martedì 31 dicembre 2019

Cronache di ordinario razzismo di fine anno
Il futuro ha un cuore antico. Anzi arcaico…

Ultimo giorno del 2019. I  giornali diffondono  previsioni non solo per il prossimo anno ma addirittura per il decennio successivo. Si  indicano trend, si formulano micro e macromodelli, con una presunzione che spaventa.
In realtà, non c’è alcuna necessità di andare così lontano, né di impostare equazioni e funzioni, basta prendere un taxi e possedere alcune informazioni di base.  
Innanzitutto, che le opinioni dei tassisti, e non solo durante le elezioni,  sono  un specie di termometro sociale. Si tratta di   cosa sulla quale c’è accordo  addirittura  tra i sondaggisti, perché il tassista rappresenta l’uomo medio, il sapere collettivo ordinario, eccetera, eccetera.
Vengo al punto. Ieri ho preso un taxi.  Al volante c’era  un uomo di quarant’anni, fisicamente ben piantato, ordinato nel vestire, dai modi garbati, silenzioso quanto che basta. A un certo punto, davanti al semaforo in attesa del verde, scorgiamo, mentre attraversano,  due donne africane, giovani, dai sederi prominenti.  Il tassista, girandosi,  testuale, mi dice: “Dotto', non so  come 'a  pensi lei, io non so' razzista, però, ogni vorta che devo scarrozza'  pe' Roma  ste’ culone,  dopo so' costretto a lava' la macchina  perché puzzano troppo… Io non so’ razzista, ma queste  nun se lavano”.
Imbarazzatissimo - io -   non rispondo e  cambio discorso. Fortunatamente, la corsa dura ancora  pochi minuti. Pago,  saluto e scendo. Il tassista  ricambia cordialmente, felice, credo, di non dover lavare  i sedili…

Ora,  il punto sociologico non è solo quel che ha detto il tassista, ma la naturalezza con cui si è espresso .  Come dire? Il suo razzismo ordinario, addirittura banale.
Evidentemente, si tratta della  sua normalità: dice cose che nessuno gli contesta, quindi condivise, frutto di  un sapere tacito e diffuso, dove si dà per scontato, come per  qualsiasi altro luogo comune, che "il nero puzzi". E non perché abbia una secrezione ascellare differente ( e la stessa cosa vale anche per i “bianchi” e le altre  etnie),  effetto  di  fattori metabolici e ambientali, ma perché “non si lava”.
Ora, se anni di scuola dell'obbligo,  televisione, cinema,  internet, supermercati, ristoranti etnici,  turismo di massa,  non hanno influito minimamente su questo luogo comune razzista, sarà difficile che ciò  possa avvenire in futuro.
Anche perché, se al dato soggettivo della corsa in taxi, si affianca il dato  statistico oggettivo,   che  prova  che due italiani su tre  sopravvalutano numericamente la presenza di immigrati,   e che un italiano su due è contro l'accoglienza in particolare degli  africani,  la prognosi sociologica,  almeno per ora,  appare infausta.  
Perciò si possono pure fare tutte le previsioni possibili, ma l’uomo “bianco”  sembra non aver perduto i suoi  vieti  pregiudizi.  Il futuro sembra avere un cuore antico. Anzi arcaico.
Dimenticavo, buon 2020 a tutti...


Carlo Gambescia     

               

lunedì 30 dicembre 2019

Riflessioni
Populismo e  antisemitismo
                    


Certo, discutere del pericoloso  e crescente ritorno dell’antisemitismo, fatto che oggi è su quasi tutti i giornali,  non è un  bel modo per mettere la parola fine al  2019.
Inutile però  girare intorno all’argomento: l’ascesa del populismo, come del resto è sempre stato nella Russia zarista come negli Stati Uniti di fine Ottocento,  racchiude in sé  una innegabile e forte  componente antisemita.  A sua volta,  l’antisemitismo, come insegna Hannah Arendt, è una componente del totalitarismo.

