI MATTIA: “No, Lara, c’è un limite a tutto: grigia. Telefono subito a Marchionne, gli do la buona notizia.”
MACCARELLA PINO: “Grazie, Mattia.”
FINZI MATTIA: “Ma figurati. E tu Lara non ti arrabbiare. Ti ricordi come fa la canzone? ‘O partigiano, portami via…’  O bella ciao: non ti contenti se il migrante partigiano ti porta via con la Pandina grigia?”


Letto, confermato e sottoscritto
L’UFFICIALE DI P.G.

M.o  Osvaldo Spengler


(*) "Trattasi" -   tanto per non cambiare stile,  quello  della  Benemerita...  -   di ricostruzioni che sono  frutto della mia  fantasia di  autore e commediografo.  Qualsiasi riferimento  a fatti o persone  reali  deve ritenersi puramente casuale. (Roberto Buffagni)




Il Maresciallo Osvaldo Spengler, nato a Guardiagrele (CH) il 29 maggio 1948 da famiglia di antiche origini sassoni (carbonai di Blankenburg am Harz emigrati nelle foreste abruzzesi per sfuggire agli orrori della Guerra dei Trent’anni), manifestò sin dall’infanzia intelletto vivace e carattere riservato, forse un po’ rigido, chiuso, pessimista. Il padre, impiegato postale, lo avviò agli studi ginnasiali, nella speranza che Osvaldo conseguisse, primo della sua famiglia, la laurea di dottore in legge. Ma pur frequentando con profitto il Liceo Classico di Chieti “Asinio Pollione”, al conseguimento della maturità con il voto di 60/60, Osvaldo si rifiutò recisamente di proseguire gli studi, e si arruolò invece, con delusione e sgomento della famiglia, nell’Arma dei Carabinieri. Unica ragione da lui addotta: “Non mi piace far chiacchiere .” (Com’è noto, il carabiniere è “uso a obbedir tacendo”). Mise a frutto le sue doti di acuto osservatore dell’uomo in alcune indagini rimaste celebri (una per tutte: l’arresto dell’inafferrabile Pino Lenticchi, “il Bel Mitraglia”). Coinvolto nelle indagini su “Tangentopoli”, perseguì con cocciutaggine una linea d’indagine personalissima ed eterodossa che lo mise in contrasto con i magistrati inquirenti. Invitato a chiedere il trasferimento ad altra mansione, sorprese i superiori proponendosi per la sala ascolto della Procura di ***. Richiesto del perché, rispose testualmente: “Almeno qui le chiacchiere le fanno gli altri.”

sabato 25 aprile 2015

Oggi si celebra  il settantesimo anniversario della Liberazione
Il 25 aprile di Giano Accame

Giano Accame (1928-2009), sedicenne a Salò.


Che cosa avrebbe detto Giano Accame di questo 25 aprile. Conoscendolo, se ne sarebbe uscito così: “Occhio, non celebrate troppo, perché  il settantennio portò sfortuna ai sovietici, nel 1987 festeggiarono, per poi chiudere i battenti della storia appena quattro anni dopo…”.   
Giano, storico, giornalista, scrittore, era un fascista sui generis, dal tratto elegante, discreto, ragionatore, autoironico, tollerante, sincero  fino al punto, talvolta, di disarmare. Come certi suoi sorrisi.  La sua morte nell’aprile  2009  ha lasciato un enorme  vuoto culturale a destra. Ma anche altrove. Perché con lui si poteva parlare di Giolitti come di Mussolini.  E di tante altre cose. Non amava il capitalismo ma  ne apprezzava  le caratteristiche organizzative, così come non sottovalutava l'importanza delle riacquistate libertà democratiche, né disprezzava  il "sogno americano", magari riveduto e corretto alla luce delle opere di  Fitzgerald,  Pound e del primo Dos Passos. Insomma, era l'esatto  contrario del neofascista, imbecille e  settario.
Lo ricordo nel suo studio, in poltrona,  sotto cascate di volumi, capo chino, matita  in pugno,  libro aperto sulle gambe. Un cervello al lavoro. Che spettacolo meraviglioso. A  ottant’anni.  Leggeva e studiava di tutto. E con perspicacia filtrava e traduceva per il  buon selvaggio del postfascismo.  Nelle note dei suoi libri c’era sempre spazio per la versione contraria: Una storia della Repubblica (Rizzoli 2000) è un capolavoro di equilibrio. Giano, un liberale mancato in camicia nera?  L'incarnazione, intuita da Giolitti,  dei  "quattro schiaffi" nel paese dei "gobbi"? Del manganello (a termine) come continuazione dello Statuto Albertino con altri mezzi?  Insomma, un fascista per caso?  Chissà... Comunque sia, lui,  il più liberale  fra i tanti (per alcuni troppi) fascisti da me conosciuti ( molti dei quali trasmigrati armi e bagagli nel berlusconismo, per poi tornare  scalzi e rabbiosi all'antico culto del Littorio), si  è fatto seppellire in  camicia nera.  Prova di coerenza? O forse di  non conformismo verso i postmissini belusconizzatisi a ritmi giapponesi?  In ogni modo, il liberalsocialista Noventa avrebbe apprezzato.   
Ma torniamo al 25 aprile. Che cosa - battute a parte -  avrebbe detto Giano?   Anche perché,  lui,  il 25 aprile del 1945, sedicenne, fresco di un solo giorno (l’ultimo) di Repubblica Sociale,  si  salvò per un pelo dalla fucilazione. Avrebbe aggiunto,  che la celebrazione del 25 aprile è piena di buchi:  non  c’è patria, non c’è nazione, non c’è unità politica,  ma solo quattro maestrini imbiancati che continuano a dividere l’Italia in buoni e cattivi.  Più che una celebrazione, uno sfogo nevrotico. Roba da  pensionati ai giardinetti della politica, forse in alcuni casi da psichiatri, senza aggettivi.
Fortunatamente o meno, gli italiani neppure se ne accorgono.     
Carlo Gambescia

venerdì 24 aprile 2015

Non è una questione di regime politico
Perché l’Europa  non si batte

"Il ratto d'Europa" secondo Botero...

