venerdì 29 aprile 2016

Razzismo/ Belpietro colpisce ancora (il bersaglio sbagliato)
I liberali “bianchi” di Libero




Il razzismo è merce molto pericolosa, scatena gli istinti brutali latenti negli esseri umani,  alimenta l’odio sociale, puntando sulle capacità reattive dei peggiori tra gli uomini. Esiste, in particolare negli Stati Uniti, un vasta letteratura sociologica sulla figura del "bianco povero", spesso alcolizzato o quasi, violento, socialmente fallito, residente negli stati del Sud, come  facile preda dell’odio razziale, ovviamente veicolato e sfruttato da gruppi più attrezzati culturalmente ed economicamente.  Da noi  si parla più volgarmente  di “guerra tra poveri”.
Insomma, andrebbe sempre evitato, soprattutto in ambito giornalistico, quando si affrontano le questioni razziali o con retroscena razziale come a proposito degli immigrati, soprattutto extracomunitari,  di pigiare  sul  pedale dei confronti economici  per veicolare invidia sociale e accrescere i livelli di  ostilità  tra gruppi etnici.  E invece capita sempre più spesso di   registrare non reazioni spontanee che partono dal basso ( cosa che può capitare),  ma incendi artatamente alimentati dall'alto,  all'insegna del politicamente scorretto a comando.   
Cosa pensare, ad esempio, del titolo di “Libero” oggi in edicola?  Che contiene un chiaro invito  all’odio sociale verso ogni  immigrato, dietro il quale, come si evince,  potrebbe nascondersi un terrorista islamico che vive alle spalle dello stato italiano, privando, ecco il pendant per il “bianco povero”,  i non abbienti italiani di fondi preziosi. Si potrebbe parlare di razzismo, anche sociale.
Pur non escludendo che il welfare italiano sia fin troppo generoso, ma con tutti,  diciamo che per un quotidiano che ama definirsi liberale uscire con una prima pagina del genere è una vergogna. Probabilmente, molti dei  presunti liberali, a questo punto  “bianchi” ("poveri",  proprio non crediamo),  del quotidiano diretto da Belpietro,  si rifiutano di capire  che l’immigrazione  per l’ Italia, per l’Europa, per l’Occidente rappresenta una grande sfida culturale e sociale:  un tentativo indiretto, che deve essere frutto di una routine quotidiana condivisa (non minata dall'odio reciproco),  rivolto a modernizzare, per gradi, attraverso l’acculturazione, chiunque  provenga da una società arcaica. Innescando, fin dove possibile, un circolo virtuoso di ritorno (o rimbalzo) dei valori occidentali,  anche nel mondo islamico. 
È ovvio che i flussi migratori debbano essere regolamentati, rapportati al ciclo  demografico ed economico, nonché alle prospettive militari del conflitto in atto con l’Islam fondamentalista. Ciò che invece  non si deve fare  è alimentare guerre tra poveri e soprattutto guerre sante.  Più volte abbiamo scritto della necessità di intervenire in Medio Oriente, ma, come dire, in modo laico, duro,  rapido, efficace, quindi  indolore ( o quasi)  per  gli immigrati che risiedono in Italia.  
Ci appelliamo, insomma,  alla classica tecnica, amata da ogni buon liberale realista, del bastone e della carota. Nulla di nuovo in fondo.   E qui invece  si alimenta il fai da te interno, procrastinando ogni  fare  militare esterno.  Un disastro annunciato?  Se la musica non cambia, di sicuro.    
Inoltre, si legge, non solo su “Libero”, che la cellula islamista sgominata voleva colpire San Pietro come “luogo del pellegrinaggio cristiano”. Ora, sarebbe grave, che si rispondesse, da “bianchi poveri”, invocando, a nostra volta, la christian supremacy.  Sarebbe un errore gravissimo. Non la guerra ovviamente,  bensì il recupero, magari in grande stile, dell’idea di crociata: scelta sciagurata che cancellerebbe ogni differenza culturale tra noi e loro, ponendo l’Occidente liberal-democratico sullo stesso piano ideologico dell’Islam fondamentalista. Si  farebbe solo  il gioco propagandistico del nemico, che tra l'altro già ci definisce crociati e che quindi non aspetta altro.
Ricapitolando,  toni soft,  niente guerre interne tra poveri, controllo dei flussi, “acculturazione” indiretta degli immigrati accolti,  nessun  accenno a mistiche crociate  ma  impiego  esterno di una forza militare in grado di sgominare il nemico, impedendogli di rialzare la testa almeno per i prossimi cento anni.  Insomma, Belpietro,  spara, spara, ma non ne azzecca una.

Carlo Gambescia          

                                               

giovedì 28 aprile 2016

Vienna “Al Brennero 250 poliziotti, se serve anche l’esercito”
L’Austria ha ragione, 
sociologicamente ragione



L’Austria chiude le  frontiere. La “civilissima” Austria - “civilissima”, perché cosmopolita secondo la vulgata di certo  illuminismo estremo -   sbatte la porta in faccia  a chi bussa e chiede aiuto.  
Perché?  Cosa  dire?  Che, come ogni sociologo sa (o dovrebbe sapere), siamo di nuovo  dinanzi al contrasto tra società e istituzioni, contrasto verso il quale  la cultura cosmopolita,  può ben poco. Anzi, se iniettata in dose massicce nel corpo sociale, come oggi accade,  può provocare, se ci si passa la brutta metafora medica, gravi reazioni anafilattiche Ci spieghiamo.
Le società nascono e si sviluppano sempre contro qualcuno o qualcosa  intorno a un nucleo di istituzioni condivise.   E il diverso  (come  potenziale  nemico  interno) e l’estraneo (come potenziale nemico esterno)  ne hanno fatto sempre le spese. Piaccia o meno, è così. Possono mutare le dimensioni delle unità politiche ma il conflitto è ineliminabile.
Per quanto riguarda l’Europa le forme istituzionali o politiche possono essere studiate anche da un altro punto di vista, ovviamente  complementare a quello del conflitto.  Vediamole insieme. 
La città-stato, come forma politica micro,  era fondata su un’idea di cittadinanza esclusiva, lo straniero, se pure accolto restava tale, il nemico interno eliminato o espulso;  Roma, pur essendo fondata su un’idea simile di cittadinanza (micro), sviluppò una forma politica imperiale (prima macro, la Repubblica, poi super-macro, l’Impero), allargando gradualmente la cittadinanza a tutto l’impero (certo, ci vollero secoli).  Si può dire che la “forma-impero” (super-macro), prevalente nel medioevo, si propose in qualche misura di recepire e rinnovare la tradizione imperiale, richiamandosi a Roma e mescolando valori laici e religiosi.  Le forme politiche della Signoria, del Principato e del Comune, in qualche misura, rappresentarono, anche quando coagulatesi intorno a famiglie aristocratiche o borghesi, un ritorno alla forma città-stato, al micro, insomma.  Per contro,  con le forme  dello stato-assoluto e soprattutto dello stato-nazione, la nazionalità progressivamente venne eretta a principio fondante del macro. All’antica città (micro), si sostituì la nazione moderna (macro).
Sullo sfondo di questo sviluppo istituzionale,  si muovono le società, o meglio il sociale (una vera e propria seconda natura per gli uomini),  segnato da popoli, che pur essendo  differenti per cultura e tradizioni, hanno  sempre guardato "naturalmente"  alla forma città-stato:  forma  che rappresenta il grado uno dello sviluppo istituzionale (prima ancora ci sono la Tribù e l’Orda, il grado zero).  
Pertanto la natura sociale spinge verso la città-stato, la natura istituzionale verso la stato-nazione. Da un lato il micro, dall’altro il macro. E la forma impero? Come visto, rappresenta il  super-macro: un passo ulteriore, dal punto di vista istituzionale.
Quanto alla cultura, la modernità ha introdotto una cesura tra i processi sociali (verso il micro) e i processi istituzionali (verso il macro). Per un verso (la cultura), l’illuminismo - la tradizione culturale dei moderni, semplificando al massimo -  si è imposta, nelle sue forme estreme, di invertire la tendenza di fondo verso la città-stato (il micro degli antichi), propugnando  quel cosmopolitismo cui accennavamo  all’inizio, rivolto però  in direzione  del superamento dello  stato-nazione (il macro dei moderni), per l’altro, nell’impossibilità  di poter gestire, anche sul piano organizzativo, in un mondo globalizzato, la forza della città-stato (il micro degli antichi), la cultura illuministica, certa cultura illuministica,  si è inventata nuove forme di super-macro. E qui si pensi al disegno europeo, che non è altro che una laicizzazione e democratizzazione della forma impero, che però, secondo le intenzioni di certo iper-illuminismo non sarebbe che una forma intermedia di  transizione verso il super-stato universale delle nazioni: una specie di  stato-mondo o mondiale. Un’utopia.
Pertanto se la tendenza sociologica  di fondo è verso il micro (quindi di stati negli stati: qui si pensi al tessuto istituzionale ricostruttivo del micro, portato avanti dalle comunità di “migranti”), o comunque verso una dialettica conflittuale micro-macro, resta comprensibile come lo stato-nazione (il macro) non possa non rispondere chiudendosi, respingendo le irrealistiche istanze della cultura (cosmopolitica) ed entrando in conflitto  con quelle istituzionali  europee, super-macro (in atto),  e al tempo stesso con quelle  micro (in potenza) dei "migranti". Inoltre, questo processo conflittuale di chiusura è reso ancora più rischioso  dal metodo democratico, che essendo fonte di legittimazione politica e di consenso istituzionale, rischia di rendere  inevitabile la chiusura verso l’esterno, proprio in nome di una  dialettica macro contro micro,  imposta dall’  elettorato stesso, ancorato al macro, come surrogato storico del micro.  
Ora, non sosteniamo che il chiudersi sia la soluzione di ogni problema, né che il cosmopolitismo sia la fonte di tutti i mali. Come nelle forme allergiche, per riproporre la metafora medica, il cosmopolitismo rinvia a  un problema di dosaggio e di prudenti prove antiallergiche.  Però la chiusura  resta una risposta naturale (in senso sociale), come dire  al di là del bene e del male, di un organismo sociale, nel quadro di una dialettica reale: quella  del conflitto sociologico  micro-macro. Soprattutto quando le strutture istituzionali (il super-macro europeo) e culturali (l’illuminismo)  restano  inerti, come l’Unione Europea, o chiedono troppo, come certo cosmopolitismo.  Quindi la ex "civilissima" Austria va se non  giustificata, almeno compresa. Sociologicamente compresa.   