Pertanto c’è di che preoccuparsi.  L’antisemita, in genere un fallito sociale,  scorge nell’ebreo il capro espiatorio: il responsabile ultimo della sua condizione.  Va sottolineato, sulla scorta di un famigerato  saggio di Marx, che l’antisemitismo riassume tristemente in sé, la doppia condanna dell’ebreo in quanto borghese, e del borghese in quanto ebreo. Di qui,  la non proprio singolare e inaspettata fusione tra antisemitismo di destra e di sinistra. Parliamo di  un processo politico che nel populismo, fenomeno politicamente trasversale, ha perciò un potentissimo veicolo  di incubazione che conduce a ciò  che i mass media, sbrigativamente,  definiscono il movimento rosso-bruno.  Un magma ideologico che rappresenta, ovviamente in prospettiva, la reincarnazione del totalitarismo  fascista e comunista.
Ciò significa che il populismo andrebbe contrastato in modo inesorabile perché  racchiude  in sé quei germi velenosi  che favoriscono la nascita  di  regimi politici nemici della liberal-democrazia.

L’Occidente euro-americano è cosciente di questo pericolo? Sembra proprio di no.
L’Unione Europea in particolare, oltre ad aver inglobato  paesi dell’Est Europa, dalle tradizioni politiche fortemente antisemite, accetta la fittizia distinzione tra antisemitismo e antisionismo, condannando il primo e tacendo sul secondo. Israele nell’immaginario criptotalitario della destra e della sinistra populiste, viene rappresentato come un feroce  stato colonialista…
Un’ipotesi surreale, che però  sviluppa in  forme diverse la sostanza dello stereotipo  antisemita dell’ebreo crudele,  avido di soldi come di potere. Una vergogna.
Sono scempiaggini. Che la ragione può spiegare e dissolvere alla luce delle argomentazioni.  Eppure siamo qui a discutere di ritorno dell’antisemitismo. Evidentemente c’è un lato oscuro nell’uomo. E il populismo riesce a coglierlo e rianimarlo.    

Carlo Gambescia                      

     

domenica 29 dicembre 2019

Moltiplicazione delle poltrone
Magari si trattasse  solo di questo…


Sulla sostituzione del Ministro Fioramonti con due Ministri,  Azzolina e Manfredi,  la destra ha subito rinfacciato  l’incoerenza di chi vuole tagliare le  famigerate “poltrone”, e invece eccetera, eccetera.
Certo, il giochino delle poltrone è evidente. Al posto di  un Ministro in quota Cinque Stelle, se ne sono salomonicamente messi due  in quota Cinque Stelle e Partito democratico. La trovata è quella di dividere il Ministero della Pubblica Istruzione (o  Scuola)  da quello dell’Università. E così non scontentare nessuno, salvando il  precario equilibro politico del governo in carica.
In realtà  non ci sarebbe  nulla male, perché scuola  e ricerca sono mondi differenti con esigenze diverse.  Quindi l’idea in sé, dal punto di vista organizzativo (e non dei puri risparmi),  avrebbe un suo fondamento.  
Quindi tutto a posto?  No, perché  dietro l’idea organizzativa si nasconde  un’altra idea:  quella di credere nel valore di un sistema di istruzione e ricerca, accentrato e teleguidato dal  ministero (o  dai ministeri).  

C’è però dell’altro. La vera  questione  non è rappresentata dall’illusione dirigista,  ma soprattutto dalla credenza nel valore catartico dell’istruzione e dell’educazione. 
Insomma, il  problema è   nell’attribuzione di  un senso metafisico di redenzione politica e sociale  al possesso di diplomi e titoli. Detto altrimenti, nella falsa  credenza che il titolo  crei il cittadino.  Che istruzione  ed educazione siano la stessa cosa. Che razionalizzazione e libera scelta procedano insieme. 
Un popolo istruito e informato non voterebbe Salvini.  Né avrebbe idolatrato Togliatti, Stalin e  Mussolini. Evidentemente, c’è qualcosa che non funziona  sul piano dell'antropologia sociale:  della percezione delle nozioni e cognizioni collettive.  L’istruzione, che è  razionalizzazione,  si risolve in uno strato di vernice che non ricopre mai completamente la sostanza irrazionale  che cova nell’uomo. 
Sostanza che si può contrastare ( e mai chiave definitiva)  solo con l'autoeducazione che è sempre frutto di libere scelte individuali, legate a intelligenza, sensibilità, eccetera. Doti non comuni, di pochi.  Di qui, le distorsioni cognitive, l’idolatria, eccetera. Distorsioni che sembrano invece caratterizzare la maggioranza degli uomini. Che spesso l'istruzione, come mezza cultura imposta dall'alto e quindi mal digerita,  peggiora. 
Ciò non significa che l’istruzione  sia inutile. Una società aperta ha necessità di figure e qualifiche. Come del resto ricerca e studio sono fattori di progresso. Ci mancherebbe altro.  L’aspetto  pericoloso   è nell’idolatria  dell’istruzione e della ricerca. Idolatria - ecco il punto fondamentale -  che determina quel che può essere definito il circuito distorsivo della aspettative .  
Si ritiene che quanto più lo stato investirà in tale campo, tanto più ci si avvicinerà alla perfezione, al cittadino e al lavoratore perfetti.  Di conseguenza, ogni taglio agli investimenti sociali in tale ambito, viene vissuto dagli elettori come un taglio al proprio futuro. Di qui, da parte degli eletti,  promesse, deficit, tasse, accorpamenti, eccetera.  