Il tema è tra quelli preferiti  dai cultori della decadenza, a destra (soprattutto l’estrema) come a sinistra. I primi imputano la  crisi politica  in cui versa l’Europa, se non l’intero Occidente, all’abbandono del valori tradizionali al relativismo, alla democrazia, alla laicizzazione. I secondi, fanno discendere la crisi politica da quella economica, causata dall’impasse sistemica della “macchina capitalista”.  Pur cambiando l’ordine dei fattori, il risultato però non sembra  cambiare: un’ Europa  imbelle  incapace di qualsiasi decisione,  se non quella  di tirare fuori,  di volta in volta,  un poco di oro e di terre periferiche. Proprio come la Roma degli ultimi due secoli, dedita febbrilmente a retribuire i meno nemici, affinché  la difendessero dai nemici-nemici di turno, fino all'onda d'urto finale che  avrebbe travolto e sommerso ciò che restava della parte occidentale dell'Impero.
Pertanto anche gli imperi franano (e che imperi, altro che quelli di Napoleone e Hitler...). Certo, la durata dell' Impero romano supera di gran lunga quella  di  successive entità politiche dello stesso tipo. E la longevità, come negli individui, è sempre un mistero.  Però, la caduta  non è un problema di regime politico, forse  (e qui hanno ragione, in parte,  i “materialisti”) di struttura economica e dimensioni politiche.  Tuttavia l’economia e la geopolitica  non spiegano tutto. Al fondo della crisi politica ed economica c’è sempre una crisi morale che si ripercuote sull’organizzazione militare ed economica.  Ci spieghiamo meglio.
Si diffonde tra le élite e le masse  un senso di appagamento esistenziale, ci si concentra, ingigantendoli, sui problemi del presente, ci si divide in fazioni,  si vive  alla giornata  e,  cosa fondamentale, non si difendono e trasmettono i valori che hanno reso grandi.   Perché battersi, quando altri  (forse) possono battersi per noi?  Oppure, se il nemico può essere comprato?   Ecco i principali interrogativi "morali" delle istituzioni politiche mature ( imperi o repubbliche, tra le quali includiamo le democrazie contemporanee).  E il solo porli, non promette nulla di buono. E qui si pensi, per tornare all’Europa, all’immaturità morale  delle classi dirigenti post-Seconda Guerra Mondiale che, forse perché troppo innervate di  socialismo e cristianesimo pauperista, si stanno mostrando sempre più incapaci di  difendere e trasmettere i valori  di libertà,  giustamente e vittoriosamente difesi dall’aggressione  nazifascista e comunista.  Per fare solo un piccolo esempio: non si possono  difendere al tempo stesso il caos antieroico sessantottino e il  valore, anche organizzativo di un'impresa militare,  il disordine e l’ordine…  
Ovviamente, ogni regime ha le sue debolezze “congenite”. Ad esempio, gli imperi il lento coordinamento,  le repubbliche la lunghezza dei processi decisionali.  Ma sono concause. Il vero problema è quello della saturazione morale. Detto altrimenti, del “rammollimento”,  dello scorgere  nella sola  idea di confronto militare  un pericolo per la propria “tranquilla” esistenza. Si tratta di una costante politica,  ossia di qualcosa che si ripete nella storia, prescindendo dal regime politico. Un'idea  rovinosa che di regola  viene giustificata dalle élite e condivisa dalla masse,  nascondendosi (tutti insieme) dietro il comodo paravento dell’ideologia religiosa, filosofica, politica, economica. Pareto, grandissimo liberale archico,  nel Trattato di sociologia generale ( quindi prima di altri cantori calvi della decadenza),  ha scritto pagine  fondamentali in argomento.  Alle quali rinviamo.
Concludendo,  cosa ha deciso ieri l’ Ue ?  Di triplicare i fondi per Triton…  

           Carlo Gambescia                           

giovedì 23 aprile 2015

Il libro della settimana: António Bento (a cura di), Razão de estado e democracia, Edições Almedina  , pp. 316. 