Carlo Gambescia         

         

mercoledì 27 aprile 2016

“Roma città aperta”, una lettura non conformista
Grande film, piccoli uomini




“Roma città aperta” è un capolavoro. Lo affermo da spettatore, ancora emozionato.  Lunedì mattina, appena sveglio, sono rimasto incollato davanti alle immagini in bianco e nero di una Roma sfigurata dalla paura. E  così  ho rivisto il film di Rossellini per l’ennesima volta.   E con immenso piacere.
Al grande fascino del film corrisponde però altrettanta ambiguità ideologica. Senza nulla togliere all’eroismo, storicamente provato con altri nomi ovviamente, di Don Pietro (Aldo Fabrizi) e alla  abnegazione  dell’ingegnere Giorgio Manfredi (Marcello Pagliero), il primo fucilato, il secondo, come tanti resistenti, torturato a morte dai nazisti, il film di Rossellini  conferisce ai comunisti un lasciapassare politico  che non meritavano.  E non meritano.  Assolutamente. 
Il che non significa attenuare le responsabilità degli aguzzini nazifascisti: la "sora Pina" di Anna Magnani che cade sotto i colpi di mitra degli sgherri tedeschi, solo perché vuole difendere l’uomo che ama,   resterà per sempre nell’immaginario collettivo degli italiani, come monito. Le stesse, implacabili, inquadrature dei rastrellamenti, che non potevano e non possono non restare  scolpite nella mente degli  spettatori (basta interrogarne a caso qualcuno), spiegano  tante cose di oggi: ad esempio la ritrosia, che tutti proviamo,  verso l’impiego di mezzi repressivi  che possano solo lontanamente ricordare quelli ordinati  da Hitler e dai suoi scherani.  Ma questa è  un’ altra storia…   Torno sul punto. Il maggiore Bergman (Harry Feist), si rivolge a  Manfredi, militante comunista, ormai in punto di morte dopo aver subito orribili torture, ricordandogli che i comunisti non lottano semplicemente per la libertà ma per imporre in Italia il proprio ordine politico.  
Il che  era vero, come provano gli storici. Però mettere in bocca a un feroce ufficiale nazista una tesi del genere significava privarla di qualsiasi valore politico: depotenziare qualsiasi differenza politica tra regimi liberal-democratici e dittature comuniste nel nome di una presuntiva fedeltà antifascista decisa, imposta e difesa dai sovietici fino alla caduta del regime nel 1991. Insomma,  Rossellini e i suoi sceneggiatori (tra i quali non mancava  Fellini), in quell’inverno del 1945, usando il classico argumentum ad hominem, conferivamo dignità culturale  e popolarità a una vulgata politica, di parte, che avrebbe trasformato sistematicamente ogni anticomunista, anche democratico, in  fascista.  E, al tempo stesso, come dire,  rilasciavano  una patente democratica a  un partito, quello comunista, che democratico non era…
Argomentazione, a dire il vero ciellenista, poi  dell’arco costituzionale antifascista,  usata politicamente da Togliatti contro De Gasperi e successori;  da Berlinguer contro Craxi;  dalla “mite” sinistra post-comunista contro Berlusconi. E ora  potrebbe toccare a Renzi.
Esagero?  In fondo, si parla solo di un film. Di una grande pellicola dietro la  quale  però  continuano a nascondersi piccoli uomini.  Sapete su quale rete  televisiva l’ho rivisto?  La terza rete della tv di stato.  Trasmesso il giorno della Festa della Liberazione.  Quando si dice il caso.
Festa di tutti,  ma a quanto pare,  non degli anticomunisti.

Carlo Gambescia              

  

lunedì 25 aprile 2016

Arma dei Carabinieri
Nucleo di Polizia Giudiziaria di [omissis]
VERBALE DI INTERCETTAZIONE DI CONVERSAZIONI O COMUNICAZIONI
(ex artt. 266,267 e 268 C.P.P.)
L'anno 2016, lunedì 25 aprile, in [omissis] presso la sala ascolto sita al 6o piano
della locale Procura della Repubblica, viene redatto il presente atto.
VERBALIZZANTE
M.O Osvaldo Spengler
FATTO

Nel corso dell'attività tecnica di monitoraggio svolta nell'ambito della procedura riservata n. 765/2, autorizzazione COPASIR 8932/3a [Operazione NATO “ASCOLTO FRATERNO” N.d.V.] è stato effettuata in data 24/04/2016, ore 10.37, l’intercettazione di una conversazione telefonica intercorsa tra le utenze di Stato 333***, in dotazione a S.E. FINZI MATTIA, Presidente del Consiglio dei Ministri, e  347***, in dotazione a SENSINI FABIO, consulente per la comunicazione della Presidenza del Consiglio.  Si riporta di seguito la trascrizione integrale della conversazione summenzionata:

[omissis]

