martedì 28 febbraio 2006


 Enel,  Francia, Italia
Le dinamiche monopolistiche 
del  capitalismo



Lo stop francese alla scalata Enel della società Suez sta scatenando uno psicodramma nazionalista, soprattutto in Italia. Tuttavia il vero punto della questione, a differenza di quel che si legge su molti giornali, non è lo "sgarbo" francese nei riguardi dell'Italia, ma l'assenza di una politica energetica e industriale europea veramente comune.
La reazione francese, in assenza di una volontà politica europea, è se non giustificabile comprensibile. I francesi cercano di tutelare la propria autonomia energetica e industriale, in un settore economico segnato dall'assenza di qualsiasi vera politica comune. E dove i diversi paesi procedono in ordine sparso, oppure si limitano a discutere in interminabili riunioni di contributi alle dismissioni industriali e all'agricoltura protetta. Insomma quello francese è un puro e semplice riflesso di autodifesa... Al quale sarebbe stupido rispondere con ritorsioni economiche.
Il problema invece è piuttosto complesso e di non facile soluzione.
In primo luogo, gli studiosi di geopolitica hanno ragione quando affermano che sui mercati mondiali possono competere solo le grandi imprese, dotate di notevoli risorse, quadri adeguati e strategie globali. Dal punto di vista strettamente geopolitico l'Europa dovrebbe puntare, proprio in termini di accorpamento, sulla formazione di una specie di supergruppo pubblico per l'energia, con quadri europei, capace recepire attuare, nei riguardi del resto del mondo, le linee guida di una politica energetica e industriale comune
In secondo luogo, quel che può essere giusto dal punto di vista geopolitico può non esserlo da quello strettamente economico. Un supergruppo pubblico europeo per l'energia implicherebbe prezzi certamente più stabili, ma proprio perché monopolista i prezzi sarebbero più alti rispetto a quelli attuali. Inoltre sul piano delle dimensioni una macrostruttura economico-industriale imporrebbe sue gerarchie, suoi quadri, e una logica di tipo particolaristica, legata al funzionamento di una grande struttura, fortemente burocratizzata. Di qui sprechi e disfunzioni.
In terzo luogo, una macrostruttura economica richiede, alle sue spalle, un struttura politica, ancora più forte e accentrata, capace appunto di controllarla. Senza poi considerare il fatto che per giungere alla creazione di una supergruppo pubblico europeo dovrebbe essere modificata tutta l'attuale legislazione europea sulla concorrenza. Inoltre andrebbe ripercorsa in linea teorica e pratica la stessa strada che negli anni Cinquanta e Sessanta condusse alle nazionalizzazioni. Dovrebbe perciò essere chiaro quanto una scelta del genere possa confliggere con la dominante retorica delle privatizzazioni e gli interessi dei grandi colossi dell'energia europea, che invece tendono a "correre" ognuno per sé. Un progetto dunque di difficilissima realizzazione.
In quarto luogo, visto che il capitalismo procede per razionalizzazioni e accorpamenti (insomma, tende naturalmente al monopolio), sicuramente anche nel settore dell'energia, si giungerà alla nascita di un supergruppo europeo. Ma con caratteristiche private e non pubbliche. In che modo? Attraverso le "guerre di mercato" tra imprese medio-grandi. Il supergruppo europeo potrebbe essere a capitale privato franco-tedesco, con piccole partecipazioni di altre imprese europee, e dunque anche italiana.
Sempre che gli Stati Uniti ne consentano la nascita... Da questo punto di vista andrebbero monitorati attentamente gli investimenti americani nei settori energetici e industriali europei, investimenti che attualmente stanno crescendo. Infine, per quel che riguarda la durata del processo di concentrazione, è difficile stabilire una data-termine: probabilmente ci vorranno almeno dieci-quindici anni, o forse più. E quel che ora sta accadendo mostra che il processo è appena iniziato. E che la Francia, cerca di bloccarlo puntando su antiche prerogative nazionalistiche. Il che è comprensibile, ma insufficiente dal punto di vista storico-economico: i nazionalismi( francese, italiano, ecc.) non possono più influire, per una evidente sproporzione di risorse e forze, in alcun modo sulle gigantesche dinamiche di concentrazione monopolistica del capitale, non solo europee ma mondiali.
Né si deve confidare troppo nella nascita di un nazionalismo europeo. Che avrebbe come inevitabile corollario il dirigismo politico ed economico.
L'Europa purtroppo è finita in un vicolo cieco. Come ne uscirà? 
Carlo Gambescia

lunedì 27 febbraio 2006


Ciampi, Scalfari Romano e i giudici
L'utopia dell'imparzialità




"Giudici siate e apparite imparziali". L'appello di Ciampi ai giudici dell'Associazioni Nazionale Magistrati ha suscitato un interessante scambio di editoriali polemici tra Sergio Romano e Eugenio Scalfari. Che merita una riflessione.
Infatti le posizioni di Romano e Scalfari riassumono in modo esemplare i termini ideologici del dibattito sull'imparzialità dei giudici. E non solo.
Secondo Romano ("Il ritorno all'imparzialità"- 25.2.06 - www.corriere.it) "il magistrato che si esprime nella vita pubblica come cittadino e come elettore perde una parte della sua autorità morale. Se vuole essere rispettato deve rinunciare ad alcune facoltà e licenze, deve essere magistrato anche quando non tratta di affari della giustizia". In pratica il giudice deve "uscire dalla mischia [politica] e parlare soltanto nei tribunali. Un passo -conclude Romano - che gioverebbe alla loro autorità e all'Italia".
Secondo Scalfari ("Le toghe rosse e la guerra dei cent'anni" - 26.2.06 - www.repubblica.it) "un cittadino che decide a un certo punto della sua vita di scegliere la carriera giudiziaria, di partecipare ad un concorso e di vincerlo, da quel momento in poi [dovrebbe se desse ascolto a Sergio Romano] comportarsi come un monaco di clausura, sordo, cieco e muto in tutto salvo che agli articoli delle legge ". Il che però, conclude, suona come "un invito (...) scoperto all'ipocrisia". Si "pretende che il magistrato ne faccia sfoggio riducendosi a un manichino impagliato".
E qui è bene fare chiarezza. Scalfari rappresenta il versante progressista del liberalismo. Mentre Romano ne rappresenta quello conservatore. Le due facce della stessa moneta.
Per il liberismo progressista (che ha origini giacobine) il diritto è uno strumento di intervento sociale, di cui il giudice si serve per cambiare la società e migliorare l'uomo. In questo senso il giudice viene prima delle legge.
Per il liberalismo conservatore (che ha origini utilitaristiche) il diritto è uno strumento per limitare il danno sociale, di cui il giudice si può servire solo nei limiti consentiti dalla legge. In questo senso il giudice viene dopo la legge.
Scalfari vede nella difesa dell'imparzialità dei giudici di Romano, una difesa dello status quo (della società italiana, messa invece a dura prova da Berlusconi...). Mentre Romano vede nella difesa dell'interventismo dei giudici di Scalfari un attacco a quella che nonostante Berlusconi resta la migliore delle società italiane possibili...). Scalfari è dalla parte di Saint-Just, Romano da quella di Bentham e Burke.
Entrambi, per esemplificare si ispirano a due modelli società: con o senza Berlusconi... Perciò esprimono due posizioni assolutamente politiche, segnate appunto dall' interventismo o dall' imparzialità verso Berlusconi. Indicando ai giudici due precisi schemi di comportamento politico.
Da questo punto di vista, piaccia o meno, il diritto rivela di essere sempre politico. Dal momento che è sempre in qualche misura interventista, anche quando si richiama all'imparzialità: il giudice, come lo Stato in economia, "interviene"anche quando si astiene perché "lascia fare" sulle base di norme giuridiche, o economiche, superate o inadeguate ai nuovi bisogni... Perciò l'imparzialità dei giudici è pura e semplice utopia. In certa misura, il più coerente tra i due, è Scalfari, il quale rivendica apertamente l'interventismo dei giudici. E bene fa a parlare di ipocrisia, a proposito delle tesi di Romano.
A questo punto però è corretto continuare ancora a parlare di divisione liberale dei poteri e di indipendenza della magistratura dalla politica? Soprattutto se la si intende come indipendenza da un progetto politico di società? Non è altrettanto ipocrita, come fa Scalfari, rivendicare a un tempo l'interventismo dei giudici (in nome di un progetto politico) e l'indipendenza degli stessi giudici dal potere esecutivo e legislativo, cioè da istituzioni che di fatto e di diritto incarnano un preciso progetto politico? Quello, comunque, rappresentato dalll'unica moneta del pensiero liberale...
La tragedia della teoria liberale dei diritto è appunto questa: se c'è concordanza di progetti tra politica e magistratura si rischia un totalitarismo interventista di tipo giacobino, se non c'è concordanza la "guerra civile" tra politici e giudici (tra conservatori e progressisti, o come sta accadendo tra berlusconiani e antiberlusconiani).
Il vero punto della questione è come uscire dal vicolo cieco.  E in definitiva della necessità - anche se l'espressione può apparire paradossale - di una giustizia giusta, nei riguardi di tutti i cittadini. Probabilmente andrebbe rimessa in discussione la divisione dei poteri. 