http://www.almedina.net/catalog/product_info.php?products_id=19167


Dal punto di vista strettamente sociologico la Ragione di Stato può essere definita in due modi: o come strumento al servizio di un potere burocratico, monopolizzante l'uso della forza legittima, comunque coercitivo (Max Weber); o come copertura "tecnica", in particolari circostanze, di un potere nudo, anch’esso coercitivo, esercitato da pochi (o da uno solo), senza il preventivo consenso democratico sui singoli atti (Harold D. Lasswell). Nei due casi ci si riferisce a un potere capace di espandersi in modo illimitato, perché  in grado  di auto-riprodursi e quindi agli antipodi di quello teorizzato dalle liberal-democrazie contemporanee come potere  destinato a scomparire,  se ci si passa l’espressione, per "auto-castrazione", e quindi condannato a non avere "eredi".  In realtà, tutti i regimi politici, inclusi quelli liberal-democratici, sono costretti a fare i conti, in ambito sociologico, con le regolarità della politica, ossia  con quei fenomeni politici che si ripetono nel tempo, assumendo forza propria. Altro che autocastrazione del potere... Si pensi solo alla regolarità “sviluppo e decadenza del potere” e, di conseguenza, ai mezzi non sempre moralmente e democraticamente leciti  - sui  quali da sempre discutono   i "tecnici" della Ragion di Stato - messi in atto   dai governanti per favorire lo sviluppo e impedire la decadenza politica in quanto tali. E perciò a prescindere dai valori, più o meno giusti, istituzionalmente incarnati ( liberali, cristiani, socialisti, comunisti, eccetera).
Insomma, il potere, non  sempre è ammaestrabile "tecnicamente",  perché , per dirla con Carl Schmitt,   assume «oggettiva autonomia rispetto al potente» (Carl Schmitt, Dialogo sul potere, Adelphi 2012, p. 22): sociologicamente parlando, la “Ragione di Stato”,  è sempre il prolungamento ( certo anche "tecnico")  di un potere che difende se stesso. E in che modo? Razionalizzando, attraverso "derivazioni" (in senso paretiano), le “Ragioni” della sua stessa esistenza, “Ragioni” che, pur muovendo dai governati, idealizzano le “Ragioni” dei governanti, finendo spesso per andare, quanto agli esiti, oltre gli uni e gli altri. Infatti, non sempre si può, né idealmente ( con i buoni propositi) né tecnicamente ( con i mezzi più adatti),  arrestare la decadenza o favorire lo sviluppo politico nel senso desiderato. Per dirla, nuovamente con Pareto, la Ragione di Stato, al di là delle raffinatezze ideali, tecniche e istituzionali,  in cui si possa incarnare ,  indica sociologicamente  una sola cosa: la “persistenza” di quel potente “residuo” che gli uomini chiamano potere. Con il quale, ripetiamo, le liberal-democrazie non possono non fare conti. Ma - ecco la domanda delle domande - è possibile un incontro tra Ragione di Stato e democrazia?
All’ affascinante interrogativo è dedicata l’ottima raccolta curata da António Bento, Razão de estado e democracia (Edições Almedina). Si tratta di un progetto di ricerca realizzato nell’ambito dell’Instituto de Filosofia Prática,  centro  finanziato dalla Fundação para Ciência e a Tecnologia, dell’Universidade da Beira Interior (Covilhã, Portogallo). Il volume, che si muove nell’ambito delle filosofia politica e della storia delle idee, riunendo insigni specialisti, non solo portoghesi ma di rilievo europeo, fornisce alcuni punti fermi di interesse sociologico, e proprio nel senso più sopra anticipato.  Di qui, la necessità di queste note.
Dopo l’eccellente e sintetica Introdução di António Bento, nella Prima parte (“Idade Moderna”) vengono discusse alcune fondamentali scoperte e aporie, maturate, per l’appunto, in età moderna, intorno alla Ragione di Stato. E probabilmente, proprio per sbarazzare il campo da una visione della politica, sociologicamente ingenua, perché fondata sul dover essere (ideale) e non sull’essere (reale) sociologico delle cose umane.
Rui Bertrand Romão (Considerações sobre a razão de Estado e a conservaçao do estado, pp. 13-23),  spiega molto  bene, perché autoconservazione del potere e conservazione dello stato,  non sempre  collimino,  soprattutto quando prevalgono gli interessi particolari. Di conseguenza, in società frammentate e divise come le nostre, anche il potere burocratico finisce per essere considerato un potere tra gli altri. E di riflesso, la conservazione dello stato non può non risentirne. Un tema che ricorre anche nel saggio di Diogo Pires Aurélio (Antinomias da razão de estado, pp. 25-50), dove si mostra con eleganza concettuale  come la Ragione di Stato sia stata necessariamente divisa, fin dal suo esordio cinquecentesco, tra bisogno di segretezza, come mezzo, e bene pubblico, come fine: due realtà rivelatesi nel tempo sempre più antitetiche. Probabilmente un ritorno al politico, in senso puro -  come  vivere politicamente -  potrebbe facilitare la ricomposizione tra i due momenti. E questa sembra essere la tesi racchiusa nel corposo testo di Thierry Ménissier (Inactualidade de Maquiavel? Regresso ao “maquiavelismo”, pp. 51-99).
Interessante anche il saggio di Luís Salgado de Matos (Cristo mestre de Maquiavel: A Razão de Estado nas palavras de Cristo no evangelho de S. Mateus , pp. 101-108), soprattutto per l’approccio molto particolare che ricorda quello di Giuseppe Prezzolini (Cristo e/o Machiavelli, Rusconi 1971). Il quale, in realtà suggeriva un via mediana tra Cristo e Machiavelli mentre Salgado de Matos pone l’accento sul lato machiavelliano dell’insegnamento di Gesù. Il che però non ne diminuisce, il non comune, interesse interpretativo.
Non meno validi i tre scritti conclusivi della Prima parte: António Bento (Máximas de Estado, segredos de Estado, golpes de Estado e razão de Estado em Gabriel Naudé, (pp. 109-148); Montserrat Herrero (Neutralizaçao da consciência e razão de Estado nas origens da filosofia política liberal , pp. 149-176); Martim de Albuquerque ( Razão de Estado e segredo «versus» democracia e publicidade? , pp. 177-198). Bento tratteggia in modo magistrale la figura di Gabriel Naudé: il più importante teorico della politica pura, dopo Machiavelli: una politica modernamente intesa, senza veli etici o abbellimenti morali. Nel cui pensiero il potere, schmittianamente, va oltre gli uomini e non sempre si lascia addomesticare. Ed è questo forse il suo più importante segreto trasmesso ai posteri, oltra ai raffinati consigli agli uomini politici di ogni  tempo, su come  gestire "tecnicamente" la Ragione di Stato.  La Herrero, partendo da Hobbes e Locke, coglie invece il primitivo dissidio, interno alla gnoseologia liberale, tra ragione pubblica e ragione privata, tra bisogno di protezione e bisogno di libertà: mai sanato da uno stato liberale solo apparentemente neutrale; di qui, la difficoltà di edificare una ragion di stato liberale capace di incarnare, non solo formalmente, consenso morale e decisione politica. Martim de Albuquerque, sottolinea invece come segreto e trasparenza siano sempre frutto, anche nelle democrazie, di un equilibrio storico, legato quindi agli uomini e agli eventi contingenti, e perciò non sempre perseguibile: un equilibrio tra difesa della democrazia e uso di mezzi che non possono essere ( o almeno non sempre) democratici e «trasparenti». Una tragedia.
Nella Seconda parte (“Idade contemporânea”), si studia il mondo contemporaneo; il discorso si fa meno storico-teoretico e più sociologico. Jerónimo Molina ( Introduções à Razão de Estado , pp. 201-220), propone   una intrigante  rilettura del pensiero di Giuseppe Ferrari, autore di una celebre e oggi dimenticata,  purtroppo proprio  in Italia, Histoire de la raison d’État. La tagliente attenzione di Molina  si volge principalmente alle regolarità della politica, alcune delle quali, come quella del ciclo politico e quindi delle differenti «Ragioni di Stato»,  già formulate in Ferrari. Insomma, regolarità come scelta politologica:  parti integrante e necessarie  di qualsiasi teoria realistica della politica, quale studio, per dirla con Freund, altro autore caro a Molina, del «politico».
Segue il sottile scritto di Juan Manuel Forte ( Coup d’État e razão de Estado: A sombra de Naudé no costitucionalismo liberal, (pp. 221-242), dove si evidenzia quanto scrivevamo all’inizio di queste note: come in tutti i regimi, incluso quello liberale, la “Ragione” di Stato, messa a fuoco da Naudé, non sia altro  che il prolungamento di un'azione-reazione del potere che difende se stesso, razionalizzando, attraverso "derivazioni" in senso paretiano, le “Ragioni” della sua stessa esistenza. Un meccanismo di azione-reazione che va oltre le “Ragioni” storicamente invocate, che di volta in volta possono essere le più differenti, incluse quelle delle libertà liberali: si tratta di un meccanismo, scoperto e anticipato da Naudé. Di qui, probabilmente, la sua ombra incombente.
Si tratta di un argomento che ritorna, benché declinato secondo modalità differenti, anche nei saggi di Alessandro Arienzo (Razão de Estado costitucional e democracia de emergenza: os percursos da conservaçao contemporãnea , pp. 243-272) e di Gianfranco Borrelli (Razão de Estado, Gouvernamentalité, governance: Percursos da Razão política ocidental na época moderna e contemporânea). pp. 273-297). Arienzo fornisce un eccellente e appassionato quadro della Ragione di Stato come strumento conservativo dei contemporanei valori liberali, senza peraltro dimenticare  la criticità della  realtà  politica ed economica, criticità che oggi sembra contraddistinguere il difficile  cammino  del mondo Occidentale. Borrelli, si sofferma. con pari intensità evocativa e analoga  intelligenza degli eventi, sui modelli di governance mondiale e sulle difficoltà, conseguenti al forte e diseguale progresso tecnologico ed economico, di conciliare democrazia e mantenimento dello status quo, attraverso il ricorso, da parte dell’Occidente a una Ragione di Stato più tecno-economica che politica.
Il libro  si chiude con  il denso  saggio di Jaime Nogue Pinto (Democracia e Razão de Estado , pp. 299-313). Il quale, rispondendo in qualche misura alla domanda fondamentale posta nell’ Introduçao da António Bento (è possibile conciliare Ragione di Stato e democrazia?), asserisce - malinconicamente, ci pare -   che il politico, come regolarità, è più forte delle istituzioni storiche e di ogni etica dei principi. Soprattutto in politica estera. E che perciò come mostra l’esperienza Usa, in particolare dopo l’11 Settembre, anche il popolo più democratico del mondo, come dicono di se stessi gli americani, fin dal tempo di Tocqueville, non si è tirato indietro e ha accettato le durissime leggi antiterrorismo e le campagne militari all’estero: primum vivere, deinde philosophari… Come dire, rivedendo e aggiornando l’antico adagio: Prima difendersi, poi discettare sull’ottimo governo…  Prima difendersi dal "nemico": altra regolarità. Pertanto la risposta racchiusa in Razão de estado e democracia è sì. Anche se - ecco l’amara ma lucida postilla à la Naudé - il libro, di cui suggeriamo una pronta traduzione in lingua italiana, spiega, e molto bene, che deve essere la democrazia liberale a piegarsi al politico. E non viceversa. Anche perché, se ci si trastulla giocando con  i balocchi concettuali pacifisti,la Verità (del Politico) si vendica sempre. E in che modo? Ad esempio,  come è accaduto, con la distruzione,   frutto di un improvviso atto di guerra,  delle Torri Gemelle.