Insomma, siamo davanti a un nodo  che può essere sciolto solo diminuendo le aspettative antropologiche e privatizzando i sistemi di istruzione e ricerca.  Ovviamente, senza sconvolgere il ciclo pubblico della scuola primaria.
Misure radicali.  Che i partiti di destra e sinistra difficilmente possono approvare, perché la politica, sembra ormai reggersi solo sullo scontro tra idolatrie contrapposte. O meglio,  come avrebbe detto Pareto, sembra fondarsi non sul massimo di utilità per una collettività, quindi sugli effetti riequilibranti  della  mano invisibile degli interessi individuali, ma sul  massimo di utilità  di  una collettività, concepito dall’alto, da uomini che si ritengono  illuminati, e perciò presuntuosamente convinti  di sapere  cosa sia bene per ogni singolo cittadino. Una mostruosità sociologica.
Di qui però, poiché le risorse sono  limitate proprio perché tali, l’illusoria  promessa di  moltiplicare  pani, pesci e  ministeri…


Carlo Gambescia


sabato 28 dicembre 2019

Sociologia di Pietro, Camilla e Gaia

La conoscenza dei fatti  non è mai facile. La realtà è complicata, spesso impenetrabile.  Pertanto dalle ricostruzione  giornalistiche riprendiamo solo due “fatti” (o quasi): il primo che Pietro Genovese non era un “automobilista” modello; il secondo che  Camilla Romagnoli e Gaia von Freymann,  non erano “pedoni” modello. Un terzo fatto, che dovrebbe far riflettere,  è l’età complessiva dei tre giovani coinvolti nell’incidente di Corso Francia: 42 anni. Una tragedia.
La reale dinamica verrà accertata, ci si augura,  dai giudici,  Una delle famiglie delle vittime  ha scelto un avvocato molto agguerrito, Giulia Bongiorno, Probabilmente, anche il padre di  Pietro,  noto regista, opterà per un legale di pari fama.
Il contesto sociale dell’incidente è borghese, probabilmente alto-borghese, comunque sia, sociologicamente parlando,  si tratta di  ceti medi:  la principale ossatura sociale di ogni società aperta.
E qui sorge  una  domanda sociologica (non giudiziaria) che al momento  può apparire spietata. Perché la  borghesia affluente di oggi "produce"  automobilisti e pedoni  lontani dal rappresentare dei modelli sociali di riferimento?  
In argomento,  la letteratura è vastissima e  non deve indurre a determinismi sociali. Perché i comportamenti devianti (dalle regole) riguardano  tutti i ceti sociali. 
Tuttavia  il   punto sociologico  è costituito, ripetiamo,   dal perché la borghesia, se si preferisce il ceto medio, abbia rinunciato alla trasmissione sociale  di valori elementari di natura  endoattiva (per usare un termine a metà strada tra la psicologia e il diritto). Per dirla altrimenti:  un semaforo rosso (o verde) rappresenta l’accettazione interiorizzata di un patto tacito di civiltà, qualcosa  che rinvia al grado zero della socialità moderna, fondata, almeno in linea di principio, sul libero consenso.   Sopra di essa, vengono vigili, poliziotti, giudici, eccetera, ossia l’apparato coercitivo, che però -  ecco il punto -  nel  rispetto del  semaforo rosso  (o  verde)  rimanda, come dicevamo, a una adesione “endoattiva”, interiorizzata, che precede l’apparato coercitivo.   Basta il segnale.  Non servono guardie armate o meno.  Nessuna esoattività.
Ora, che un  ceto borghese, lo stesso che meritoriamente ha edificato la modernità, non riesca a trasmettere non  "il senso  della vita", come abbiamo letto, che sarebbe troppo (anche perché "il senso della vita" è scelta individuale), ma il rispetto interiorizzato di alcune basilari regole endoattive, dovrebbe far riflettere. Perché il rischio grosso che discende dalla mancata "riproduzione" sociale di endoattività  è quello della dissoluzione di un ordine collettivo, se si vuole pubblico,  di cui il ceto medio dovrebbe essere il rigoroso  guardiano, a cominciare, ripetiamo,  dalla trasmissione  delle regole tacite, prive di coercizione materiale esterna all'individuo.
Diciamo questo a prescindere dalle attribuzioni di colpa individuale sulle quale sentenzieranno i giudici. Ovviamente, al di là della disamina sociologica, che può apparire fin troppo fredda perché rivolta impietosamente al fenomeno generale,  resta ferma  la nostra partecipazione al dolore di tre famiglie, due  delle quali  toccate più duramente negli affetti.  