Ma come?   Ecco il problema... 

Carlo Gambescia

venerdì 24 febbraio 2006

La riunione del Cicr
La logica del gattopardo



"Compiaciuta attesa del nulla" , come nel Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Ecco l' espressione che può essere usata per capire meglio il senso del vero e proprio spettacolo gattopardesco offerto ieri dal mondo politico-bancario in occasione della prima riunione post-Fazio del Cicr (Comitato interministeriale per il credito e il risparmio).
Perché?
Perché Tremonti (Tesoro), Draghi (Banca d'Italia), Cardia (Consob), Catricalà (Antitrust) hanno parlato, per così dire, la stessa lingua di Fazio. Non è forse vero che l 'ex Governatore sosteneva l'importanza delle concentrazioni nazionali per favorire la competitività delle banche italiane? Che voleva rivedere la legge sull'Opa per rendere le scalate più difficili? E che auspicava criteri di reciprocità, da applicare nei rapporti con le banche straniere?
Bene, ieri, stando alle indiscrezioni dei giornali, Tremonti e Draghi hanno sostenuto le stesse tesi. E, per giunta, sotto l'occhio benevolo, dei presidenti di Consob e Antitrust, cioè di coloro che dovrebbero vigilare e opporsi a ogni forma di fusione e concentrazione azionaria e creditizia.
Tremonti avrebbe dichiarato: "Più concentrazioni ci sono in Italia, tra banche italiane, e meglio è" ("Corriere della Sera"). Draghi, da par suo, avrebbe rilevato "il forte interesse degli istituti stranieri per le banche italiane" ("Repubblica"), e in particolare europee ("Corriere della Sera"), dichiarandosi per giunta non contrario a rivedere in chiave antiscalate "la 'sua' legge sull'Opa" ("Repubblica"). Tremonti, il nemico giurato di Fazio, all'epoca da lui bollato come no market oriented, avrebbe addirittura affermato, che con Draghi, altro tenace sostenitore del libero mercato almeno fino alla riunione di ieri, " 'c'è stata una generale condivisione' sia sulla possibilità di stringere i meccanismi dell'offerta, sia sull'eventualità di inserire negli statuti delle società clausole di tutela [contro le scalate]" ("Corriere della Sera").
Insomma, grazie a Tremonti e Draghi, la defenestrazione di Fazio, come quella dell'ultimo Borbone per certa aristocrazia siciliana postunitaria, si è risolta nella "compiaciuta attesa del nulla". Tutto procede come prima
Tre riflessioni conclusive.
La prima, più teorica, è che il capitalismo, anche quello bancario, come la storia mostra, procede per razionalizzazioni e concentrazioni: la regola, per dirla brutalmente, è che il pesce più grosso mangi sempre quello più piccolo. Perciò Fazio,Tremonti e Draghi, come tanti altri (prima e purtroppo dopo di loro) si limitano ad assecondare un processo storico-economico. Per invertire la tendenza si dovrebbe fuoriuscire dal capitalismo...
La seconda, più politica. Finalmente è giunta la conferma che Fazio è caduto per una congiura di palazzo, frutto di lotte di politiche interne al mondo creditizio e politico italiano. Probabilmente, come già abbiamo scritto, perché esponente di una finanza cattolica invisa a quella laica, o peggio ancora per grossolane ragioni personali. Dal momento che i processi di concentrazione bancaria nazionale riprenderanno a breve, e con maggiore intensità di prima, quando c'era Fazio. Altro che trionfo del libero mercato!
La terza riflessione, sempre politica, è che la chiusura verso banche europee, potrebbe non implicare, considerate soprattutto le relazioni e la figura professionale di Draghi, un'eguale chiusura nei riguardi delle banche americane: viste, come è noto, dal nuovo Governatore come "naturale" contrappeso a quelle europee. Andrà perciò seguito con grande attenzione l'iter di modifica sull'Opa.
E da quest'ultimo punto di vista, considerato l' americanismo di Tremonti e Berlusconi, una vittoria elettorale del centrodestra, con conseguente riconferma di Tremonti al Tesoro, sarebbe veramente esiziale per l'Italia e per l'Europa.
L'Italia diverrebbe una testa di sbarco bancaria degli Stati Uniti in Europa. 