Carlo Gambescia

mercoledì 22 aprile 2015

Reddito minimo: nulla di nuovo sotto il sole
“E io pago...”


Non sappiamo ancora  come finirà.  Se il Reddito minimo in caso di disoccupazione (per ora limitato ai cinquantenni),  lanciato da Boeri e caldeggiato da Poletti e Renzi, andrà a sostituire  l’attuale regime di  Cassa integrazione nelle sue varie forme.  Ma c’è un punto più interessante, come dire ideologico. Da approfondire.
Per la destra pro-mercato la disoccupazione è sempre volontaria, nel senso che un nuovo lavoro si finisce sempre per trovarlo: se si resta disoccupati è perché lo si vuole. Quindi tasse bassissime (dal momento che l'assistenza sociale costa)
Per la sinistra anti-mercato, la disoccupazione è sempre involontaria: chi perde il  lavoro, va sostenuto e aiutato a ritrovarlo. Quindi tasse altissime (per le ragioni di cui sopra, ma al contrario). Nel mezzo si collocano le politiche di centro, né pro né anti. Quindi, diciamo,  tasse elevate, progressive (Costituzione del 1948 docet). Parliamo di  politiche, quelle di centro, che, più o meno, hanno caratterizzato la storia della Repubblica.  In Età liberale invece, pur con qualche accomodamento nel periodo giolittiano, dominava il principio della disoccupazione volontaria. In quella fascista, la disoccupazione era ritenuta volontaria solo per i non possessori di tessera Pnf. 
In definitiva, per la storia d’Italia,  non si può parlare di applicazione pura dei due principi. E allora?  Il Paese non è mai stato totalmente liberale  né totalmente socialista. Sicché,  le misure caldeggiate dalla triade Renzi-Poletti-Boeri continuano a muoversi all’interno del centrismo. Un punto però  è certo: tenere in piedi i due sistemi Reddito minimo per i cinquantenni, Cassa integrazione  per tutti gli altri, sarebbe  costoso.  Forse troppo.  Comunque sia,   nulla di nuovo sotto il sole.  Le tasse di sicuro non scenderanno.  Anzi, probabilmente continueranno a salire.   Insomma, come diceva Totò: “ E io pago...”.

Carlo Gambescia       

martedì 21 aprile 2015

L’Italia, la Libia e “l’ecatombe nel Mediterraneo”
Il legalitarismo conviene. Ma a chi?