Carlo Gambescia                                  


venerdì 27 dicembre 2019

Il ritorno della Turchia  in Libia
Aridatece Giolitti!

Corsi e ricorsi.  La Turchia rimetterà  un  piedino in Libia ( o piedone, poi si capirà). Almeno così pare. Addirittura sotto l’egida dell’Onu in difesa del governo legalmente riconosciuto di unità nazionale. 
Vi mancavano dal 1911,  quando l’Italia scacciò le truppe dell’Impero ottomano, da quello che Salvemini, ignaro dell’importanza del petrolio, definì  lo "Scatolone di sabbia". E invece fu un capolavoro geopolitico di Giolitti.
Sicché mentre l’Italia gira a vuoto, discutendo di pensioni e delle dimissioni di Fioramonti, la Turchia si propone di sostituirla in una area geopolitica  per noi fondamentale.
Una  riflessione.
Erdogan, non è sicuramente un liberal-democratico, ma non è neppure Hitler.  Diciamo che  ha un visione della politica realista, prudentemente realista.  Visione che soprattutto in politica internazionale  finisce sempre per pagare. Ovviamente,  Erdogan, a differenza del realista criminogeno, che ignora le conseguenze, soprattutto quelle dannose per sé, sa fin dove può spingersi.  Gioca soprattutto sulle debolezze altrui,  e non si preoccupa, quando necessario,  di pigiare l’acceleratore militare. Senza però esagerare.   
Conte, invece  è  un nulla, neppure strutturato: senza una politica, senza una maggioranza compatta, prigioniero delle retoriche pacifiste a sfondo mitologico.  Capace solo, come in queste ultime ore, di ribadire in giro, senza poter realmente minacciare nessuno,  il primario interesse dell’Italia in Libia.  Figurarsi le risate di Putin, Erdogan, Trump e stati  satelliti.

Il nostro non è un elogio di Erdogan, ci mancherebbe altro. Come ovviamente, la situazione italiana, dal punto di vista storico,  non può essere imputata esclusivamente a Conte.
L’Italia, uscita a pezzi, moralmente parlando,  da una disastrosa  guerra fascista, si è ritrovata, come il manzoniano vaso di coccio tra i vasi di ferro delle grandi potenze,  priva di apparati militari e  di idee geo-strategiche, se non quelle di un generico pacifismo, indotto, per reazione, dalla stupida overdose di militarismo fascista. Una nazione da operetta. Dunque poco affidabile. Così ci giudicano tuttora.
In genere gli storici, facendo di necessità virtù, sottolineano l’impossibilità per l ’Italia repubblicana di praticare  una politica estera diversa dal cerchiobottismo. Frutto di  un' ambiguità di fondo, dettata da una crisi di identità innescata dalla guerra perduta.  Un'assenza di padri che  ha impedito  scelte nette  - sbagliate o no -  come l’ Atlantismo, il Terzomondismo, il Neutralismo pacifista o meno. Insomma, di tutto un po’.  Un Paese dove non  si era  (e si è)  né fascisti né antifascisti, né riformisti né rivoluzionari.  Salvo rare eccezioni politiche,  si è sempre  tirato a campare.
Ecco  la nostra cifra  geopolitica repubblicana.  Naturalmente, si sono trascurati  gli apparati militari, confidando, secondo gli schieramenti politici, negli  americani o nei  sovietici...
Oggi, di conseguenza,  l'Italia  è geopoliticamente  debole e  non conta  quasi  nulla.   Il nostro, se si così si può chiamare, è un realismo zoppo, perché  oltre a non  disporre  di alcuna forza politico-militare, non disponiamo neppure della volontà di usarla.  E gli altri paesi  lo sanno benissimo. Il che spiega perché a breve ci ritroveremo con i Turchi in Libia. Come prima del 1911. 
Sapete, cari lettori, come si dice a Roma e dintorni?  Aridatece Giolitti! 