Carlo Gambescia

giovedì 23 febbraio 2006

Profili/14
Christopher Lasch




Il pensiero di Christopher Lasch  (1932 -1994) è ancora tutto da studiare e scoprire. E imporrebbe una analisi attenta dei "Lasch's papers" conservati presso l'Università di Rochester: 73 "boxes" (1950- 1992) che contengono manoscritti, dattiloscritti di libri e articoli (pubblicati e non pubblicati), la corrispondenza, le lezioni universitarie, le note di lettura, appunti, ecc. (su questi aspetti si digiti e poi si clicchi su "Christopher Lasch on the Web"). Insomma, una vera e propria miniera d'oro, ancora tutta da scavare...
Questo per esemplificare, anche fisicamente l'ampiezza del suo pensiero, dei suoi interessi, e delle sue relazioni. Definirlo storico è perciò piuttosto riduttivo.
Christopher Lasch nasce a Omaha (Nebraska) nel 1932, figlio di un giornalista e di una docente universitaria. Una famiglia colta e liberal. Negli anni Cinquanta studia storia nelle università di Harvard (dove si laurea, 1954), Colombia (dove consegue il PhD, 1959). Negli anni Sessanta insegna la sua materia nelle università di Chicago, Iowa e Northwestern, e infine a Rochester (1970). Nel 1985 diviene "chair" del "Rochester Department of History". Muore di cancro nel 1994, all'età di sessantuno anni.
Lasch è autore di dieci libri. Tre sono i principali filoni della sua ricerca.
Il primo riguarda la critica politica della sinistra liberal americana. Sotto questo aspetto sono di fondamentale importanza, i suoi primi tre libri: Americans Liberals and the Russian Revolution (1962), un efficace ritratto storico del volontarismo-idealismo liberal; The New radicalism in America (1965), dove mette in luce la diversità tra il liberalismo idealistico e liberalismo pragmatico; Agony of American Left (1969), dove prende forma la sua distinzione tra politica come partecipazione diretta dei cittadini (il liberalismo "buono") e la politica come controllo sociale (il liberalismo, o progressismo, "cattivo"). L' "agonia" della sinistra americana sarebbe causata dal fatto di aver scambiato la libertà, come partecipazione politica attiva, con la libertà, come "erogazione burocratica" dall'alto di diritti civili e servizi sociali. Sotto questo aspetto è possibile trovare qualche altro utile elemento di riflessione anche nel successivo The World of Nations (1973).
Il secondo filone, che discende dal primo riguarda la critica culturale della società americana degli anni Ottanta e Novanta. Haven in a Heartless World (1977, trad. it. Bompiani 1982), in cui critica la trasformazione tardocapitalistica della famiglia in un'unità, non tanto di produzione quanto di consumo esasperato; The Culture of Narcissism (1979, trad. it. Bompiani 1981), dove associa lo sviluppo di un individualismo di tipo narcisitico alla nascita di una società completamente burocratizzata, che attraverso il welfare asserve l'individuo; The Minimal Self (1984, trad. it. Feltrinelli 1985), nel quale collega la fuga dalla politica, tipica degli anni Ottanta, alla riluttanza dal parte dell' "individuo narciso", studiato nel libro precedente, ad assumersi qualsiasi responsabilità. E a dissimulare questo rifiuto ricorrendo all 'ironia nichilista.
Il terzo filone, consiste nell'unificazione dei due precedenti, ma a un livello teorico più alto: quello della critica all' idea di progresso nei suoi risvolti filosofici (critica dell'illuminismo pragmatistico americano), politici (critica del progressismo politico), sociali (critica dello stato welfarista, come "latore" di progresso sociale) e culturali (critica della sostituzione della politica con il politicamente corretto). Queste analisi sono svolte negli suoi ultimi tre libri: The True and Only Heaven (1991, trad. it. Feltrinelli 1992); The Revolt of the elites (1994, trad. it. Feltrinelli 1995); Women and the Common Life (1997, raccolta postuma di articoli e saggi, curata dalla figlia Elisabeth Lasch-Quinn).
Le conclusioni di Lasch sono piuttosto amare e paradossali, per uno studioso, che comunque si definiva a pieno titolo un figlio dei "lumi" e della modernità. A suo avviso l'errore dei liberal americani, e più in generale di certo progressismo riformista, o welfarista, restava quello di credere nella crescita economica infinita del capitalismo e nella possibilità di poter curare lo spirito di ogni uomo, ferito dal materialismo capitalistico, con dosi ancora più massicce di materialismo pubblico e privato.
Lasch parlava di "errore", dunque di qualcosa che forse dodici anni fa anni si poteva ancora correggere. E oggi? Difficile dire.  Ed è  veramente un peccato che Lasch non possa più rispondere a questa domanda.

Carlo Gambescia

mercoledì 22 febbraio 2006

Lo scaffale delle riviste/4



Va subito segnalata "Storia in rete" (www.storiainrete.com), la nuova rivista mensile di alta divulgazione storica, diretta dal bravissimo Fabio Andriola, giornalista e autore di notevoli saggi storici. Ricca di rubriche, "spigolature", interviste, bellissime foto a colori e in bianco e nero, articoli ben scritti e calibrati, ma anche "stuzzicanti" e di facile e piacevole lettura. Nel fascicolo n. 3 (gennaio 2006), disponibile in edicola e nelle migliori librerie, di particolare interesse il dossier sulla "storia imbavagliata" con articoli di Fabio Andriola, Aldo A. Mola, Sandro Provvisionato, e un'intervista di Nico Perrone allo storico Luciano Canfora.
Assolutamente da non perdere il fascicolo appena uscito di "Telos" (n.112 - fall 2005 - www.telospress.com). La rivista newyorkese, attualmente diretta da Russell Berman, dedica due "Special Sections" a Carl Schmitt e Hannah Arendt. La prima (pp. 5-98) ospita scritti di M. Marder, M. Ojakangas, A. Botwinick, J. Bendersky, A. Lefebvre; la seconda (pp. 99-131) saggi di S. Meuschel, K. Evers, H. Mahrdt.
Di utile e interessante lettura anche l'ultimo numero de "Le Monde diplomatique il manifesto" (n.2, 2006, www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/), in particolare per il "dossier" dedicato a "movimenti sociali e integrazione" in Centro e Sud America (pp. 14-18): ruolo dei militari, protesta non violenta, agenda politica delle nuove sinistre ("antiamericane") attualmente al potere in molti stati. Questi i principali temi trattati.
Ottimo il fascicolo appena uscito del "il/la Consapevole" (n.5, febbraio-marzo 2006 - www.ilconsapevole.it). Tra gli argomenti trattati: signoraggio bancario, potere clericale, consumismo olimpionico di Torino 2006, mass-media e informatica. Di particolare interesse l'intervista a Josè Bovè ( pp. 21-23): "Allo stato attuale di distribuzione delle risorse - nota il vecchio leone delle campagne francesi - ci vogliono 4 pianeti affinché tutti gli abitanti, in particolare quelli del Sud, possano vivere allo stesso livello materiale degli occidentali! La rimessa in causa dell'attuale modello di sviluppo attraverso l'idea di decrescita economica è essenziale per il futuro delle prossime generazioni" (p.23).
Altre due riviste da non farsi assolutamente sfuggire: "Trasgressioni" (n.41, settembre-dicembre 2005 - www.diorama.it), numero completamente dedicato alla "geopolitica e il mondo contemporaneo" (articoli, tra gli altri, di A. de Benoist, A. Chauprade, P.-M. Gallois, M. Lhomme, M. Hamam); "Krisis" ( "Origine?", n. 27, novembre 2005 - www.labyrinthe.fr), sulla cui copertina, questa volta, spicca un pancione "nature" di "mamma in dolce attesa" (come si diceva una volta), che vuole probabilmente indicare il bisogno insopprimibile dell'uomo di "tornare" o comunque di confrontarsi con le sue origini. Un fascicolo veramente intrigante. L'importante rivista teorica diretta da Alain de Benoist ha centrato il bersaglio ancora una volta. Articoli di J.-F. Gautier, T. Isabel, P. Barrucand, S. Mimouni. R. Bernasconi, F. Hoyle e molti altri. Da leggere con particolare attenzione, anche se può apparire eccentrico (rispetto al tema del fascicolo) l' interessante l'articolo di J.-P. Lambert, Les origines du distributisme. Principes, histoire, avenir (pp. 148-163).

E per questo mese è tutto. 