S.E. FINZI MATTIA: “Sai che mi sono proprio commosso, a Marzabotto?”
SENSINI FABIO: “Sì, è da brivido nella schiena.”
S.E. FINZI MATTIA: “C’eri mai stato tu?”
SENSINI FABIO: “No. Tu?”
S.E. FINZI MATTIA: “No.”
[lunga pausa]
S.E. FINZI MATTIA: “Che stronzi però.”
SENSINI FABIO: “Chi?”
S.E. FINZI MATTIA: “Chi! I dissidenti, quelli della sinistra PD. Credono di avere il copyright della Resistenza, questi qua! Come se non fosse un valore di tutti gli italiani!”
SENSINI FABIO: “Sciacalli, Mattia. Sono sciacalli.”
S.E. FINZI MATTIA: “Una tragedia immane, le stragi, gli assassini, gli eroi, e quelli ci si fanno lo spot! Ma che schifo!”
SENSINI FABIO: “Sì, un bello squallore.”
S.E. FINZI MATTIA: “No, dico: chi li ha cacciati i tedeschi? La Resistenza o la sinistra PD? O Niki Svendola? Ma dai…”
SENSINI FABIO: “Oddio, per la verità…”
S.E. FINZI MATTIA: “Per la verità?”
SENSINI FABIO: “Per la verità, i tedeschi li hanno cacciati gli angloamericani. Se c’erano solo i partigiani, i tedeschi erano ancora qua.”
S.E. FINZI MATTIA: “Dici?”
SENSINI FABIO: “Eh sì. L’esercito tedesco era il migliore del mondo, i partigiani da soli gli facevano il solletico.”
S.E. FINZI MATTIA: “Ah.”
SENSINI FABIO: “Intendiamoci,  la Resistenza è sempre la Resistenza.”
S.E. FINZI MATTIA: [pausa] “Però non è la Resistenza che ha vinto la guerra. Volevi dire questo, no?”
SENSINI FABIO: “Ha vinto politicamente, Mattia. Che è quello che conta. Militarmente, be’…”
S.E. FINZI MATTIA: [pausa] “Cioè, tipo andare al governo senza vincere le elezioni. Tipo noi.”
SENSINI FABIO: “In un certo senso…”
S.E. FINZI MATTIA: “Poi però arriva il conto, eh? Voglio dire: chi ti ha messo al governo, prima o poi ti presenta la fattura.” 
SENSINI FABIO: “Eh sì.”
S.E. FINZI MATTIA: “In questa storia ci dev’essere una morale…”
SENSINI FABIO: “Che quando arriva la fattura, è meglio se la paga qualcun altro.”
[Ridono]



Letto, confermato e sottoscritto
L’UFFICIALE DI P.G.

M.o  Osvaldo Spengler


(*) "Trattasi" -   tanto per non cambiare stile,  quello  della  Benemerita...  -   di ricostruzioni che sono  frutto della mia  fantasia di  autore e commediografo.  Qualsiasi riferimento  a fatti o persone  reali  deve ritenersi puramente casuale. (Roberto Buffagni)


Chi è il  Maresciallo Osvaldo Spengler?  Nato a Guardiagrele (CH) il 29 maggio 1948 da famiglia di antiche origini sassoni (carbonai di Blankenburg am Harz emigrati nelle foreste abruzzesi per sfuggire agli orrori della Guerra dei Trent’anni), manifestò sin dall’infanzia intelletto vivace e carattere riservato, forse un po’ rigido, chiuso, pessimista. Il padre, impiegato postale, lo avviò agli studi ginnasiali, nella speranza che Osvaldo conseguisse, primo della sua famiglia, la laurea di dottore in legge. Ma pur frequentando con profitto il Liceo Classico di Chieti “Asinio Pollione”, al conseguimento della maturità con il voto di 60/60, Osvaldo si rifiutò recisamente di proseguire gli studi, e si arruolò invece, con delusione e sgomento della famiglia, nell’Arma dei Carabinieri. Unica ragione da lui addotta: “Non mi piace far chiacchiere .” (Com’è noto, il carabiniere è “uso a obbedir tacendo”). Mise a frutto le sue doti di acuto osservatore dell’uomo in alcune indagini rimaste celebri (una per tutte: l’arresto dell’inafferrabile Pino Lenticchi, “il Bel Mitraglia”). Coinvolto nelle indagini su “Tangentopoli”, perseguì con cocciutaggine una linea d’indagine personalissima ed eterodossa che lo mise in contrasto con i magistrati inquirenti. Invitato a chiedere il trasferimento ad altra mansione, sorprese i superiori proponendosi per la sala ascolto della Procura di ***. Richiesto del perché, rispose testualmente: “Almeno qui le chiacchiere le fanno gli altri.”
***

Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo lavoro, attualmente in tournée, è Sorelle d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista, musiche di Alessandro Nidi, regia di Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e Isa Danieli. Come si vede anche dal titolo di questo spettacolo, ha un po’ la fissa del Risorgimento, dell’Italia… insomma, dell’oggettistica vintage...




domenica 24 aprile 2016

Roma Caput Mundi della “Street Art”?
Stiamo freschi!



Piccola premessa. Quanto segue sotto, per capire che cosa sia la “Street Art” o arte di strada:

Difficile decidere, ma da qualche parte bisogna pur cominciare e abituati come siamo a ricevere gli input d’oltreoceano, una delle prime opere street da visitare è sicuramente al Quadraro, a firma di un texano D.O.C. Ron English. In via dei Pisoni, storica zona di Roma, che vanta celebri lotte contro la prepotenza dei poteri forti, teatro di resistenza al nazifascismo durante la deportazione, English (noto ai più per aver realizzato Abraham Obama, il celebre murales di Boston realizzato durante le presidenziale del 2008, in cui i volti dei Presidenti Obama e Lincoln si sovrappongono) ha disegnato un gigantesco Baby Hulk, The Temper Tot. Il soggetto ha il volto di un bimbo di due anni e il corpo di Mister Universo ed è in 3D. Il contrasto tra la forza della struttura e l’immaturità del bambino è un richiamo, un monito ai paesi potenti con governi inadeguati. Accanto un inquietante Topolino con una maschera antigas grazie alla quale è immune dall’avidità del mercato, i toni usati sono quelli del pastello amati dai piccoli. La realizzazione del murales sul Baby Hulk rientra in una partnership realizzata da diversi artisti uniti dal progetto M.U.R.O. (museo a cielo aperto) capitanata da David Vecchiato, in arte Diavù ed è stata documentata da SkyArte. 


Cosa aggiungere?  Che la “Street Art”, a prescindere dalle questioni estetiche (può o meno piacere),  maleodora di totalitarismo: il Messico intollerante e marxista  dove la si sperimentò per la prima volta,  l’America di Roosevelt che riprese l’idea a spese dello stato occhiuto e interventista; l’Italia fascista e la Russia comunista, rivolte a celebrare il culto dei capi. Senza dimenticare la Cina maoista. Dulcis in fundo,  il Maggio  ‘68  fucina di terroristi rossi e, per l'appunto,  fabbrica di artisti di strada. 
Che dire? Il terrorismo fu sconfitto, l'artista di strada no. Perché? Per una ragione semplicissima: quando un  movimento  non si trasforma in setta o abortisce ( o viene aiutato ad abortire),  un movimento,  anche artistico (si pensi ai Futuristi finiti Accademici d’Italia), non può non trasformarsi in istituzione (lezione di sociologia number one),  sicché,  anche la "Street Art",  che in fondo più che usare il mitra lo mimava,  non poteva non  finire in feluca. Pagata, però dai contribuenti borghesi, per farsi sputare in faccia, sempre per mimesi,  ad alzo zero. 
Si dirà, è il liberalismo, bellezza. Puoi dire quello che vuoi, purché eccetera, eccetera. Giustissimo, siamo i primi, a lottare  perché chiunque abbia idee e gusti differenti dai nostri eccetera, eccetera. Però, ecco il punto, non a spese delle stato.  O del Comune. Che, come quello di Roma, tecnicamente fallito per debiti e altre cosette, non potrebbe investire tempo, uomini e soldi per certe iniziative. O no?