Carlo Gambescia          
          

giovedì 26 dicembre 2019

Il  Natale secondo
"Un posto al sole”


Ebbene sì, da anni, chi scrive segue regolarmente (o quasi) “ Un posto al sole”, la soap italiana dalla  lunghissima  anzianità di servizio. 
La sua principale  caratteristica, sviluppatasi però nel tempo, è  di "stare sulla notizia”. Insomma, sull'attualità, politica, sociale, economica.  Di qui però, certo impegno, che può  piacere o meno,   verso  quei temi, cari alla sensibilità della sinistra, o meglio del  mondo liberal (come ora vedremo). Sempre però, senza forzare troppo la mano a storie e  personaggi.   
Ultimamente, si è affrontato il tema transgender e della violenza sulle donne.  Gli ascolti non sono calati, anzi. Ipotizziamo perciò che esista  un’Italia che vota per Salvini e Meloni,  capace però di restare  affezionata  alle storie dell’ aristopop condominio di Posillipo.  
Ieri  è andata in onda la puntata natalizia, come sempre  rivolta ai piccoli:  doni, buoni intenzioni eccetera, eccetera.   Puntata scritta  dagli autori sulla traccia  del diabolico cortocircuito temporale di “Groundhog Day”, dove Bill Murray,  giovane e  cinico conduttore televisivo,  è  costretto ogni giorno, a ricominciare da capo, fino alla conversione finale in bravo ragazzo.
Sicché,  i bimbi della  “Terrazza”  rivivono lo stesso giorno di Natale fino a capire che le cose che contano non sono i regali, eccetera, eccetera.  Fin qui tutto bene. Se non che Giulia (l'attrice, Marina Tagliaferri, nella foto), assistente sociale e nonna affettuosissima,  fornisce ai  nipotini una spiegazione-narrazione dello spirito del Natale fondamentalista. Certo,  di altro segno. Diciamo repubblicano-welfarista.  Quindi  apparentemente  al miele ma  non meno laicista.  Si illustra una tesi  che sembra fatta apposta per scatenare le ire del fondamentalisti religiosi, quelli che usano il presepe come  una pistola carica.
Che “favola” racconta,  nonna Giulia? In sintesi  che lo spirito del Natale è riassunto dallo stare insieme e dal volersi bene.  Il che può anche essere condiviso.   
Però per  quale ragione “può essere”?  Perché, per contro,   può  risultare offensivo per il credente  e provocatorio per il fondamentalista cristiano.
In realtà, la narrazione di nonna Giulia  non è laica ma laicista. Perché?  Un autore  laico - e attenzione, liberale -   scriverebbe  una  puntata  sul Natale senza neppure  sfiorare lo  spirito del Natale. Perché, a suo avviso,  sarà il telespettatore ad attribuire al Natale  lo spirito  che ritiene più opportuno. Insomma, ci si guarda bene dal  calare dall’alto  un  laicismo che credendo di mettere d’accordo di tutti,  rischia invece  di  scontentare tutti. A cominciare dai fondamentalisti religiosi, che come noto non aspettano altro, fino ai liberali come chi scrive. 
Ci spieghiamo meglio:  la differenza tra laicità e laicismo, che poi è quella tra pensiero liberale  e pensiero liberal,  è nella stolta pretesa  di costringere le persone ad essere libere secondo una certa idea di libertà, prescrittiva e imposta dall’alto.  Che tale  idea  sia smielata  o meno non importa.  Quel che marca la differenza,  è che  il  liberale sorvola mentre il liberal si incaponisce.  Il liberale non obbliga nessuno, il liberal sì. E in quest'ultimo caso, come prova la narrazione di nonna Giulia, si tratta di un atteggiamento diffuso, soprattutto a livello mediatico-istituzionale.
Dove sembra   predominare  l'alfabetizzazione morale. Il che a nostro avviso è inevitabile, perché vi impera l'ideologia welfarista  del  "servizio pubblico".  Ma questa è un'altra storia.
In realtà, il vero spirito del Natale, dal punto di vista  liberale e laico, è nel suo contenuto libero. Miele, curcuma, curry, eccetera, eccetera.  Tradotto: baci abbracci, oppure starsene da soli, andare sulla Luna aspettando che passi, fare dieci presepi,  eccetera, eccetera. Non servono maestri e maestrine.  Ognuno di noi,   "metta dentro" quello che vuole.
Insomma, laissez faire, laissez passer. Tutto qui. Eppure...