Carlo Gambescia

martedì 21 febbraio 2006


Alvi, Bernanke 
e il prezzo della ricchezza




Molti commenti economici si fondano su una "verità" che non è tale. Quale? Che il mercato capitalistico distribuisca e suddivida redditi e patrimoni in modo pressoché giusto, premiando meriti e capacità.
E' perciò difficile trovare qualche commento, che invece asserisca, con lucidità e senza piagnistei pseudospartachisti, quanto il mercato in realtà, soprattutto quello monetario (tassi, banche e dintorni) sia basato e moltiplichi le diseguaglianze di reddito e pratrimonio.
Sotto questo aspetto l'articolo di Geminello Alvi apparso ieri sul "Corriere Economia", Bernanke a rischio bolla (www.corriere.it), rappresenta una eccellente eccezione.
Alvi, riflettendo sulla situazione monetaria statunitense, intuisce che il re è nudo. E va al di là delle questione se continueranno a crescere o meno i tassi di interesse Usa. Secondo l'economista il "prezzo della ricchezza", di case e titoli di stato (e di tutte quelle componenti statiche che vanno a formare i patrimoni individuali) è negli ultimi anni straordinariamente cresciuto, e non solo in America, a spese del reddito (cioè di quel flusso di ricchezza, dinamico, creato dal lavoro umano).
Per Alvi, che concentra il suo interesse sugli sviluppi del mercato immobiliare, tutto ciò significa due cose:
La prima è che la politica (Usa) di bassi tassi di interesse ha determinato un crescita delle liquidità, e quindi una eccessiva disponibilità di denaro, che ha fatto lievitare il mercato dei titoli di stato e il soprattutto il prezzo degli immobili.
La seconda è che una politica del genere, non privilegia chi vive dei propri redditi (del proprio lavoro, qualunque esso sia), ma chi già dispone di ingenti patrimoni, e che perciò è "più avanti" degli altri nella corsa verso l' appropriazione di ricchezze patrimoniali.
Fin qui Alvi.
Che cosa significa questo dal punto di vista sociologico? Che i troppi dollari in circolazione fanno diventare i ricchi più ricchi e i poveri più poveri. Facendo così lievitare il "prezzo" per diventare ricchi (patrimonialmente parlando): più aumenta la domanda di proprietà immobiliari più, ovviamente, ne aumenta il prezzo. E più diventa difficile, per chi vive di reddito e non di patrimonio (di "rendita"), acquisire un immobile (e mantenerlo). Mentre chi già ne possiede per miliardi di dollari, vede il suo patrimonio rivalutarsi in misura crescente, e soprattutto può continuare ad acquistarne ancora... E si tratta di un processo che riguarda non solo l'America ma tutto l'Occidente, per così dire, "dollarizzato".
Quali sono le conclusioni di Alvi? Che una stretta monetaria Usa, più che prevedibile, potrebbe provocare un aggiustamento dei tassi ipotecari e far scoppiare la "bolla" patrimoniale. Ironicamente scrive "che le famiglie americane hanno comprato dei derivati [i mutui ipotecari per comprarsi una casa] e non lo sanno".
Giusto. Ma chi pagherebbe il costo sociale di tutto questo? Quali potrebbero essere le conseguenze sociologiche della stretta monetaria? Dell' "impulso deflattivo"? Le perdite di chi è ricco sarebbero sicuramente inferiori, e di molto, rispetto a quelle di chi vedrebbe crollare il valore di una casa, faticosamente acquistata. E magari costretto a svenderla per far fronte a una improvvisa crisi di liquidità.
Alvi, come pochi, intuisce brillantemente il problema. E dimostra con grande chiarezza come il mercato capitalistico, soprattutto monetario, sia fonte e viva di ingiuste diseguaglianze. E come la moneta non sia mai un velo... Ma, dopo aver scoperto che il re è nudo, preferisce tacere. Nella chiusa infatti, si limita solo a consigliare, che i banchieri (centrali), tengano conto in futuro anche del prezzo della ricchezza e non solo dei prezzi al consumo.
E qui pecca di ottimismo. Perché è come chiedere al famigerato scorpione della gnomica, non solo hollywoodiana, di non pungere. Non può farne a meno: è la sua natura. Così come è natura, o regola, dei banchieri centrali difendere i patrimoni di chi li ha nominati e consacrati. 

Carlo Gambescia

domenica 19 febbraio 2006


L'editoriale di Ernesto Galli della Loggia
Le parole come pietre?



Desideriamo proporre una  riflessione sull' editoriale di Ernesto Galli della Loggia, apparso ieri sul "Corriere della Sera"(19.2.06). Prima però una premessa.
Per gli studiosi di scienza dei conflitti, il segnale che una "situazione competitiva", rischia di trasformarsi in "confitto totale", è costituito dall'uso crescente di stereotipi verbali da parte degli attori sociali.
Una"situazione competitiva",per continuare a usare il freddo linguaggio polemologico, può implicare anche attività di tipo bellico. Tuttavia quando alle armi si unisce la forza crescente della parola (di un lessico sempre più ideologizzato), ciò significa che il punto di non ritorno è molto vicino. Dopo di che gli eventi precipitano e diventano incontrollabili: si aprono le porte della guerra totale.
Sotto questo aspetto quel che è accaduto a Bengasi (reazioni comprese) è molto significativo.
Da un lato un ministro, Calderoli, che attenzione non rappresenta solo se stesso ma un pericoloso e diffuso senso di insofferenza verso il mondo islamico, che inizia a nutrirsi di stereotipi, e che non andrebbe assolutamente incoraggiato. Dall'altro le folle musulmane di Bengasi, che proprio perché tali, sono più manovrabili e sensibili ai richiami di parole d'ordine anti-occidentali. E al centro una classe politica, quella italiana ma anche libica (e in genere di fede islamica, e comunque non occidentale ), che non riesce, a capire la gravità della situazione, se non in termini di eventuali effetti di ricaduta elettorali o di conservazione potere. O addirittura di puro e semplice reperimento di risorse economiche.
Ma ecco finalmente il punto. E i grandi opinionisti liberali? I "signori del lessico politico" che ruolo giocano? E qui entra in scena, come "caso esemplare", il pezzo scritto da Ernesto Galli della Loggia.
Nel suo editoriale intitolato Tolleranza serve un limite, si guarda bene dall'usare qualsiasi seria categoria di tipo storico e sociologico, come invece sarebbe dovere di ogni studioso. Ormai, per Galli della Loggia il problema non è più capire se il punto di non ritorno sia stato raggiunto o meno, e se, eventualmente, ci sia ancora qualche possibilità di evitare che le cose precipitino (studiando oggettivamente, dal punto d vista della polemologia, la dinamica del conflitto nel tentativo di fornire una soluzione che non sia quella della guerra totale). Per lo studioso si deve invece contrattaccare, e subito, cominciando proprio dalle "parole", dal lessico politico: "Noi europei ci stiamo rapidamente abituando a tutto ciò (...). Timoroso dell'accusa di leso multiculturalismo il nostro discorso pubblico non osa più esprimere giudizi che non siano di comprensione, di più o meno tacita 'tolleranza', verso qualunque intollerabile violenza o malefatta commessa nelle contrade dell'Islam. Ad una folla polacca o irlandese non perdoneremmo neppure un centesimo di quello che siamo disposti a perdonare a una folla libica o afghana".
E infatti l'intero editoriale è punteggiato di espressioni come "virus culturale religioso e politico", "estrema violenza e rabbia cieca", "propensione al fanatismo religioso" tutte rivolte a stigmatizzare la "via pericolosa" che avrebbe preso l' Islam, come recita l'occhiello.
Galli della Loggia sembra purtroppo aver  fatto la sua scelta di campo. E all'interno di un processo conflittuale che si sta pericolosamente avvitando su se stesso. Altro che  "parte osservante e critica", come invece imporrebbe una visione liberale della politica e della scienza...  Pertanto tutto quel che scrive rischia di essere  privo di qualsiasi oggettività e in prospettiva pericoloso. Il professore sembra  preferire al ragionamento la  scomunica. Alle parole le pietre. 