Blair (Iraq docet) avrebbe  inviato le truppe. E da un pezzo. Renzi (e Alfano)  vogliono invece arrestare gli scafisti.  Il problema è tutto qui. Nell’ottica.  L’Italia, per motivi, che ora spiegheremo, insiste nel ragionare in termini di criminalità organizzata. Invece, come tutti sanno ( è il segreto di Pulcinella),  dietro i novecento affogati, dietro gli scafisti non c’è la mafia,  ma il disfacimento della Libia  come entità statuale. E cosa più grave, la  feroce marcia trionfale  dell’Isis.  
Insomma, non è un problema di ordine pubblico ma geopolitico. Qui  servono soldati non poliziotti, vigili del fuoco e "crocerossini".   E cosa più importante, occorrono  politici dotati di visione strategica (per inciso qualcuno spieghi a Prodi, che consiglia di punire la Libia non comprando petrolio, che la Libia è tornata all’età delle tribù combattenti).  Qui  servono  un blocco navale  e un’ operazione di terra per controllare almeno la fascia costiera libica. E così  impedire altre tragedie. Ma soprattutto occorre un esempio. Un atto politico-militare dall’alto valore simbolico-dimostrativo: l’Italia deve provare che quando serve, sa premere il grilletto (qualcuno, purtroppo, giustamente sorriderà...).   Quindi si dovrebbe agire da soli, subito, come fanno le potenze, anche medie,  ma serie (certo,  nel caso, coordinandosi informalmente, con con chi ci stia...). Come  ad esempio usano  fare  i francesi nelle  ex colonie  (anche se in scala più piccola, e come invece non abbiamo saputo fare in Somalia, Eritrea ed Etiopia, per non parlare della Libia, dove abbiamo stupidamente contributo alla caduta di Gheddafi, quindi destra e sinistra pari sono. Salvini che ora si agita tanto, dovrebbe farsi un esame di coscienza... Anche Berlusconi però... che all'epoca non alzò un dito per salvare il suo "amico Mu'ammar" ).
E invece no. Si aspetta, mettendo in scena la solita manfrina buonista da mamme senza frontiere. Ovviamente,  l’ atteggiamento per così dire “prudente”,  ha un suo perché: da un lato si teme, e   giustamente,  l’impreparazione  delle nostre forze armate ( da anni allo sbando organizzativo e  finanziario), dall’altro di  incidere  sugli equilibri politici interni.  Detto, in modo qualunquistico, che l'ennesima guerra perduta  possa dare il  via a un nuovo balletto delle poltrone. Temutissimo da Renzi, sbarcato a Palazzo Chigi da appena un anno. Naturalmente, agendo così, l’ex Sindaco di Firenze dà prova - definitiva -   di non aver nulla in comune con Blair.  Il che spiega l’altro giochino: quello - visto che Obama non collabora -  dello scaricabarile italiano, rigorosamente istituzionale (non sia mai...),  sull’Europa e l’Onu.    Insomma,  il legalitarismo conviene.  Ma a chi?


Carlo Gambescia        

lunedì 20 aprile 2015

   

Arma dei Carabinieri (*)
Nucleo di Polizia Giudiziaria di [omissis]
VERBALE DI INTERCETTAZIONE DI CONVERSAZIONI O COMUNICAZIONI
(ex artt. 266,267 e 268 C.P.P.)
L'anno 2015, lunedì 6 aprile, in [omissis] presso la sala ascolto sita al 6o piano
della locale Procura della Repubblica, viene redatto il presente atto.
VERBALIZZANTE
M.O Osvaldo Spengler
FATTO
Nel corso dell'attività tecnica di monitoraggio svolta nell'ambito del p.p. n 2367105 R.G.N.R. -R.R.I.T. nr. 34986, [Operazione “FINE PENA MAI”, N.d.V.]è stata intercettata, in data 19/04/2015, ore 16.00, una telefonata intercorsa dall’utenza n. 322***** in uso a BERNASCONI SILVANO all’utenza n. 345**** in uso a DUDU’ [cane barboncino registrato in proprietà di NATALE FRANCESCA, convivente del sunnominato BERNASCONI SILVANO]. Si riporta di seguito la trascrizione integrale della conversazione summenzionata:

[omissis]


BERNASCONI SILVANO: “Mi manchi, sai?”
DUDU’: “Bau.”
BERNASCONI SILVANO: “Fra poco compio ottant’anni, ti rendi conto? Mi sento…non so, non immaginavo che andasse così.
[pausa]
DUDU’: “Bau.”
BERNASCONI SILVANO: “Je suis veuf, je suis seul, et sur moi la nuit tombe.”
DUDU’: « Bau? »
BERNASCONI SILVANO : ” Tutti mi tradiscono, mi abbandonano, mi sparlano alle spalle, neanche si danno più la pena di nascondersi…non mi ama più nessuno, Dudù.”
DUDU’: “Bau!”
BERNASCONI SILVANO: “Scusa: tu sì. Tu sì che sei fedele. Eh, la fedeltà…”
DUDU’: “Bau…”
BERNASCONI SILVANO: “Sì, lo so, ma vedi…ero fedele a modo mio.”
DUDU’: “Bau?”
BERNASCONI SILVANO: “Fedele a me stesso, Dudù. Fedele al mio sogno di gioventù…al Silvano col sorriso malandrino da tombeur, al Silvano che si inventa la vita ogni giorno, al Silvano con lo chic e con lo chèque, circonfuso dalle luci della ribalta, circondato dall’amour delle belle, dall’amour del pubblico che applaude, ‘Silvano, grazie di esistere!’ Aah! Ah, l’amour, Dudù! L’amour! … e adesso?”
DUDU’: “Bau!”
BERNASCONI SILVANO: “Eh, lo so cosa vuoi dire: ‘E tu, Silvano? Lo sai provare tu, l’amour?’ [pausa] No. No, non ci riesco più. E forse…”
DUDU’: “Bau…”
BERNASCONI SILVANO: “…sì, forse è per questo che ho tanto bisogno dell’amour degli altri. Cribbio, sai che sei proprio intelligente?”
DUDU’: “Bau.”
BERNASCONI SILVANO: “Secondo te dove ho sbagliato? Ah, magari sapessi parlare!”
DUDU’: “Certo che so parlare.”
BERNASCONI SILVANO: “Dudù! Sai parlare?!”
DUDU’: “Certo. Sei tu che non me l’hai mai chiesto. Comunque, vuoi sapere dove hai sbagliato?
BERNASCONI SILVANO: “Sì.”
DUDU’: “Ma tu la vuoi sapere la verità? Sei sicuro?”
BERNASCONI SILVANO: “Sì.”
DUDU’: “Hai fifa, Silvano. Niente coraggio, niente amour.”
[pausa]
BERNASCONI SILVANO: [interrompe la comunicazione telefonica. Intercettazione ambientale:]  “Francesca! Francesca! Adesso basta con questi animali per casa!”