Carlo Gambescia    

sabato 23 aprile 2016

Breve storia della destra  in Italia
L’ isola  che non c’è



Gli storici dei partiti e i  sociologi della politica incontrano  serie difficoltà quando provano a ricostruire la storia partitica della destra in Italia: una destra  politicamente infra-sistemica, conservatrice, liberale, democratica, dalla parte del mercato, una destra  di libertà,   dei diritti ma anche dei doveri sociali.  Quindi una destra scomoda, in qualche misura antipatica perché  nemica della  demagogia.  Una destra introvabile. Perché?  Cercheremo di rispondere, scusandoci in anticipo per le semplificazioni.
Nell’Italia liberale, la  base sociale ed  elettorale ristretta, impedì la nascita di un partito conservatore: praticamente destra e sinistra liberale, avevano un’ estrazione sociale medio-alto-borghese:  si parlavano, anche molto bene, ma tra di loro.  Piccola borghesia, contadini e (ancora modesti) nuclei operai rimasero fuori dalle dinamiche parlamentari se non per sparute schiere di repubblicani.  Con Giolitti, con il suffragio universale,  con il conseguente  graduale  ingresso dei cattolici  in politica e con la nascita del partito socialista scese in campo la piccola borghesia  delle città, delle fabbriche, delle campagne. Diciamo che da allora  iniziò, sociologicamente parlando, la corsa demagogica al centro politico: come  non andare verso il popolo? Come non allargare a ogni costo, anche puntando sulla demagogia,  le basi del consenso?  La storia lo voleva.  Del resto, al di là della retorica politica,  la scelta era imposta in parte dalla  democrazia, in parte dalle necessità elettorali. Nacque  così il Grande Centro Demagogico, al momento  solo  come idea sulla quale lavorare. Pareto capì subito che  su quella china per liberali  e conservatori le cose  si sarebbero messe male.  Giolitti, pur comprendendo i pericoli della demagogia,  meno.
L’Intervento e l’esperienza delle trincea bloccarono tutto e rimescolarono le carte,  proiettando in prima linea  la piccola borghesia,  i ceti operai e contadini. E in particolare i reduci (tra i quali moltissimi piccoli  borghesi che ora presentavano in conto).  Il fascismo, sullo sfondo del pericolo bolscevico,  vinse spostandosi a destra ma sposando sul piano sociale idee anti-liberali e in qualche misura di sinistra.  In nome della nazione armata  provò a cementare le classi,  bloccando tuttavia per vent’anni qualsiasi processo politico  e di nascita di una forza partitica di destra  infra-sistemica (come di sinistra democratica): liberalismo e democrazia rappresentativa erano giudicati dal fascismo i nemici assoluti, prima ancora del socialismo. Fu Mussolini, il primo demagogo a passare dalla teoria alla prassi,  promettendo  tutto a tutti e  anticipando in qualche misura, come vedremo, le scelte della Prima e Seconda Repubblica.  All'inventore del fascismo spetta il copyright dell' individualismo protetto o  quantomeno della sua prima  implementazione.  Da allora,  specialità italiana. 
Nel  Dopoguerra l’Italia rinacque al Centro: la Democrazia cristiana si qualificò come partito interclassista ma non conservatore,  anzi socialmente avanzato, al punto di scontentare perfino i moderati (si pensi all’esperienza del Centrosinistra). La Dc andava verso il popolo evitando di dire cose scomode ed elettoralmente non paganti.  Riuscendo così ad acciuffare voti da tutti i ceti sociali come difensore del sistema democratico e del benessere sociale contro il pericolo comunista.  Per contro il Pci si qualificò come opposizione anti-sistemica  puntando sul blocco operai e contadini e  sui ceti medi colti. Il Pci -  come anche il Psi -   diceva cose di sinistra ma in chiave anti-sistemica: in fondo però anch'essi come la Democrazia cristiana promettevano, tutto a tutti.  Quindi, a rigore, durante la Prima Repubblica,  nonostante il tentativo craxiano di socialdemocratizzazione infra-sistemica degli eredi di Turati e Nenni,  si confrontarono politicamente un partito di centro, talvolta spostato a sinistra ( verso socialisti e socialdemocratici) e una sinistra anti-sistemica (il Pci e i suoi fratelli coltelli dell’estrema). A margine restavano: a) sparute forze di destra infra-sistemiche, capaci di dire cose antipatiche agli elettori  (repubblicani e liberali), quindi contrarie a promettere tutto a tutti; b) ancora più insignificanti forze antisistemiche di tipo fascista (il Msi), eredi del "tuttismo" dittatoriale mussoliniano. 
Come si può capire, fino all’arrivo di Berlusconi e della Seconda Repubblica, la destra politica praticamente non esisteva, se non monopolizzata, e rivendicata anche lessicalmente, da un partito nostalgico del fascismo e  nemico del liberalismo (quindi anti-sistemico). 
In pratica, Berlusconi ereditò, sociologicamente,  l’elettorato interclassista della Democrazia cristiana, mentre le varie alleanze di sinistra,  l’elettorato  del Partito comunista.  Con una novità, per ambedue, gli schieramenti: lo spalmarsi di un ceto medio diffuso, con precedenti di astensione (soprattutto fra i moderati) frutto del progresso economico repubblicano, al centro ( meno istruito) e a sinistra (più istruito). La destra partitica, vera e propria, nonostante i proclami ricompositivi di Berlusconi, restò una  pura e semplice etichetta. Diciamo che il Cavaliere proseguì la politica democristiana  -  una Dc di poco spostata a destra -  ma con altri mezzi, puramente esteriori,  come ad esempio un linguaggio politico  aggressivo,  più vicino però  a quello di una destra anti-sistemica  che infra-sistemica di tipo democristiano e - di nuovo -  promettendo tutto a tutti.  Di qui, la grande confusione del ventennio berlusconiano che ha vissuto l'esperienza di una destra parlamentare  introvabile e che alla fine si è frantumata.  Perché nessuno voleva dire cose antipatiche all’elettorato. E quindi perdere voti.  
Il punto qual è?  Che l’Italia, sociologicamente, dopo il 1945 (ma il processo era  cominciato nel primo quindicennio del Novecento), si è gradualmente trasformata in una società di ceti medi, naturalmente calamitata verso il  centro politico. Oggi,  al massimo, della destra anti-sistemica ( leghisti e rottami neofascisti) il corpaccione del ceto medio può gradire il linguaggio truculento,  e della destra  sistemica ( liberale)  la critica allo statalismo.  Però al momento del voto, almeno finora, si è sempre ben guardata  dal votare le forze  anti-sistemiche oppure che dicano cose scomode elettoralmente tipo tagli, lavorare di più, rischiare in proprio eccetera.  Insomma, l'individualismo protetto nelle urne paga, quello puro o assoluto, no.  Il che spiega la popolarità di Renzi, condizionata però alla sua capacità di conciliare incentivi democristiani e modernismo economico:  una specie di quadratura del cerchio. La stessa che si tenta di implementare da Bruxelles.  Renzi  vive  sospeso come un equilibrista sul filo del rigore europeo  e della  necessità di aumentare i consensi.Chi vivrà, vedrà.
Tuttavia, i venti di guerra,  la crisi economica, le polemiche anti-europeiste, l’anti-parlamentarismo, possono influire sull’elettorato, che potrebbe decidersi a privilegiare le forze estreme anti-sistemiche (destra lepenista e populismo grillino), maestre nel promettere tutto a tutti.  E sarebbe un guaio. Forse come nel 1922. Certo, fatte le debite proporzioni. Non c'è Mussolini alle porte. Però.
Riassumendo: il  liberalismo post-unitario nelle sue varie sfumature (anche di destra) aveva una base sociale ristrettissima, il fascismo bloccò tutto, nazionalizzando l'individualismo protetto,  la Democrazia cristiana cancellò persino il termine politico destra,  favorendo però l'individualismo protetto degli italiani.  Berlusconi riabilitò il termine, ma solo tatticamente, continuando ad agire, per semplificare,  da democristiano,  coltivando il protezionismo sociale italiano.  In fondo il Cavaliere non sbagliava,  perché gli elettori italiani, per composizione sociale,   guardavano e guardano al centro politico. Vogliono tutto?  Perché no?  Poi se la vedranno le generazioni successive... 
Destra, liberale e democratica?  Parliamo di un’isola anti-demagogica  che, elettoralmente,  non c’è. Perché se dicesse ciò che pensa, si immagini al modello Thatcher in Italia, quanti voti prenderebbe? Per contro, se diluisse la verità,  potrebbe prendere qualche voto in più,  ma snaturandosi fino a sparire nel Grande Centro Demagogico. Purtroppo,  a meno di un  miracolo,  una destra liberale, conservatrice e democratica, in una parola sistemica,  capace di parlare, dicendo cose scomode, anche ai moderati,  per ora,  difficilmente troverà elettori disposti a imbarcarsi su una nave diretta verso le gloriose Falkland del liberalismo italiano.  

Carlo Gambescia

venerdì 22 aprile 2016

La solitudine  del  lettore moderato e liberale  davanti all’edicola (e al Pc)
Quale quotidiano leggere?     