Proprio come certi Iman estremisti che pretende di combattere. 

venerdì 17 febbraio 2006



L'Onu, gli Stati Uniti, Guantanamo
Forza del diritto o diritto della forza?




Le accuse dell'Onu nei riguardi degli Stati Uniti a proposito di Guantanamo meritano un'attenta riflessione sul rapporto tra democrazia, diritto e uso delle forza.
Dal punto di vista della teoria democratica, delle carte dei diritti e dei trattati che regolano la materia, la condizione dei prigionieri di Guantanamo e illegale e gravemente lesiva delle dignità umana.
Tuttavia, ci si può giustamente chiedere: perché l'Onu ha permesso questo fino a oggi? E ora che ha assunto una posizione così decisa, che accadrà? Certo, gli americani non libereranno i prigionieri, ma almeno verranno processati subito come chiede l'Onu?
Purtroppo non avverrà nulla. Almeno nell'immediato, o comunque fin quando gli Stati Uniti non si sentiranno "sicuri", come dichiara quotidianamente Bush.
Ora, qualche spiegazione.
Nell' Occidente moderno il diritto è inteso come uno strumento basato sul consenso, volto alla tutela dei diritti dei singoli e allo sviluppo di una ordinata vita civile. Questo in teoria. Ma in pratica come sono tutelati i diritti nelle società moderne? Attraverso l'uso legale e legittimo delle forza da parte dello stato: "legale", perché si tratta di un uso rispettoso delle procedure; "legittimo", perché sussiste un fondamento costituzionale ma in realtà morale, sociale, politico, economico, che sancisce l'uso delle forza da parte dello Stato per garantire, appunto, i diritti dei cittadini e una regolare vita sociale.
Ora gli Usa, pur accettando, o fingendo di accettare, le critiche a proposito delle illegalità commesse a Guantanamo (ad esempio la violazione dello status giuridico del prigioniero di guerra), non transigeranno sulla legittimità di quello che stanno facendo. Perché?
Perché si ritengono dalla parte della ragione: si definiscono portatori di un principio forte di legittimità, dal momento che stanno difendendo, così dicono, la democrazia e i diritti di tutti: un modello di vita, insomma, come dichiara lo stesso Bush. E hanno la forza militare necessaria non solo per difenderlo ma anche per imporlo agli altri... Quindi potranno transigere, ma non subito, sui processi, ma non sul "principio di legittimità": in futuro, sorgeranno sicuramente altre Guantanamo in "difesa della democrazia". Non è il caso di farsi troppe illusioni.
Il punto tragico della questione è che per imporre un principio di legittimità differente, o comunque la sua interpretazione "autentica", sono necessarie forze morali, sociali politiche, economiche, e in definitiva militari, superiori o almeno uguali a quelle detenute da chi difende il principio di legittimità che si vuole contrastare. L'Onu perciò, al massimo, potrà occuparsi di "legalità", ma non di legittimità...
Stalin, credo nei suoi colloqui di Yalta con Churchill e Roosevelt, ironizzò sulla forza militare di papa Pio XII, chiedendo quante divisioni avesse a disposizione...

E probabilmente, in questo momento, anche Bush sta chiedendo, ironicamente, ai suoi collaboratori, quante ne abbia oggi l'Onu. 

Carlo Gambescia

giovedì 16 febbraio 2006

Profili /13
Giuseppe Palomba






Giuseppe Palomba (1908-1986) purtroppo non gode di quella fama che invece meriterebbe pienamente. Dal momento che va sicuramente posto tra gli economisti italiani più originali del Novecento. Dopo ovviamente figure come Pareto e Pantaleoni, veri e propri giganti, che del resto appartengono alla generazione precedente alla sua.
Giuseppe Palomba, nasce in provincia di Caserta, si laurea in economia a Napoli nel 1929. Studia con Corbino Niceforo, Barbagallo e Amoroso, economista allievo di Pareto. Nel 1932 frequenta la London School of Economics. Nel 1935 consegue la libera docenza in economia politica e si dedica in particolare agli studi di economia matematica. Nel 1939 è in cattedra a Catania. Nel dopoguerra insegna a Napoli (Facoltà di Economia) e negli anni Settanta a Roma (Facoltà di Scienze Politiche). Socio dell'Accademia dei Lincei e di numerose altre istituzioni internazionali, tra le quali l'Ismea, fondata da François Perroux, al quale era legato da profonda amicizia.
Tre sono i filoni principali della sua ricerca.
Il primo è quello dei rapporti tra sociologia ed economia. Attento lettore di Pareto, Leone, Michels, ma anche di Perroux, Palomba ritiene assolutamente impossibile l'esistenza di una economia astratta, e soprattutto separata dalle istituzioni sociali. Di qui l'interesse per lo studio dei rapporti tra classi sociali, strutture di potere e teoria economica. Per Palomba è sempre necessario distinguere tra economia politica e politica economica. La prima ha valenza teorica, la seconda politica. La prima implica l'impiego della spiegazione scientifica, la seconda spesso l' uso della forza. E il ruolo dell'economista è di mediare tra i due aspetti, in termini di economia applicata ai problemi concreti. Di qui anche la sua visione integrale o "ecumenica" dell'uomo e dell'economia".
Il secondo filone è quello dell'economia matematica. Secondo Palomba, per lo studio dell'economia teorica, va conservata l'analogia tra scienze fisiche ed economiche, estendendola però ai principi einsteiniani di relatività speciale e generale, usando il linguaggio dell'algebra tensorial e la teoria dei gruppi di trasformazione.
Quest'ultimo filone di ricerca rinvia al terzo. Palomba, partendo dal concetto di relatività, giunge a sostenere che i sistemi economici, sono sistemi chiusi, e dunque soggetti a entropia: a una crescente "disorganizzazione" che può assumere l'aspetto del degrado ecologico, economico, ma anche politico e sociale. Qui il suo pensiero tocca le stesse vette scalate da studiosi come Georgescu Roegen.
Va ricordata anche la sua ricchezza di interessi filosofici, religiosi e politici. Lettore onnivoro, Palomba si è confrontato, seguendo modalità veramente inconsuete per un economista, con autori come Evola, Guénon, Spengler, i classici del pensiero islamico, Donoso Cortés, ma anche Lenin, Marx e altri classici del marxismo e del socialismo, che spesso usava citare insieme ai padri della chiesa. Chiunque abbia assistito negli anni Settanta alle sue scoppiettanti lezioni universitarie romane , non può non conservarne un ricordo indelebile. Di se stesso diceva:" Sono l'ultimo dei grandi conservatori e il primo degli autentici rivoluzionari".
Autore di circa una ventina di libri. Restano però di maggiore interesse per la comprensione della sua originalissima opera tre volumi in particolare: Fisica economica (1970); Morfologia economica (1970); L'espansione capitalistica (1973), tutti pubblicati dalla Utet, e purtroppo esauriti da anni. Per una rapida ricognizione si veda pure Giuseppe Palomba, Il pensiero economico italiano (1848-1948), Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2004 (www.libreriaeuropa.it), in particolare l'introduzione. 