Letto, confermato e sottoscritto
L’UFFICIALE DI P.G.
M.o  Osvaldo Spengler

(*) "Trattasi" -   tanto per non cambiare stile,  quello  della  Benemerita...  -   di ricostruzioni che sono  frutto della mia  fantasia di  autore e commediografo.  Qualsiasi riferimento  a fatti o persone  reali  deve ritenersi puramente casuale. (Roberto Buffagni)


Chi è il  Maresciallo Osvaldo Spengler?  Nato a Guardiagrele (CH) il 29 maggio 1948 da famiglia di antiche origini sassoni (carbonai di Blankenburg am Harz emigrati nelle foreste abruzzesi per sfuggire agli orrori della Guerra dei Trent’anni), manifestò sin dall’infanzia intelletto vivace e carattere riservato, forse un po’ rigido, chiuso, pessimista. Il padre, impiegato postale, lo avviò agli studi ginnasiali, nella speranza che Osvaldo conseguisse, primo della sua famiglia, la laurea di dottore in legge. Ma pur frequentando con profitto il Liceo Classico di Chieti “Asinio Pollione”, al conseguimento della maturità con il voto di 60/60, Osvaldo si rifiutò recisamente di proseguire gli studi, e si arruolò invece, con delusione e sgomento della famiglia, nell’Arma dei Carabinieri. Unica ragione da lui addotta: “Non mi piace far chiacchiere .” (Com’è noto, il carabiniere è “uso a obbedir tacendo”). Mise a frutto le sue doti di acuto osservatore dell’uomo in alcune indagini rimaste celebri (una per tutte: l’arresto dell’inafferrabile Pino Lenticchi, “il Bel Mitraglia”). Coinvolto nelle indagini su “Tangentopoli”, perseguì con cocciutaggine una linea d’indagine personalissima ed eterodossa che lo mise in contrasto con i magistrati inquirenti. Invitato a chiedere il trasferimento ad altra mansione, sorprese i superiori proponendosi per la sala ascolto della Procura di ***. Richiesto del perché, rispose testualmente: “Almeno qui le chiacchiere le fanno gli altri.”

venerdì 17 aprile 2015

La parole e le cose
“Macelleria messicana"





Ci sono termini entrati nel linguaggio politico e giornalistico di cui nessuno riesce a stabilire la provenienza precisa. E anche di un certo peso. Si pensi a quel che sta succedendo a proposito delle dichiarazioni dell’agente Tortosa  sulla “macelleria messicana”, come hanno sentenziato i giudici,   scatenata dalle forze di polizia  nella Caserma Diaz  durante il G8 di Genova.
Se si fa una ricerca su Google circa le origini e il significato dell’espressione viene fuori poco.  Le definizioni  più attendibili sono contenute nel ben informato Urban Dictionary (*). Però, come dire,  di rimbalzo e in chiave ipotetica.  Perché  nell’Urban  è trattata   la voce  “the mexican standoff” o "mexican standout" (stallo messicano) che,  secondo l’inaffidabile Wikipedia (**)  sarebbe alle radici del termine “macelleria messicana”.  Ma, come vedremo,  tra le due voci non c’è ponte, se non quello rappresentato dalla zoppicante ipotesi wikipediana.   
In pratica, (la “top definition", su 21) indica una situazione di stallo  in cui ci si tiene sono tiro, prima del massacro finale,  privo di vincitori e vinti.  Come  ne “Le  iene” di Tarantino.  Una forma di "duello", come si evince, che per il  modus operandi rinvierebbe ai pistoleros messicani fine Ottocento…  E dal momento che si tratta di un termine ripreso e sviluppato  dalla cultura pop americana (soprattutto cinematografica), giunto a noi attraverso gli schermi, esso rivela, come ogni stereotipo hollywoodiano, un amaro retrogusto razzista. Comunque sia,  tutte le altre definizioni del’ Urban,  che abbracciano i campi più diversi della vita sociale ( lavoro, cinema, ristorazione, tempo libero, sesso, pornografia, eccetera),  privilegiano l’idea dello stallo:  di una situazione ferma, bloccata dalla quale, comunque vadano le cose, nessuno uscirà  camminando sulle proprie gambe. 
Che c’entra tutto questo con i fatti della Diaz? Dove  con  le mani, anzi con i manganelli,  i poliziotti  non sono sicuramente rimasti fermi?  Mah…  Oddio, forse un  nesso in fondo c'è.  Quale? Considerati i toni surreali delle polemiche di questi giorni, soprattutto se si pensa a  quel che  sta accadendo (non solo) ai confini dell'Occidente,  diciamo pure che tutti  hanno perso (qualcosa). A cominciare dal senso della misura.  

Carlo Gambescia


  


giovedì 16 aprile 2015

Il Papa, la teoria del gender e la scuola pubblica
Genderismo? Nessun "aiutino"(di Stato)




Non sappiamo se la teoria del  gender sia “espressione di frustrazione e di una rassegnazione che mira a cancellare la differenza sessuale perché non  sa più confrontarsi con essa”. Però raccogliamo il consiglio del Papa  “a non disertare il tema”.
Intanto, riportiamo nella sua completezza il passo che qui ci interessa,  tratto  dal discorso tenuto  ieri durante l’Udienza generale del mercoledì.