Carlo Gambescia                     

mercoledì 25 dicembre 2019

Una destra priva di prospettive
Il Natale di Gianfranco Fini

Che Natale trascorrerà oggi Gianfranco Fini?  La gloria è passata, anzi sepolta, i giudici incombono, i servitori politici di un tempo sono spariti. Se si clicca sul sito dell’Associazione Liberadestra, da lui fondata e presieduta, ci si ritrova in Indonesia.  Evidentemente il dominio ha cambiato amministratore e localizzazione geografica… Sic transit gloria mundi.
Certo, c’è  sempre  la  famiglia.  Che si diranno oggi Fini, moglie, eccetera,  in salotto? Sotto  le lucine intermittenti dell' albero,  davanti alla tv accesa?
In effetti - il “più bravo del bar sport” come lo chiamava un caro amico -   ebbe  il suo momento  di gloria nel 2010, dopo il  conflitto finale con il Cavaliere.
Corteggiato dalla sinistra, da Presidente della Camera, una volta sfiduciato da Berlusconi,  Fini  ispirò e favorì  la fuoriuscita  dal Popolo della Libertà di un gruppo di deputati e senatori. E tutti insieme diedero vita  a “Futuro e Libertà”.   Le cose poi andarono male.  Anzi malissimo. Porte politiche chiuse e inchieste giudiziarie a gogò. Sedotti e bidonati.  
Oggi la destra neofascista considera  Fini una specie di Badoglio: un traditore, non tanto di Berlusconi, ma dei famosi ideali, sui quali però i neofascisti poi usano dividersi in varie correnti. Fermo restando, certo cinico pragmatismo dei dirigenti, che pur di agguantare il potere, se Fini avesse tuttora forza politica, lo sdoganerebbero  seduta stante. Diciamo che l’odio verso l'ex Presidente della Camera  è funzionale (e scalare)  al grado di estremismo.  Il che però  la dice lunga sulla decantata purezza ideologica degli aennini dopo Fini.
Che cosa resta di quel progetto? Che all'epoca criticammo da posizioni liberali e riformiste in un libro scritto a quattro mani con Nicola Vacca? Nulla, perché oggi la destra post-finiana si è completamente appiattita sulle posizioni leghiste.  Pertanto, “populisteggia” più che mai. È anche vero che la destra libertaria, teorizzata dai  consiglieri finiani del tempo, era un prodotto di serra:  un puro gioco  da tavolo  di storia delle idee.  
Però -  ecco il punto storico -  allora esistevano  prospettive politiche.   Sbagliate o meno che  fossero, non si giocava  al richiamo della foresta: democrazia parlamentare ed economia di mercato erano fuori discussione. Ci si muoveva in chiave sistemica.
L' esatto  contrario del cesarismo criptofascista, antisistemico che oggi  caratterizza la destra meloniana e salviniana.  Probabilmente,  Gianfranco Fini non aveva la stoffa del vero leader, perciò, tutto sommato,  merita la sorte che gli è toccata.
Però, ripetiamo, quella era una destra  che pur tra le contraddizioni e i Lego intellettuali  aveva  delle  potenzialità.  E in ogni caso non puntava a fare politica giocando sulle paure della gente. 
Quanto all’onestà intellettuale di coloro che incoraggiarono e seguirono Fini nell’avventura, la si può misurare seguendone il percorso successivo.  
Da un parte, quelli  che sono tornati  sui propri passi,  rientrando nella destra meloniana o fuggendo  verso i nuovi vincitori della destra salviniana: i molti, insomma, che confermano di aver seguito Fini solo per volgare interesse.  Dall'altra, i puri che credevano nell'impresa: quei  pochi che invece destano tutta la nostra ammirazione. Quasi come un tramonto sull’oceano. 
Che è cosa diversa dal triste tramonto di Fini, in salotto davanti alla tv.              