mercoledì 15 febbraio 2006

Il libro della settimana: Marco Belpoliti, Crolli, Einaudi, Torino 2005, pp. 146, Euro 7,00.

http://www.einaudi.it/libri/libro/marco-belpoliti/crolli/978880617345



Decadenza. Ecco un termine che da almeno tre secoli è stato espunto dal vocabolario ufficiale della cultura occidentale. Perché?
Perché i moderni, o comunque certa modernità, hanno ragionato e continuano a ragionare in termini di progresso. E in tutti i campi: si parla di progresso economico, progresso storico, progresso scientifico, progresso morale, eccetera. L'uomo, pur tra mille incertezze e difficoltà, avanzerebbe verso la realizzazione, come ha ben scritto Christopher Lasch, del "paradiso in terra".
Si tratta essenzialmente, sul piano ideologico, di una eredità illuministica. Che il "secolo breve", il XX, con i suoi orrori, non è riuscito a mettere in discussione. Sembra invece esserci riuscito, purtroppo, il nuovo secolo, il XXI, che appena iniziato, ha subito visto la distruzione delle Torri gemelle del World Trade Center di New York.
Sotto questo aspetto il libro di Marco Belpoliti, Crolli è un tentativo interessante, perché prendendo spunto dai fatti dell'11 Settembre, si confronta col tema della decadenza del mondo occidentale, facendola finita con le scomuniche. I n modo chiaro, con stile terso, avvincente e dotto al tempo stesso, ricco di richiami e indicazioni di lettura (Belpoliti è sociologo della letteratura). Ma con taglio post-postmoderno. E non è un gioco di parole.
Il libro si dipana intorno al tema dei crolli, due in particolare, quello del Muro di Berlino e quello delle Torri gemelle. Crolli che condensano, secondo l'autore, i due temi principali del nostro tempo: da un lato il terrore, improvviso e tagliente come quelle sciabolate di luce, che ti colgono all'uscita di un cinema negli assolati pomeriggi estivi; dall'altro la banalità di un' età postmoderna, priva di idee e perciò vittima del sentimentalismo: del kitsch. Con una citazione da Mao II di Don DeLillo, Belpoliti chiarisce bene la nostra condizione di postmoderni. E' un fotografa che parla: "Qualunque cosa io fotografassi, realtà miseria, corpi distrutti, facce insanguinate, per grande che fosse l'orrore, alla fine mi ritrovavo con delle stronzissime immagini carine. Capisce?"(p. 72). Ogni decadenza, insomma, implica la cognizione del dolore: la consapevolezza che si nasce, si vive e si muore, tutti, gli uomini come le civiltà. Ed è quel che manca alla nostra epoca: dove tutto è "carino" E che è assente anche nel libro di Belpoliti, nonostante le buone intenzioni e il suo interesse oggettivo. L'autore intuisce, ma non sviluppa.
Al postmoderno, un pensiero in fondo crudele ( come ogni persona che si finge debole) e sentimentale, perché privo di vere idee e dunque di autentiche passioni, Belpoliti sostituisce una filosofia post-postmoderna della trasformazione. Un pensiero che "trasforma", sulla scia delle intuizioni di Thom e Prigogine, la catastrofe o il crollo, in un elemento di un processo dinamico, dove la "fine", anche se resta una possibilità, può essere spostata sempre in avanti. O che comunque finisce per far parte di un processo, pressoché infinito. Che noi possiano osservare dall'esterno... Una visione che ricorda tanto, riveduta e corretta alla luce di un post-post scientismo, la teoria della "ruota del carro avanzante" di Toynbee, che pur girando su stessa, o rompendosi qualche volta, non impedisce al carro (della storia umana) di avanzare sempre più avanti. E comunque perché provare dolore e per chi, se la storia "rischia" di non finire mai? Rendendoci di conseguenza eterni, almeno come "specie"?
Ovviamente, per ragioni di brevità, qui si semplifica il pensiero piuttosto articolato e complesso di Belpoliti. Il suo è un libro che comunque chiede rispetto e attenzione.
Certo, per il pensiero postmoderno la catastrofe può essere "carina", mentre per quello post-postmoderno di Belpoliti la catastrofe può condurre a nuovi inizi . Ma per entrambi è in qualche modo possibile pensare la fine (da post-postmoderni) o sorriderne ( da postmoderni) , senza esserne veramente parte. Ma chi non è parte o carne di qualcosa non può capire né provare cosa sia il vero dolore.
Il problema è tutto qui. 

Carlo Gambescia

martedì 14 febbraio 2006



Sociologia dell'acqua




Lo scorso 30 gennaio in Campania l'assemblea dei sindaci di Napoli-Castelvolturno ha deciso, per l'area di propria competenza, il ritiro di una precedente delibera (del 23 novembre 2004) che apriva le porte alla privatizzazione di 136 comuni campani.
Si è trattato di una decisione importante, frutto soprattutto di una pressione dal basso, di quella che Padre Zanotelli, in un articolo sul "Manifesto" (del 31-1-05) ha definito "società civile organizzata" . Ma purtroppo i grandi giornali non ne hanno parlato.
Il problema della proprietà pubblica dell'acqua (ma sarebbe preferibile definirla "collettiva"), come del resto altri grandi questioni "ambientaliste", sta assumendo un'importanza strategica, per un capitale privato, sempre più affamato di profitti. E questo spiega il silenzio del "Corriere della Sera", "Repubblica", "Stampa", per non parlare dei giornali della destra conservatrice e liberale. Tutti dipendono finanziariamente, chi più chi meno, da quelle lobby non solo italiane, che vogliono appropriarsi di un "bene comune", come l'acqua, per trasformarlo, in una ennesima fonte di lucrosi guadagni.
Di qui la necessità di opporsi, ovviamente sempre in modo ragionato.  Di qui, la necessità di una  spiegazione sociologica dell'intera questione.
L'idea economicistica di fondo è che non esistono beni collettivi, ma solo beni privati e acquisibili, sul mercato, pagando un "prezzo". L'assioma sociologico sottostante è che l'individuo è tutto e la collettività nulla. Attenzione, si crede nell' individuo autosufficiente in grado di lavorare e acquistare i beni di cui ha bisogno. Si dà, insomma, per scontato che tutti siano in grado di farcela da soli. E che chi "non riesce" sia colpevole, perché non si è abbastanza impegnato.
Milton Friedman, uno dei padri del neoliberismo anni Ottanta, ama ripetere nei suoi libri, con autentico sadismo, che nel capitalismo "nessun pasto è gratis": ogni bene ha un prezzo. E soprattutto che nessuno può pretendere di vivere alle spalle dell'altro. Tuttavia, affinché si giunga alla mercificazione totale è prima necessario attribuire al bene un carattere di "fruibilità limitata". La scarsità di un bene, determina il suo prezzo, e proprio perché il bene è scarso, e quindi raro, il suo prezzo non deve essere eccessivamente basso. E comunque, sarà il mercato, attraverso la concorrenza a fissare il prezzo "giusto" per produttori e consumatori.
Questa, in breve, la vulgata liberista. Che, una volta compresa nelle sue linee di massima, consente però di distinguere le tre principali fasi di un processo "idealtipico di privatizzazione" : 1) si dichiara l'acqua un "bene scarso";"2) si danno per scontate l'autosufficienza dell'individuo e la bontà dei meccanismi concorrenziali; 3) si dà il via alle privatizzazioni ( su questi aspetti processuali si veda il post del 29-11-2005).
Fortunamente, grazie alla "società civile organizzata", almeno in Campania, il processo è stato, per il momento, fermato. Ma occorre una decisa inversione di rotta.
L'acqua non è un bene scarso. Ma è un risorsa mal distribuita e poco condivisa (soprattutto tra Nord e Sud del mondo). E anche se lo fosse, in quanto risorsa necessaria alla riproduzione della vita, andrebbe messa gratuitamente a disposizione di tutti, evitando sprechi e razionalizzandone, con investimenti pubblici, la rete di produzione e distribuzione.
L' uomo non è un'isola: l' individuo non sempre è autosufficiente, e dunque ha bisogno di un sostegno pubblico e di un rete di solidarietà. E soprattutto di non essere mai privato di quelle risorse, come l'acqua, necessarie alla sua riproduzione fisica.
I mercati, oltre a essere imperfetti, escludono coloro che non possono "accedervi", perché privi di lavoro, e dunque di reddito spendibile.
Privatizzare il settore significa avviare un processo di concentrazione monopolistica e di conseguente assorbimento delle imprese più piccole da parte di imprese più grandi, e probabilmente straniere.
Sono verità "sociologiche" semplici, diremmo quasi luoghi comuni. Eppure..