 “La cultura moderna e contemporanea ha aperto nuovi spazi, nuove libertà e nuove profondità per l’arricchimento della comprensione di questa differenza. Ma ha introdotto anche molti dubbi e molto scetticismo. Per esempio, io mi domando, se la cosiddetta teoria del gender non sia anche espressione di una frustrazione e di una rassegnazione, che mira a cancellare la differenza sessuale perché non sa più confrontarsi con essa. Eh, rischiamo di fare un passo indietro. La rimozione della differenza, infatti, è il problema, non la soluzione. Per risolvere i loro problemi di relazione, l’uomo e la donna devono invece parlarsi di più, ascoltarsi di più, conoscersi di più, volersi bene di più. Devono trattarsi con rispetto e cooperare con amicizia. Con queste basi umane, sostenute dalla grazia di Dio, è possibile progettare l’unione matrimoniale e familiare per tutta la vita. Il legame matrimoniale e familiare è una cosa seria, elo è per tutti, non solo per i credenti. Vorrei esortare gli intellettuali a non disertare questo tema, come se fosse diventato secondario per l’impegno a favore di una società più libera e più giusta”.



La teoria del gender  - semplifichiamo -   è   frutto di un approccio culturalista.  Per cui uomini e donne sono tabula rasa e di conseguenza condizionabili su tutti i fronti (a partire da quello dell’identità di genere) attraverso i  processi di socializzazione e inculturazione (per dirla in socio-antropologhese). È scontato che una posizione  del genere  si scontri con l’approccio opposto della Chiesa Cattolica, che sempre per amor di semplicità (caro vecchio rasoio di Ockham), definiamo  metaculturale,  per cui uomini e donne  (e anche la coppia stessa) sono fatti a  immagine di Dio,  quindi nessuna tabula rasa, ma precise differenze ( a partire dal genere)  immodificabili.
Le due posizioni sono inconciliabili, non c’è ponte. Dal punto di vista politico si  tratta allora di garantire che sia i culturalisti che i meta-culturalisti possano liberamente professare le proprie idee. Come però? Di sicuro, non imponendo  nessuna delle due  “teorie”, magari attraverso le istituzioni scolastiche. Quindi niente “ora di religione” genderista, né di religione cattolica, ma neppure corsi di storia degli  approcci religiosi o genderisti…  Insomma,  non è una battuta,  niente laicismi genderisti o religiosi.  Mani nette.  Le idee, soprattutto se nuove, devono maturare spontaneamente e accettare la sfida del senso comune,  senza “aiutini” istituzionali.  E mai pertanto essere imposte dall’alto. L’idea dello Stato, virtuoso, pedagogista e confessionale verso qualsiasi religione, laica o meno, oltre che falsa è  totalitaria.  Quindi la scuola, in particolare quella pubblica, deve tenersi fuori dalla mischia. E non abusare -  principio che deve valere per ogni altra istituzione -   della sua posizione, in Italia purtroppo dominante.  
Concludendo, se è vero come sostengono alcuni, che in  classe  non  servono “crocifissi-crocifissi”, allora è altrettanto vero che non occorrono neppure crocifissi-genderisti.
Carlo Gambescia
     

       

mercoledì 15 aprile 2015

La strage al tribunale di Milano e i funerali di Stato
I giudici sono più uguali degli altri cittadini
  


Non desideriamo affrontare le cause della strage al Tribunale di Milano. Una strage è una strage,  uccidere persone inermi  si tratti  di  giudici o  di barboni,  è  fatto  di gravità assoluta.
Quel che però stupisce è l’idea lampo dei funerali di Stato, con addirittura la presenza di Mattarella.  In fondo non si tratta di vittime del  terrorismo, né di militari  caduti in combattimento, né di altissime personalità pubbliche. Certo, il magistrato ucciso, è indubbiamente "caduto nell'adempimento del dovere". Però, non si tratta di opera della "criminalità organizzata" (*). Scorgiamo, insomma, una forzatura.  Si intuisce chiaramente che lo stesso Stato, che non ha saputo difendere i suoi cittadini,  chiede scusa,  ricorrendo a un gesto riparatore, dall'alto valore simbolico. 
Ma c’è dell’altro.  Dicevamo dei barboni. Ora,  alle esequie di coloro che vivono in mezzo alla strada, spesso trucidati dai teppisti,  non abbiamo mai visto una sola autorità pubblica, figurarsi il Presidente della Repubblica (la "vetrina" mediatica di Lampedusa non conta...). Certo, il barbone non indossa alcuna toga o divisa...   Qui  invece c’è di mezzo un giudice.  Giusto.  Tuttavia,  non è un segreto per nessuno, l’assoluta  sudditanza della politica verso la magistratura.  Poi si tratta del Tribunale di Milano, la cui Procura è la  punta di lancia del  trotskismo giudiziario italiano. Quindi non si sa mai… Ciò però significa che ci sono cittadini più uguali degli altri.  Ne prendiamo atto. 

Carlo Gambescia    

martedì 14 aprile 2015

Il  nuovo film di Moretti, dedicato alla madre
E chi se ne frega


A giorni  uscirà  il nuovo film di  Nanni Moretti.  Non  ce ne può fregare di meno.  Stitiche di azione e sentimenti, le pellicole del regista romano sono il classico prodotto del comunista frustrato uso attaccarsi ai treni che non arrivano in  orario.  Oddio, c’è anche di peggio: Woody Allen si attacca alle minorenni.
Del resto, come sanno i celebranti, l’uomo è avaro.  E forse questo è il trait d’union con il suo grande nemico: Alberto Sordi, che  almeno faceva ridere.  Anche se -  va detto -  Moretti e Sordi  sono italicamente complementari:  da un lato, l’Italia del maestrino dolente, dall’altra, quella dell’ opportunista insolvente (sì, venezianeggiamo, nessuno è perfetto, però senza attico, organico  o meno, a Campo de' Fiori).  
Perciò  non andremo a vedere il  “nuovo capolavoro”:  un film, come si legge,  che va a completare “la morettiana trilogia del lutto” (da pronunciare alla Fantozzi), dopo la “Stanza del figlio” e “Caos calmo”. Insomma,  roba da prendersi a martellate  gli attributi sulla famosa incudine… 
A buttarla sul colto: un cinema spinoziano, arido, senza speranza, con attori manichini, che procede per  assiomi ego-centrati su una mente gnostica.  L'unica cosa  consolante  è che Moretti ne ha girati solo dodici.       
La pellicola,  come  preannunciano i media “compagni” (politicamente e amicalmente), potrebbe essere premiata a Cannes da altre giurie “compagne” (come sopra). Il top dell'autoreferenzialità, tipo "gesuiti euclidei vestiti come dei bonzi per entrare a corte della dinastia della dinastia dei Ming". Tradotto dal francobattiatese: se la cantano e se la suonano da soli.  Insomma, per dirla  alla buona, piangono il morto per fregare il vivo. Quindi che si può fare? Come difendersi?  Disertare il botteghino, of course.  Colpire Moretti nella tasca. Tirchio com'è...       
  