Oggi “Il Tempo” apre con il titolo “Boia chi molla”, vecchio slogan del neofascismo reggino, duro e puro.  Non è una provocazione, o almeno non solo,  perché  alla forma ironica  risponde la sostanza fascista: ogni giorno sulle pagine della testata romana un tempo liberale è  un viavai di argomentazioni (si fare per dire) all’insegna di un  razzifascismo ammodernato,  quindi  non più contro gli ebrei ma contro gli immigrati.  Oddio,  non è che  “Libero” e “il Giornale” se la passino meglio…  Ad esempio, questa mattina, sembra che il principale problema degli italiani sia quello  della legittima difesa…  Insomma dagli Usa,  Chiocci, Sallusti e Belpietro  non  importano le cose buone come lo spirito imprenditoriale e le grandi capacità lavorative, ma solo le cattive, KKK e pistole facili. Evvai con  il razzifascismo armato!   
Ad eccezione de “Il Foglio”, ora però  sbilanciato su Renzi (ultima infatuazione di Ferrara), lo spettacolo offerto dalla stampa  che aspira a rappresentare la pubblica opinione di destra, conservatrice, moderata, liberale, è veramente pietoso: razzismo, scandalismo, statalismo, qualunquismo. E, cosa ancora più grave, si registra l’ assenza di una linea economica precisa e  in particolare  di difesa del libero mercato. Si potrebbe parlare di schizofrenia politica acuta, dal momento che in economia l’atteggiamento muta in  base a quello assunto dal Governo Renzi. Tradotto: non importa ciò che si scrive, importa solo che ogni volta  si propugni  l’esatto contrario di ciò che sostiene il Governo.
Si dirà chissene,  ci sono  i grandi quotidiani:   “Corriere della Sera”, “ La Stampa”, “ La Repubblica”.  Certo, ma che cosa hanno di  destra e di liberale? Nulla (salvo qualche isolato collaboratore). Sono socialdemocratici.  Come lo stesso  “Sole 24 Ore”, quotidiano confindustriale impregnato di spirito  keynesiano. Borghesia traditrice. Forse.   
Quanto alla cultura,  su  grandi e  piccoli giornali,  a  destra come a  sinistra,   prevale il modello unico “cultura & spettacoli”: gossip, nichilismo, passera. Naturalmente, il giornalismo di destra si è adeguato mettendoci del proprio: qualunquismo, razzismo e (come  nel caso de “Il Tempo”)  una bella manciata  di fascismo.  Il tutto a volume altissimo. Che poi a pensarci bene,  è il modello “urlo dunque esisto”  dei social network.  In qualche misura la stampa di destra  si è "facebookizzata",   forse più di quella spostata a sinistra.
Allora, cosa fare davanti all’edicola (e al Pc)?  Comprare  “Il Foglio”. Certo.  Che però, sorvolando sulla renzite acuta,  resta un secondo giornale: roba da “intellettuali”, da clubino, roba da piacioni, come garba  a Ferrara.  
Concludendo, manca a destra,  un primo giornale capace di  informare senza cadere nella  volgarità,  nel  razzismo, nel  qualunquismo, peggio ancora se in salsa seppiata fascista.  Occorre un  quotidiano serio,  equilibrato, liberale, che sicuramente troverebbe il suo pubblico.  Un giornale-giornale  come lo  erano negli anni Settanta del secolo scorso “Il Tempo" di Angiolillo e  “il Giornale” di Montanelli. E che ora non ci  sono più.               
Carlo Gambescia       

                

giovedì 21 aprile 2016

I novant’anni di Elisabetta II,  la monarchia  e  la caduta di Casa Savoia
Quando Pio XII, 
per un giorno, tornò Papa Re




Auguri di cuore  a Sua Maestà la Regina Elisabetta!  Anche se in Gran Bretagna, ma pure  altrove, i re ormai regnano ma non governano.  A grandi linee, in Europa, l’ultimo grande exploit  politico delle teste coronate, neppure molto brillante,  risale agli anni della Prima Guerra Mondiale.  Dopo di che  fu il diluvio:  dittatori,  partiti unici, repubbliche, socialdemocrazie e socialismi più o meno reali.  Eppure si dice che la monarchia, come istituzione, addirittura con aspetti carismatici,  non solo in Gran Bretagna,  continui efficacemente a  unire il popolo,  al di là dei partiti e delle fazioni.
In realtà,  i costituzionalisti di parte monarchica, rappresentano (e difendono) la figura istituzionale del re come  fattore di continuità e di altissima  mediazione. Il che non è sbagliato.  Uno statista italiano di fine Ottocento, molto discusso, Francesco Crispi, riassunse  egregiamente il concetto, quando dopo l’Unità,  da  repubblicano si tramutò in monarchico,   dichiarando, tra lo stupore dei suoi ex sodali, che la Monarchia unisce, la Repubblica divide.
Però -  ecco il punto -  passando  dalla teoria alla pratica,  una monarchia non può non identificarsi  con una famiglia reale. Pertanto  l’istituto monarchico non può prescindere da una tradizione familiare, radicatasi nei secoli, e dunque accettata, onorata, talvolta venerata, dai regnicoli o sudditi.
Se non c’è una famiglia reale capace di  identificarsi con il suo popolo, incarnando nei momenti difficili, se non addirittura tragici,  la monarchia, al di là di una ritualità tutta esteriore, che talvolta può trarre in inganno l'osservatore,   resta un corpo estraneo.  E prima o poi  non può non  cadere. Il che spiega le profonde differenze tra la monarchia britannica degli Hannover (poi Windsor), capace  di garantire tre secoli di unità,  progresso e libertà, e quella italiana dei Savoia,  nonché  le ragioni della caduta di quest’ultima, che  prima  consegnò l’Italia a Mussolini, poi a Hitler e infine,  sperando di salvare il trono,  alla stessa cricca di conservatori ottusi che aveva favorito l’ascesa  del fascismo.      
Per fare solo un esempio,  tragico,  del distacco di allora tra monarchia e popolo, si può ricordare che  all’indomani del primo bombardamento su Roma, nel luglio del 1943, sia Vittorio Emanuele III che Mussolini, si guardarono bene dal recarsi a  confortare gli sfollati.  Invece chi andò a rincuorarli, e subito?  Papa Pio XII.  In quel momento tornato,  per un giorno,  Papa Re…  La monarchia elettiva dei Papi si prese la sua rivincita su quella dinastica dei Savoia, dimostrando maggiore radicamento popolare.   
L’Italia sotto le bombe anglo-americane si spappolò: gli italiani, che fino allora avevano codardamente ubbidito a Mussolini,  cominciarono a maledire il duce e anche il re.  Inutile ricordare invece, la bellissima resistenza del popolo britannico, durante la Battaglia d'Inghilterra,  sotto le bombe tedesche,  eroicamente unito intorno a Giorgio VI e Churchill. Due monarchie, due tradizioni, due storie diverse. E purtroppo, non è uno slogan pubblicitario. 
E la Repubblica?   Trasforma i sudditi in cittadini.  Il che  non è poco.


Carlo Gambescia            

mercoledì 20 aprile 2016

Per  Francesco, i “migranti” sono un “dono”. E per Mattarella pure...
Particolarismo e universalismo: istruzioni per l’uso