lunedì 13 febbraio 2006


Mario Monti e la contraddizione di fondo del liberalismo puramente economico



L' editoriale di Mario Monti apparso ieri sul "Corriere della Sera" rappresenta una buona occasione per chiarire una fondamentale contraddizione del liberalismo puramente economico, altrimenti noto come liberismo. Al quale di solito alcuni aggiungono l'aggettivo selvaggio.   Di qui la necessità di un commento. 
Mario Monti parla di "primato del consumatore", vecchio luogo comune liberista. Tesi che risale alla teoria della "mano invisibile" di Adam Smith. Il succo dell'editoriale è il seguente: il consumatore, trae vantaggio, dalla concorrenza fra il maggior numero di operatori economici. Più imprese sono presenti sul mercato, più il consumatore si avvantaggia, perché la concorrenza abbassa costi e prezzi. Pertanto, il nuovo governo, queste le sue conclusioni, dovrà favorire al massimo la libera concorrenza. Monti però non specifica come.
Non parla di leggi antimonopolistiche. Che implicherebbero, almeno in linea teorica, lo "smembramento" di quelle numerose grandi imprese italiane, presenti in campo automobilistico, bancario, finanziario, eccetera. Monti invoca misure di liberalizzazione solo nel campo della distribuzione dei farmaci e di servizi pubblici, come i taxi. Il che potrebbe essere oggetto di facile ironia. Anche perché, curiosamente, reputa "non essenziale" e controproducente, addirittura l'eliminazione degli ordini professionali, che come invece è noto servono solo per far crescere i costi dei servizi forniti al consumatore.
Pertanto il liberismo di Monti, come ogni altra forma di liberismo, è di pura facciata. Perché? Perché il mercato, come ogni altra istituzione sociale, tende naturalmente alla concentrazione del potere, e in particolare quello capitalistico. Un processo che può essere limitato(e mai eliminato completamente) solo attraverso un controllo non formale, come quello ex post dell'antitrust, ma sostanziale, come quello di leggi antimonopolistiche e di effettivi "smembramenti" delle grandi imprese egemoni. Il che richiederebbe, tra l'altro, quell'interventismo statale, nemico di ogni libertà economica, e così temuto dai liberisti.
Di riflesso le liberalizzazioni in difesa del consumatore proposte da Monti, sono puramente superficiali. E inutili. Anche perché, e questo Monti, come "pratico" lo sa benissimo, la riduzione delle dimensioni delle imprese, piaccia o meno, attualmente sarebbe nociva sul piano delle concorrenza internazionale, dove più le imprese sono grandi, più di fatto sono "competitive" (spesso all'Italia, in sede europea, si rimprovera un certo "nanismo" imprenditoriale). In realtà, l'economia internazionale, si regge non tanto sugli interessi, quanto sulla volontà di potenza economica delle grandi imprese transnazionali. Di qui il necessario liberismo di facciata di Monti, a uso interno.
E più in generale, la ragione della presenza all'interno del liberismo economico di una contraddizione tra teoria e pratica: tra proclamazioni di teorico liberismo e pratiche di fatto monopolistiche. Pratiche necessarie per competere sul piano internazionale. Il capitalismo liberale è un cane che si morde la coda: predica quella libertà, che è costretto a negare nella pratica, se vuole svilupparsi e crescere... Il capitalismo è sostanzialmente una teoria della crescita. Lo stesso Smith, a dire il vero, paventò il pericolo di un "associazionismo" tra produttori ai danni dei consumatore. Ma come Monti, non si spinse più in là nelle critiche, e soprattutto nella descrizione analitica di rimedi concreti, al di là dei generici e blandi divieti associativi. Anche per lui l'imperativo era quello della crescita a ogni costo.
Che poi i grandi monopoli sul piano dei prezzi non facciano l'interesse del consumatore è verissimo, ma è altrettanto vero che il capitalismo, come insegna Adam Smith, si regge sull'interesse dei singoli. Ma perché il capitalismo, storicamente ha sviluppato pratiche monopolistiche? Gli individui non sono tutti economicamente uguali, come invece ritengono per convenzione gli economisti liberali. E i più forti se ne approfittano. E una volta al potere è difficilissimo scalzarli. E a dirla tutta, non sempre, le classi dominanti, purtroppo, come dimostra la storia, lo hanno ceduto con le buone maniere. Da questo punto di vista il teorema della concorrenza perfetta, può essere giustificato sul piano teorico-economico delle formule astratte, ma non su quello sociologico dei concreti rapporti di forza.
In definitiva, piuttosto che sull'interesse ( o comunque non solo), il capitalismo si regge sulla volontà di potenza. Di pochi.