Carlo Gambescia
  

      

lunedì 13 aprile 2015

Arma dei Carabinieri (*)
Nucleo di Polizia Giudiziaria di [omissis]
VERBALE DI INTERCETTAZIONE DI CONVERSAZIONI O COMUNICAZIONI
(ex artt. 266,267 e 268 C.P.P.)
L'anno 2015, lunedì 6 aprile, in [omissis] presso la sala ascolto sita al 6o piano
della locale Procura della Repubblica, viene redatto il presente atto.
VERBALIZZANTE
M.O Osvaldo Spengler
FATTO
Nel corso dell'attività tecnica di monitoraggio svolta nell'ambito della procedura riservata n. 34987, autorizzazione COPASIR 372/1 [Monitoraggio Utenze di Stato, N.d.V.] è stata intercettata, in data 06/04/2015, ore 12.00, una telefonata intercorsa da utenza non identificata[i] sull'Utenza di  Stato n. 331*** in uso a S.E. FINZI MATTIA, PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI. Si riporta di seguito la trascrizione integrale della conversazione summenzionata:

[omissis]


UTENTE NON IDENTIFICATO: “Ascolta.”
S.E. FINZI MATTIA: “Chi parla?”
UTENTE NON IDENTIFICATO: “Il Difensore. Non interrompere, ascolta.”
S.E. FINZI MATTIA: “Chi ti ha dato questo numero?”
UTENTE NON IDENTIFICATO: “Il tuo regno è in pericolo, ascolta.”
S.E. FINZI MATTIA: “Cos’è, “Scherzi a parte”? Mavaffa….” [S.E. interrompe la comunicazione, ma l’UTENTE NON IDENTIFICATO continua a comunicare attraverso la suindicata Utenza di Stato. Perizia tecnica in corso.]
UTENTE NON IDENTIFICATO: “La Terza Gerarchia ti ammonisce: digiuna, prega, fai penitenza, vai pellegrino nel luogo terribile che è casa di Dio e porta del Cielo, dove il gran Principe vigila sui figli del tuo popolo.”
S.E. FINZI MATTIA: “Come no. Già che ci siamo dammi indirizzo e codice postale.”
UTENTE NON IDENTIFICATO: “Monte Sant’Angelo (FG), CAP 71037[ii]
S.E. FINZI MATTIA: ”Carnesecchi[iii], la rintracciamo sì o no questa chiamata? Ecchè ci state a fare costà, le belle statuine?!”
CARNESECCHI IVAN: “E’ un attacco molto sofisticato, Presidente. Il flusso dati rimanda a una cella inesistente.”
UTENTE NON IDENTIFICATO: “Colà gettati ai piedi del gran Principe, pregalo con umiltà, affida il tuo regno alla sua protezione.”
S.E. FINZI MATTIA: “Non è uno scherzo?!”
CARNESECCHI IVAN: “Uno scherzo che al mondo lo sanno fare sì e no tre servizi, Presidente.”
S.E. FINZI MATTIA: “Gli americani?”
CARNESECCHI IVAN: “Per esempio.”
UTENTE NON IDENTIFICATO: “Non scoraggiarti, spera, credi! Ricorda la profezia: un Veltro verrà!”
S.E. FINZI MATTIA: “Checcazzo! Carnesecchi!!! O scopri perché gli americani mi scongelano Veltroni, o torni a timbrare i passaporti all’Impruneta!”

Letto, confermato e sottoscritto
L’UFFICIALE DI P.G.
M.o  Osvaldo Spengler



(*) "Trattasi" -   tanto per non cambiare stile,  quello  della  Benemerita...  -   di ricostruzioni che sono  frutto della mia  fantasia di  autore e commediografo.  Qualsiasi riferimento  a fatti o persone  reali  deve ritenersi puramente casuale. (Roberto Buffagni)

[i] Ricerca utenza non identificata tuttora in corso.
[ii] Risulta corrispondere all’indirizzo del Santuario di San Michele Arcangelo.
[iii] CARNESECCHI dr. IVAN, consulente per la sicurezza informatica di S.E. il Presidente del Consiglio.




Chi è il  Maresciallo Osvaldo Spengler?  Nato a Guardiagrele (CH) il 29 maggio 1948 da famiglia di antiche origini sassoni (carbonai di Blankenburg am Harz emigrati nelle foreste abruzzesi per sfuggire agli orrori della Guerra dei Trent’anni), manifestò sin dall’infanzia intelletto vivace e carattere riservato, forse un po’ rigido, chiuso, pessimista. Il padre, impiegato postale, lo avviò agli studi ginnasiali, nella speranza che Osvaldo conseguisse, primo della sua famiglia, la laurea di dottore in legge. Ma pur frequentando con profitto il Liceo Classico di Chieti “Asinio Pollione”, al conseguimento della maturità con il voto di 60/60, Osvaldo si rifiutò recisamente di proseguire gli studi, e si arruolò invece, con delusione e sgomento della famiglia, nell’Arma dei Carabinieri. Unica ragione da lui addotta: “Non mi piace far chiacchiere .” (Com’è noto, il carabiniere è “uso a obbedir tacendo”). Mise a frutto le sue doti di acuto osservatore dell’uomo in alcune indagini rimaste celebri (una per tutte: l’arresto dell’inafferrabile Pino Lenticchi, “il Bel Mitraglia”). Coinvolto nelle indagini su “Tangentopoli”, perseguì con cocciutaggine una linea d’indagine personalissima ed eterodossa che lo mise in contrasto con i magistrati inquirenti. Invitato a chiedere il trasferimento ad altra mansione, sorprese i superiori proponendosi per la sala ascolto della Procura di ***. Richiesto del perché, rispose testualmente: “Almeno qui le chiacchiere le fanno gli altri.”