Il Papa ha dichiarato, chiedendo scusa, che i “migranti” sono un dono. Tradotto un’occasione per fare del bene a chi ha bisogno.  Diciamo che  tutto ciò che serve a svelenire agli animi e  contrastare derive razziste  è più che giustificato. Quindi la Chiesa fa la Chiesa. Siamo sul piano del trascendente, dell' "al di là" come fine.  Del guadagnarsi, per chi abbia la fede,  con  buone azioni  il "Cielo".  A ognuno il proprio lavoro. Perfetto. 
Ciò che invece resta meno giustificabile  è l’universalismo laico e umanitarista,  i cui toni accesi finiscono per esaltare il  particolarismo razzista, altrettanto laico ma pronto a ribattere subito  colpo su colpo.  Siamo insomma, sul piano immanente, dove le parole sono pietre,  perché sono in gioco le risorse (scarse) dell'  "al di qua". Il rischio è quello dell'Inferno subito, fedeli o meno, in "Terra". Perciò non è altrettanto perdonabile l'atteggiamento di Sergio Mattarella, laico e presidente della Repubblica, e quindi di tutti italiani, anche dei potenziali "cattivisti",  che con il suo "buonismo" sembra invece dare man forte non solo al Papa ma allo stesso universalismo laicista, proiettando sul Quirinale l'ombra sinistra della  faziosità politica.  Si scherza con il fuoco. Perché, con il muro contro muro, si rischia di alimentare il  razzismo.
Si dirà: chi ha cominciato per primo? Difficile rispondere, è  il vecchio problema dell’uovo e della gallina... Altro  piccolo inciso: stiamo analizzando la questione immigrati sì-immigrati no, dal punto di vista dei processi culturali (e sociali),  insomma del clima culturale e dell’opinione pubblica,  non dal punto di vista  pratico o tecnico  dei provvedimenti politico-legislativi da implementare.   
Ma veniamo al punto. I comportamenti conflittuali (sociali e culturali) seguono un ritmo a spirale, di regola a un comportamento estremo ne corrisponde un altro uguale ma di segno contrario. Quindi la cosiddetta spirale dell' odio - ovviamente al rialzo -  è pericolosa.   Si tratta di un meccanismo azione-reazione,  una specie di moltiplicatore che  favorisce il progressivo distacco  dalla realtà, che procede per suggestione ed emulazione, quindi a prescindere dai fatti,  finendo per assumere forza propria in base a una certa immagine, sempre più irreale del nemico, il quale diventa  un vero e proprio  capro espiatorio a doppio senso. Tradotto: gli umanitaristi odiano i razzisti  e i razzisti  odiano gli umanitaristi, e così via in misura crescente.  Sicché  lo scontro sulle regole per il  “migrante” resta  il punto di partenza culturale di un processo conflittuale e scalare che ha come meta la guerra civile. Perciò,  sia detto en passant,  tutti gli attori sociali dovrebbero pesare le parole, pro o contro.
Come evitare, tutto questo?  Diciamo subito che  se il Papa fa il proprio dovere culturale, lo Stato,  abbondantemente  presente in campi  non di sua competenza, si guarda bene dal farlo.  Anzi fa di peggio: esce dalla sua neutralità per schierarsi con il potere religioso e  laico-umanitarista.  Invece di porre i diversi  gruppi di  pressione culturale  sullo stesso piano e fare così da contraltare, puntando sul  realismo, all’irrealismo della Chiesa (giustificato) e dell'universalismo laico (ingiustificato). Si pensi, come dicevamo, alle invasioni di campo del  nostro Presidente della Repubblica, Mattarella, il quale  talvolta  sembra addirittura assumere atteggiamenti da Papa laico coniugando etica cristiana e profana.  Un disastro.
Il che non significa che il particolarismo  razzista  (si pensi a Salvini  che ragiona  più o  meno  come un leader  del KKK) sia dalla parte della ragione. La chiusura totale, dal punto di vista dei processi sociali  non paga e può condurre  prima  alla guerra culturale, poi a quella civile, dal momento che l’irrigidimento culturale provoca sempre reazioni di segno opposto,  altrettanto dure. Quindi l'atteggiamento neutrale, di cui sopra, deve essere esercitato, anche in direzione del particolarismo.
Non parliamo di passività. La neutralità culturale dello stato, presuppone  misure concrete, positive, di regolamentazione dei flussi e degli accessi in Italia (e in Europa).  Dal momento che le risorse sono scarse e non tutti possono essere accolti. Oppure, viceversa, possono essere accolti tutti, ma solo al prezzo di un riduzione del  tenore di vita di chi accoglie. Argomento, quest’ultimo, socialmente scabroso, fonte certa  di conflitti politici.     
Perciò lo stato, quando necessario deve agire, e per tempo.  Con quali scopi?  1)  prevenire, con una accorta ma non invasiva legislazione sulle materie socialmente scabrose, le  guerre culturali, per evitare che degenerino in guerre civili; 2)  mantenere la neutralità culturale, evitando di condividere (o peggio subire)  linee di comportamento  razziste o universaliste,  fonte di conflitti,  quindi pericolose per la conservazione della pace sociale.
L’unica cosa lo che lo stato non dovrebbe mai   fare   è pontificare, proprio come il Papa,  sui grandi principi universalisti dell’accoglienza, dando così l’idea di essere favorevole alla fine di tutte le frontiere,  scontentando i particolaristi  e al tempo stesso,  attendere passivamente il corso degli eventi, scontentando  gli universalisti,  dando l’idea di essere (sotto sotto)  dalla parte dei razzisti.
Ed è proprio ciò che sta accadendo.
Carlo Gambescia                         

       

martedì 19 aprile 2016

Referendum anti-trivelle
Tredici milioni di  conservatori- progressisti




Ieri pensavamo,  a proposito dell’esito del referendum anti-trivelle, a come distinguere un conservatore da un progressista.
Diciamo che il conservatore difende  lo status quo, teme il futuro, ha paura del cambiamento, non lo incoraggia e se proprio deve, lo subisce. Il progressista, invece, guarda sempre avanti, non ha timore del mutamento, al punto di promuoverlo sistematicamente, talvolta troppo, anche ad ogni costo.  Per dirla in chiave di  psicologia politica:  se il primo è portato a scambiare la prudenza con il   timore fino  a  preferire  la  sottomissione, il secondo è così  ardito  al punto di  scambiare coraggio  con la temerarietà, fino  a rifiutare il principio di realtà.    
Sulla base di questa distinzione come definire 13 milioni di italiani che hanno votato sì al referendum, conservatori  o progressisti?
Di sicuro, “conservatori” dell’ambiente, secondo una vulgata, che, pur avendo sostenitori a destra (in genere i border line del radicalismo anti-moderno),  ha  profonde radici  anti-capitaliste, perciò a sinistra,   di   derivazione utopistica  piuttosto che marxiana (in senso stretto).  Dal momento che  Marx e soprattutto Engels non rifiutavano  modernità e scienza  (per non parlare poi, dell’entusiasmo costruttivista, fin troppo ingenuo, dei  diadochi  socialdemocratici, socialisti e  comunisti).
Il che  spiega  perché   nel voto contro le trivelle,  spicchi anche  un’istanza utopica di sinistra, nel senso di immaginare un mondo diverso (politicamente ed economicamente). Però, ecco il punto,  da perseguire a costo zero,  senza perdere i vantaggi della società avanzata. Nel senso, per dire una banalità, che si vuole continuare a correre in automobile parlando al cellulare ma al tempo stesso non si vuole pagare pegno (energetico).  Pertanto quel voto è conservatore rispetto allo stile di vita, perché pochi tra quei tredici milioni sarebbero disposti a cambiarlo,  ma utopico-progressista rispetto  alla finalità sociale e politica. Quindi un voto contraddittorio. Come dire, tredici milioni di conservatori-progressisti… Insomma, si vuole fare la rivoluzione con il permesso dei carabinieri della modernità.
Ovviamente, sull’istanza utopica, si innestano - ecco tornare la chiave progressista -   i grandi discorsi, spesso campati in aria, sulle "energie alternative" (perché eludono o minimizzano i costi sociali ed economici riorganizzativi) e le semplificazioni narrative sulle mitiche potenzialità (collettive e ultrademocratiche) dello strumento referendario su temi invece  complessi di derivazione scientifica e tecnica.
Come concludere? Che in materia, a dispetto di quanto predica l'ecumenismo politico verde-rosso-bruno, il vero discrimine politico tra conservatori  e progressisti  potrebbe essere rappresentato, a destra si intende,  dalla valorizzazione del concetto di  “prezzo pagare”  e di quantificazione del danno (antropologicamente e sociologicamente ineliminabile, se ci si vuole definire conservatori: qui sta la differenza tra l'imperfettismo di  destra e il perfettismo di  sinistra ), danno, dicevamo, che una società si propone di sopportare (il paretiano utile per la società), pur di  conservare uno stile di vita moderno, apprezzato e condiviso dalla maggioranza dei cittadini, come del resto mostra  il voto di domenica. Che però ha di nuovo certificato  l'esistenza di un  potenziale esercito di destra (coloro che hanno votato no direttamente o indirettamente, almeno in buon parte,  non andando alle urne ), privo di generali politici.
Quantificare il danno accettabile. A dirlo sembra semplice, politicamente semplice.  In fondo, si tratta di  difendere lo  status quo. Di "fare catenaccio" contro ogni forma di confuso estremismo, a cominciare da quello ecologista. Di dire, insomma, le cose come stanno. Di riaffermare il principio di realtà, interpretando, anche elettoralmente, un bisogno diffuso quanto inevaso di destra, di destra sistemica, ovviamente. Servirebbero però  politici conservatori dotati di  coraggio.   Altra contraddizione… O magari solo intelligenti?   