Carlo Gambescia  



martedì 24 dicembre 2019

Gualtieri vuole  più stato nell'economia 
Sai che scoperta (per l’Italia)...




Secondo il ministro Gualtieri, che di professione non è economista ma storico, neppure dell’economia ma delle idee, in particolare del movimento comunista, in Italia servirebbe più stato. 

Ora, se c’è un paese in Europa, dove lo stato l’ha sempre fatta da padrone, questo paese si chiama Italia. La mentalità italiana, frutto di un costume secolare legato alle vicende di  una terra invasa dagli eserciti stranieri, rimanda tuttora a una visione dello stato, come qualcosa di estraneo, però da usare, o meglio  sfruttare -  semplificando -  per poter fare i propri comodi.
Ovviamente, secondo il vecchio principio del si fa ma non si dice, i politici italiani, di destra e sinistra, insomma gli eletti,  ammantano la parola stato di  nobili significati, e gli elettori fingono di credervi,  naturalmente fin quando fa comodo.
Va per onestà riconosciuto, come sostengono  gli economisti  e con ragione,  che  le condizioni strutturali del capitalismo italiano -  pochi capitali e pochi imprenditori puri -   non hanno mai consentito, fin dalle fasi di decollo, lo sviluppo  del libero mercato. 
Le prime vere e proprie aperture, dopo la fase liberale, segnata in parte da misure protezioniste,  e la  parentesi fascista, decisamente autarchica,  risalgono  all’unificazione europea, iniziata nei tardi anni Cinquanta del secolo scorso.  

Le timide  liberalizzazioni e privatizzazioni degli anni Novanta, rappresentano una sorta di eccezione che conferma la regola italiana della supremazia dello stato sull’economia. Un predominio, pesante e invasivo,  attuato secondo modalità differenti  che hanno visto lo stato rivestire di volta in volta in panni del doganiere, del sovvenzionatore, dell’imprenditore e in ogni caso dell'ottuso controllore.
Lo stesso liberalismo italiano dovette  venire a patti con una mentalità  - semplificando - statalista  da sempre  molto  diffusa  al punto di abbracciare eletti ed elettori.
In Italia quei pochi intellettuali, imprenditori, economisti,  che si sono schierati sinceramente, oggi come ieri,  dalla parte del  mercato si possono contare sulla punta della dita. Si diverta il lettore a scovarli.
Concludendo, quando Gualtieri parla di  “fallimenti del mercato” rasenta la
comicità.  Ma quando mai in Italia il mercato ha comandato?  Ammesso e non concesso, solo  dieci  pallidi  anni  su centocinquantotto,   tra  gli anni Novanta e Duemila.  Sai che scoperta...  Anzi che "ricetta", come titola "Repubblica"...
E poi, il sistema autostradale, ora in discussione,  ha sempre funzionato in regime di concessioni e sovvenzioni.  Che c’entra il libero mercato?  Piuttosto sarebbe il caso di tirare in ballo i “fallimenti dello stato”. 
Ma Gualtieri  da vecchio comunista, per giunta dalemiano, da questo orecchio non sente... 

Carlo Gambescia     

                



lunedì 23 dicembre 2019

Dopo il congresso di Milano
Ma quale Lega Nazionale?  
Il lupo leghista perde il pelo ma non il vizio

I mass media  si sono concentrati su  Bossi in carrozzella che biascica di un passato  politico che non c’è più.  Ma anche  su Salvini con il presepe in mano invece dell’ampolla pagana.  Un aitante "Capitano"   che celebra i futuri  trionfi  della Lega nazionale e  cristianissima (cattolica non sapremmo).
In realtà, il presepe come l’ampolla, per non parlare delle nostalgia per il potere perduto  di un Bossi malato, per usare una metafora banale, hanno semplice valore fumogeno. Dal momento che la sostanza della Lega non è mai cambiata.