Ma questa è un'altra storia.

venerdì 10 febbraio 2006


Le  tesi di Guido Rossi sul Diritto "interstiziale"
Capitalismo e regole


Il capitalismo può essere "imbrigliato" giuridicamente?
In Italia si è acceso un vivace dibattito in argomento grazie ai libri di Guido Rossi (nella foto),  professore di diritto commerciale (si veda per tutti, Capitalismo opaco, a cura di Federico Rampini, Editori Laterza 2005). Il quale sostiene, per farla breve, che il capitalismo per funzionare correttamente ha soprattutto necessità di "regole". E che uno dei limiti del capitalismo italiano, sarebbe proprio quello di essere insofferente alle "buone leggi". Di qui la necessità di intervenire sul piano legislativo.
Ovviamente, il professor Rossi, non è così ingenuo, da ignorare il fatto che le buoni leggi hanno bisogno di un ambiente morale e culturale, da cui trarre sostentamento psicologico e comportamentale ( e su questo punto si veda anche il suo Conflitto epidemico, Adelphi 2003). Insomma, anche per Rossi, come per il grande barone di Montesquieu, i buoni costumi fanno le buoni leggi.
Due, però, sono i punti discutibili delle sue tesi.
Il primo punto è che per fare i buoni costumi ci vogliono i secoli, mentre per formulare e approvare le leggi bastano pochi giorni o mesi. C'è , come dire, una frattura di tipo conoscitivo e sociologico tra tempo sociale e tempo giuridico. Ciò però non significa che non si debba "tentare" di modificare giuridicamente la realtà. Si deve. Ma da quel che tutto sommato scrive, si ricava l'impressione, che Rossi sopravvaluti "illuministicamente" il ruolo del diritto e del legislatore. Non sempre considera che il diritto, in realtà, opera negli spazi interstiziali, tra i due tempi (quello sociale e quello giuridico). Il diritto perciò è sempre ambiguo, e lo è "costitutivamente". Dal momento che si sviluppa nello spazio minimo del "già e non ancora": stretto tra necessità presenti e comportamenti e sensibilità ereditate . E che spesso per questo motivo si risolve in pura decisione: politica. E mai giuridica
Il secondo punto, che discende dal primo, è che la visione del capitalismo di Rossi è esclusivamente giuridica. Nel senso che giudica il capitalismo dal punto di vista delle regole di un idealizzato diritto commerciale. E' un po' come pretendere di studiare, e soprattutto giudicare, il comportamento umano, esclusivamente in base al rispetto dei Dieci Comandamenti. Il che è nobilissimo sotto il profilo morale, ma fuorviante sotto quello analitico e conoscitivo. Rossi "crede" nel capitalismo eroico, austero, rispettoso delle regole, civile e umanistico, e dunque "giuridicizzabile". Purtroppo per lui, si tratta di un capitalismo che rappresenta, come la storia mostra, piuttosto l'eccezione che la regola. E nonostante ciò, sulle basi di questo capitalismo "idealizzato" da "Dieci Comandamenti", Rossi giudica quello reale, pretendendo, per giunta che il diritto "interstiziale", di cui sopra, sia capace di imbrigliarlo.

Il che, e va riconosciuto, prova una grande fede nei miracoli.

Carlo Gambescia

giovedì 9 febbraio 2006



Profili/12
Reinhart Koselleck 




Il 3 febbraio è morto Reinhart Koselleck . Con lui scompare probabilmente una figura di storico totale. Nel senso di uno studioso non "specialista", ma capace di utilizzare, e al meglio, gli strumenti della sociologia, delle scienze politiche e giuridiche, della filologia e della semantica storica. E quindi in grado di spiegare e storicizzare concetti e istituzioni, a partire da quello di "modernità liberale". E di una società liberale, oggi presentata come il migliore dei mondi possibili.
Nasce nel 1923 a Gorliz, in Germania, di buona famiglia, mostra subito grande intelligenza e passione per gli studi. La guerra lo travolge: come tanti altri giovani tedeschi anche Koselleck, si arruola nel 1941, come freiwilling nella Wehrmacht. Combatte in Asia centrale. E vive la tragedia della ritirata e della resa. Tra il 1947 e il 1953 completa gli studi di storia, diritto pubblico, filosofia e sociologia, presso le università di Heidelberg e Bristol in Inghilterra. Dopo di che intraprende la carriera accademica. Nel 1965 ottiene la libera docenza, nei due anni successivi , 1966-1967, insegna Scienza Politica alla Ruhr-Universitat di Bochum. Dal 1968 al 1973, insegna Storia Moderna all'università di Heidelberg. E dal 1974 alla morte, è docente di Teoria della Storia all'Università di Bielefeld, di cui oltre essere fondatore, ha promosso e diretto il Centro di Ricerche Interdisciplinari (1974-1979). Molto noto all'estero, grande viaggatore (ha insegnato tra l'altro negli Stati Uniti, Francia, Giappone). Koselleck era un uomo di una curiosità e vitalità inesauribili. Come è stato notato nel suo pensiero sono presenti influssi di Schmitt, Heidegger, Lowith, Gadamer, Conze, Freyer e Alfred Weber.
Autore di una ventina di libri, alcuni dei quali tradotti in italiano. Critica illuminista e crisi della società borghese (il Mulino 1972 [ed. or. 1959]; La Prussia tra riforma e rivoluzione. 1791-1848 (il Mulino 1988 [ed. or. 1967]); Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, Marietti 1986[ed. or. 1979]), Progresso, con Christian Meier (Saggi Marsilio 1991[1975]), dall'importante collezione "Lexicon - Geschichtliche Grundbegriffe", il "Lessico storico dei concetti politici", da lui fondato e diretto con Otto Brunner.
Di particolare interesse, per la radicale analisi delle dicotomie liberali, è la sua dissertazione dottorale, molto apprezzata da Carl Schmitt (cfr. ad esempio Id., Categorie del 'politico', il Mulino 1988, p. 131, nota), Kritik und Krise (trad. it. il Mulino 1972). Nel testo Koselleck dimostra come l'utopia borghese e illuministica, tutta incentrata sulla separazione tra pubblico e privato, sia frutto della scelta dell'illuminismo ( come movimento di idee) di mascherare l'ansia di riforme, valorizzando nel privato le fantasie utopistiche ( e di qui anche il ruolo delle Logge massoniche, cfr. in particolare il capitolo II, pp. 69-170), per poter così difendersi dall'occhiuto assolutismo monarchico. Le élite postrivoluzionarie, incluse quelle attuali (ma questa è una ipotesi personale) continueranno a vivere sotto il segno di fantasie morali private (o comunque "impolitiche") che rappresentano non solo l'antitesi della politica assolutistica ( e il che può essere giusto), ma della politica in quanto tale: come sostrato culturale e sociale dell'uomo; un "sottofondo" che purtroppo implica bene e male mescolati insieme. E dunque anche la dicotomia amico-nemico. E qui basta ricordare l'uso retorico e nefasto, che si fa ancora oggi, dei diritti dell'uomo, come base privatistica (i diritti soggettivi universali), di una politica di forza "pubblica" e militare. Nella convinzione "assoluta", ma fantastica, che una volta instaurato il "regno" dei diritti universali dell'uomo, verrà spontaneamente meno anche il ruolo della politica e del "nemico", cosicché  il "privato" fantastico avrà  finalmente la meglio sul "politico" realistico. Sotto questo aspetto il  rapporto con la politica, viene perciò vissuto ancora oggi, come durante le fasi più acute delle rivoluzione francese (e qui è invece Koselleck a parlare), quale instaurazione del regno di utopia attraverso l'uso della forza, se non proprio della violenza. La ghigliottina come i bombardieri, ieri come oggi, sono giudicati veicoli di progresso.
Un buon modo per ricordare Koselleck è perciò quello di leggere subito Critica illuminista e crisi della società borghese (www..mulino.it). Un libro storicamente e concettualmente molto solido e sicuramente non inferiore per valore euristico al più conosciuto testo in argomento scritto da Adorno e Horkheimer.

Carlo Gambescia