Carlo Gambescia   



Il successivo  dibattito su Facebook 
con Claudio Ughetto e Carlo Pompei 



Claudio Ughetto  Preferisco la definizione di Ambrose Bierce: "Conservatore, uomo politico affezionato ai mali del passato. Da non confondere col progressista, che invece vuole sostituirli con mali nuovi"…

Carlo Pompei Falcone Una opinione autorevole, prendiamone atto, ma non gli conferisco la verità assoluta. Sono per pescare le sintesi…

Claudio Ughetto Vero, poi mi danno del nichilista… 

Carlo Pompei Falcone esatto, altra categoria abusata ed equivocata.

Claudio Ughetto Come indirettamente discutevamo una settimana fa sull'essere di destra o di sinistra, l'epoca è troppo cambiata, come anche l'approccio culturale, per stagnarsi su simili categorie.

Carlo Gambescia Caro Claudio, visto che mi si chiama in causa, o quasi (tra l'altro ancora aspetto una tua riposta (via tag) sui miei quattro punti di qualche giorno fa (parlo della mia pagina Fb). Intanto, Bierce, era un Mark Twain sfortunato, e forse per questo più simpatico dell'originale.Però la definizione da te citata, a mia avviso si attaglia più al reazionario che al conservatore. Ma non mi interessano, qui, le battute. Quanto al destra e sinistra, si tratta di categorie già finite, stando ai detrattori (legittimisti e socialisti utopisti) nel 1848... Anche per essi, l'epoca già era troppo cambiata... E invece eccole qui, che vivono e lottano insieme a noi. Confusione, molto pericolosa, invece continua  farla  chi  si ostina a negare la democrazia rappresentativa e liberale ( e il dividersi eccetera ...). Tu parli di approccio culturale cambiato... No, qui, carissimo permane una divisione unica, culturale e politica (che poi, di volta in volta si è rispecchiata storicamente in istituzioni, eccetera) dal Socrate platonico in poi: la conoscenza è virtù: sì o no? Cioè chi sa è anche buono? E si può trasmettere la bontà, acquisibile per virtù? Per la destra no. E infatti l'antropologia della destra - non mi riferisco ai fascio-socialisti, eccetera - non crede nella tabula rasa, ma nella forza della tradizione ricevuta per osmosi ambientale (di qualsiasi tipo) e nelle virtù innate, patrimonio di pochi. Per la sinistra sì... L'uomo (antropologicamente) può essere costretto ad essere libero, dal momento che - si cantilena - l'uomo più è istruito (conoscenza) più è buono (virtuoso). Di qui, la tabula rasa delle tradizioni ( tutte; per questo, anche la tradizione moderna è a rischio), e sotto con l'educazione coattiva: per poi ricominciare ogni volta da capo eccetera.... In realtà, non mi stancherò mai di ripeterlo ( e qui il nostro cruccio di intellettuali, non sempre compresi), l'uomo al capire preferisce il credere. Quindi si continua ad essere di destra come pure di sinistra: antropologicamente, cognitivamente e politicamente. Malgrado il tifo contrario e interessato dei terzaviisti, che non sanno poi dove cazzo andare, salvo che in braccio allo stato... Perché, alla fin fine, il principio di realtà non può essere ignorato. E si vendica sempre. Un abbraccio.Un caro saluto al padrone di casa!

Claudio Ughetto Carlo, in realtà la stavo prendendo un po' per scherzo. Il tuo articolo è molto condivisibile. Tra l'altro, ho scritto qualcosa sul buttarsi nelle braccia dello stato proprio ieri, benché io sia meno convinto di te che buttarsi nelle mani del liberismo più selvaggio sia la soluzione. La realtà è anche rendersi conto che la possibilità di morire inquinati non è peregrina. "Le conseguenze del mancato quorum mi hanno portato a una riflessione più ponderata sulla natura di noi italiani. Alla fine dovremo decidere tra il qualunquismo che ci permea, spacciato per anarchismo da quattro soldi, e la medesima retorica statalista che portiamo in piazza ogni volta che ci svuotano il portafoglio o ci riempiono i campi di immondizia. O tra la vita sana e avere il centro storico con le auto in tripla fila per favorire i commercianti".


Carlo Gambescia Grazie Claudio. Un solo punto: nel il mio "Liberalismo triste", non riduco il liberalismo al solo liberismo, cosa che tra l'altro, mi ha attirato le critiche dei liberali an-archici. Sul piano pratico, come ho scritto, si tratta di mediare tra varie tendenze (an-archica, micro-archica, macro-archica), compito questo del liberalismo archico, o triste, non ridens... Quindi si tratta, di valutare caso per caso, seguendo il meccanismo della formazione dei prezzi, come e dove intervenire con liberalizzazioni e privatizzazioni, tenendo presente anche i cosiddetti fallimenti del mercato. Al "morire inquinati", mi dispiace per te, do lo stesso significato, che attribuisco al termine "liberalismo selvaggio": idee-forza, da comizio, usate da certa sinistra arcaica e cripto- totalitaria, idee che confliggono con il principio o "senso della realtà", per usare un termine del nostro caro Berlin. Un abbraccio 

Claudio Ughetto È proprio lì, il discorso, Carlo: io mi sento profondamente liberale, ma la possibilità di morire inquinati c'è eccome. E non la metto su un piano ideologico: l'URSS inquinava tanto quanto gli States se non peggio (anzi, sicuramente peggio). Lasciamo poi perdere Cuba, che ha solo il vantaggio di essere piccola: viaggiare con certi rottami di auto non fa bene alla salute.  Come scrivi tu, si tratta insomma di valutare caso per caso, mettersi magari in testa che certe scelte possono aprire nuovi mercati ecc. In questo, ti confesso, vedere con quanta foga certi governi difendono l'uso del petrolio dove potrebbe essere evitato mi fa pensare a una politica più "conservatrice" che progressista. Ma forse qui stiamo dicendo qualcosa di simile da punti di vista diversi.  Per il resto, chi "sa" non è per forza buono, ma confesso che con Trump andrei soltanto a divertirmi in birreria. Però è vero che apri una questione difficile, dove si palesa tutta la mia contraddizione tra una strenua difesa della libertà e l'idea (snob e aristocratica, o per meglio dire manzoniana) che il popolo si possa educare per ottenere una società migliore.
Mi devo decidere, insomma...

Claudio Ughetto O forse, andando nel profondo, qui si esplicita tutto il mio rapporto con la classe lavoratrice, da cui provengo. Alla sinistra piace vederla come portatrice del bene, io l'ho sempre vista come quella che vota Trump e Berlusconi, oppure salta un referendum, perché è la prima a pensare in senso utilitarista.  Non l'ho mai sopportata. Ora l'ho detto... 

Carlo Gambescia Claudio, capisco benissimo i tuoi dilemmi interiori e apprezzo la tua sincerità (pubblica). Semplificando al massimo: nel mio articolo do questa risposta: "dalla valorizzazione del concetto di 'prezzo pagare' e di quantificazione del danno (antropologicamente e sociologicamente ineliminabile, se ci si vuole definire conservatori: qui sta la differenza tra l'imperfettismo di destra e il perfettismo di sinistra ), danno, dicevamo, che una società si propone di sopportare (il paretiano utile per la società), pur di conservare uno stile di vita moderno, apprezzato e condiviso dalla maggioranza dei cittadini, come del resto mostra il voto di domenica" . Si tratta di sostituire il concetto di danno sostenibile (in rapporto a ciò che perderemmo, in cambio, come sistema di vita) al principio di precauzione (vietare tutto, a prescindere, perché si potrebbe morire, come dici tu eccetera; però "alla lunga" come dice Keynes, liberale macro-archico, questa di battuta gliela concedo, "saremo tutti morti") : Vilfredo Pareto vs Hans Jonas. Naturalmente, ripeto, ho semplificato. Forse troppo. Ma è di questo che si dovrebbe ragionare (non con te ovviamente).

Claudio Ughetto Anche con me. Posso avere dubbi e perplessità, che ti esprimo, però hai il pregio di stimolarmi a pensare. Ogni mia evoluzione (o de-evoluzione) è il risultato di confronti con pensatori che mi danno degli insight non pensando cose che già penso, ma deviando su terreni comuni.             

lunedì 18 aprile 2016

Arma dei Carabinieri (*) 
Nucleo di Polizia Giudiziaria di [omissis]
VERBALE DI INTERCETTAZIONE DI CONVERSAZIONI O COMUNICAZIONI
(ex artt. 266,267 e 268 C.P.P.)
L'anno 2016, lunedì 18 aprile, in [omissis] presso la sala ascolto sita al 6o piano
della locale Procura della Repubblica, viene redatto il presente atto.
VERBALIZZANTE
M.O Osvaldo Spengler
FATTO
Nel corso dell'attività tecnica di monitoraggio svolta nell'ambito della procedura riservata n. 642/2, autorizzazione COPASIR 3636/3b [Operazione NATO “SCAMBIAMOCI UN SEGNO DI PACE” N.d.V.] è stata intercettata, in data 17/04/2016, ore 11.23, una conversazione telefonica tra l’utenza di Stato vaticana in uso a  S.S. SANCHO I, e l’utenza n. 338***, in uso a MARCHINI WANNA. Si riporta di seguito la trascrizione integrale della conversazione summenzionata:

[omissis]



MARCHINI WANNA: “Pronto? Pronto, chi è?”
S.S. SANCHO I: “Wanna!”
MARCHINI WANNA: “Maestro, sei tu?!  Il maestro do Nascimiento? Finalmente! Ma dove ti eri caccia…”
S.S. SANCHO I: “Ma no, Wanna! Sono io, Sancho!”
MARCHINI WANNA: “Occazzo, scusa, Ciccio! Ti ho scambiato per …sai, l’accento brasiliano…”
S.S. SANCHO I: “Sono argentino.”
MARCHINI WANNA: “Va be’, non stiamo lì a spaccare il capello in quattro, dai…senti, lo so che sono in arretrato coi diritti per la trasmissione di Padre Pio, ma Stefanella è stata tanto malata, poverina…”
S.S. SANCHO I: “Non è per quello.”
MARCHINI WANNA: “Ah no?”
S.S. SANCHO I: “No. Non bisogna pensare sempre ai soldi, ti pare Wanna?”
MARCHINI WANNA: [pausa, lungo sospiro]: “Eh già.”
S.S. SANCHO I: “Ti chiamo perché ho pensato a te, Wanna, che sei tanto energica, tanto creativa, che sai fare la televisione umile, la televisione per il popolo, la televisione senza puzza al naso…. Sai di Lesbo, no?”
MARCHINI WANNA: “Come, scusa?”
S.S. SANCHO I: “Lesbo. Lesbo, sai…”
MARCHINI WANNA: [pausa. Tra sé, a parte:] “Però, hai capito… che impunito Ciccio… [a S.S. SANCHO] Ti ascolto, Ciccio, non è il mio campo ma a me non mi spaventa niente. Vai.”
S.S. SANCHO I: “Ti vorrei far conoscere alcune persone per fare delle riprese TV…forse un documentario, mi dirai tu…ci sono certe storie di vita, se sapessi…”
MARCHINI WANNA: “Che età?”
S.S. SANCHO I: “Eh, ci sono anche dei bambini…”
MARCHINI WANNA: [lunga pausa] “Senti, Ciccio, ti posso parlare francamente?”
S.S. SANCHO I: “Ma certo.”
MARCHINI WANNA: “Tu lo sai che io certe cose le capisco…i problemi, chi è che non ha i suoi problemi? No? Com’è che dici sempre tu? ‘Chi siamo noi per cosare’? “
S.S. SANCHO I: “Chi siamo noi per giudicare, certo. Solo il Signore giudica, nella sua infinita misericordia.”
MARCHINI WANNA: “Ecco. Anche con quel tuo dipendente, l’Abate di Montecoso… mi sono mai lamentata perché di notte va in giro vestito da Abatessa, col pitone intorno al collo tipo stola? No che non mi sono lamentata, perché io i problemi, le…come dire, le…”
S.S. SANCHO I: “…le fragilità?”  No entiendo la conexión, Wanna...
MARCHINI WANNA: “Bravo! Le fragilità, ecco. Le fragilità le capisco. Una volta l’Oreste, il mio ex marito…ma lasciamo stare. Però vedi, ecco…tu forse non ti rendi conto, perché sei una persona così importante…”
S.S. SANCHO I: “Macché importante, io sono il servo dei servi di Dio, Wanna.”
MARCHINI WANNA: “Sì sì, però…insomma, ti rendi conto di cosa rischio io?”
S.S. SANCHO I: “No entiendo... Qué quieres decir... Che vuoi dire....  Tu hai paura perché sono musulmani?”
MARCHINI WANNA: “Ah perché, sono anche musulmani? Comunque no, non è per quello. E’ perché sono bambini, Ciccio. Bambini!”. “No, guarda, è che proprio non me la sento, Ciccio.”
S.S. SANCHO I: “Mi deludi, Wanna.”
MARCHINI WANNA: “Mi dispiace, Ciccio. Non è al mio livello, capisci? Va bene per voi papaveri che siete alti alti, ma io son nata paperina, che cosa ci vuoi far…”
S.S. SANCHO I: “Ma cosa dici?! Papaveri, papere, e cosa c’entra?…è che tu sei una razzista, Wanna. Da te proprio non me lo aspettavo.”
MARCHINI WANNA: “Razzista? Se adesso si dice così. Senti, Ciccio, ciao, scusa tanto ma proprio non me la sento, non posso…in galera ci sono già stata, abbiamo già dato…stammi bene…sentiamoci, eh?” [chiude la comunicazione]
S.S. SANCHO I: [tra sé, a parte]: “Ecco che cosa manca, oggi. La solidarietà, la solidarietà!”



Letto, confermato e sottoscritto
L’UFFICIALE DI P.G.

M.Osvaldo Spengler

(*) "Trattasi" -   tanto per non cambiare stile,  quello  della  Benemerita...  -   di ricostruzioni che sono  frutto della mia  fantasia di  autore e commediografo.  Qualsiasi riferimento  a fatti o persone  reali  deve ritenersi puramente casuale. (Roberto Buffagni)

Chi è il  Maresciallo Osvaldo Spengler?  Nato a Guardiagrele (CH) il 29 maggio 1948 da famiglia di antiche origini sassoni (carbonai di Blankenburg am Harz emigrati nelle foreste abruzzesi per sfuggire agli orrori della Guerra dei Trent’anni), manifestò sin dall’infanzia intelletto vivace e carattere riservato, forse un po’ rigido, chiuso, pessimista. Il padre, impiegato postale, lo avviò agli studi ginnasiali, nella speranza che Osvaldo conseguisse, primo della sua famiglia, la laurea di dottore in legge. Ma pur frequentando con profitto il Liceo Classico di Chieti “Asinio Pollione”, al conseguimento della maturità con il voto di 60/60, Osvaldo si rifiutò recisamente di proseguire gli studi, e si arruolò invece, con delusione e sgomento della famiglia, nell’Arma dei Carabinieri. Unica ragione da lui addotta: “Non mi piace far chiacchiere .” (Com’è noto, il carabiniere è “uso a obbedir tacendo”). Mise a frutto le sue doti di acuto osservatore dell’uomo in alcune indagini rimaste celebri (una per tutte: l’arresto dell’inafferrabile Pino Lenticchi, “il Bel Mitraglia”). Coinvolto nelle indagini su “Tangentopoli”, perseguì con cocciutaggine una linea d’indagine personalissima ed eterodossa che lo mise in contrasto con i magistrati inquirenti. Invitato a chiedere il trasferimento ad altra mansione, sorprese i superiori proponendosi per la sala ascolto della Procura di ***. Richiesto del perché, rispose testualmente: “Almeno qui le chiacchiere le fanno gli altri.”
***

Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo lavoro, attualmente in tournée, è Sorelle d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista, musiche di Alessandro Nidi, regia di Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e Isa Danieli. Come si vede anche dal titolo di questo spettacolo, ha un po’ la fissa del Risorgimento, dell’Italia… insomma, dell’oggettistica vintage...