Che cos’era la Lega, prima della cosiddetta rivoluzione salviniana?  Un partito razzista (contro i “Terroni”),  demagogico-protestatario (meno tasse più pensioni),  e law and order (lavori forzati, pene durissime, controlli di polizia asfissianti). 
E oggi con  Salvini? Un partito razzista (come sopra) demagogico-protestatario (come sopra) e law and order (come sopra). 
Certo,  ai  "Terroni",  tuttora non ben visti al Nord, la “nuova” Lega ha  aggiunto gli "Immigrati". Ma  per il resto non è cambiato nulla. Il lupo leghista, per dirla alla buona, ha perso il pelo ma non il vizio.
Pertanto  Bossi, sulla sua carrozzella, poverino,  può dormire sonni tranquilli… Naturalmente,  può aprirsi all’interno del leghismo una gara tra razzisti contro i meridionali e razzisti contro gli immigrati. Ma è sempre  lotta tra lupi. E feroci.
In realtà,  il famoso nodo delle autonomie  si risolve in una specie di processo scalare per gradi, dal basso  verso l'alto,  di un  etnocentrismo  che al valore uno è contro i meridionali,  al valore 2 è contro gli immigrati. E così via, perché poi toccherà a tutti gli altri...

Nelle Lega  di liberale  non c’è mai stato nulla.  Sempre che non ci si proponga di dilatare il concetto di liberalismo fino a ricomprendervi il populismo, di cui il Carroccio, e forse più di Forza Italia, resta  l’anticipazione politica italiana.
Inoltre, parlare di populismo liberale  è  pura e semplice fantapolitica. Il populismo, per sua natura, e non solo concettualmente, antepone  la società all’individuo  e  lo stato alla società. Per parlare difficile il Carroccio è concettualmente "olista".  
Per fare solo un piccolo esempio: si noti,  dove amministra la Lega,  lo strapotere della cosiddetta polizia locale, impiegata addirittura nell’ambito dei controlli sui tributi locali.   Siamo davanti alla mano artigliata  di occhiuti  microstati, dove il potere politico è tutto l’individuo è nulla.  Sicché Salvini sogna di estendere il modello razzista e  law and order bossiano, ammirato da tutta la Lega. a tutta l’Italia.  Promettendo come l’anziano e malato  fondatore della Lega, meno tasse più pensioni.
Con una differenza però, e in peggio. Che l’overdose di nazionalismo, riverniciata come sovranismo,  che anima la Lega di Salvini,  può portare l’intera Italia fuori dall’Europa.  Di qui il pericolo,  in un mondo globalizzato ma distinto da blocchi geopolitici, del  piccolo cabotaggio o dell’autarchia di “Terraferma” che rimanda  -  leghismo "lumbard" o meno -   al triste  epilogo  della Serenissima.  Fossilizzatasi, dopo la scoperta del Nuovo Mondo,  per ragioni dimensionali (in tutti i sensi, militari, politici, sociali ed economici),  sulle vecchie rotte, che  ormai non interessavano più a nessuno.  E così vivacchiò fino a Campoformio, abbracciando, in modo parassitario  la decadenza italiana e  ottomana. Benino magari, ma prigioniera, nel suo Golfo "allargato" all'Adriatico, di una irrimediabile obsolescenza.  

Un'ultima cosa.  Certo positivismo politologico che si definisce liberale (pure Facta e Tittoni  si definivano tali…)  -  pensiamo a un articolo di Corrado Ocone (*) -   qualifica  addirittura come  “ambizioso”  il programma di Salvini. Capito? Un programma obsolescente, da Repubblica Veneta della decadenza, addirittura al cubo.  
Ocone si  interroga   su come Salvini 

“riuscirà a superare l’ostilità del deep state, delle forze al comando in Europa e in definitiva dei mercati? Una strada tutta in salita, come si vede, ma è nelle difficoltà che si tempra la statura di un leader”.

Notare la chiusa volitiva e, prima ancora (si legga però l’intero articolo), quel dare per scontato, che la nuova Lega rappresenti politicamente un fatto nuovo.  In realtà,  la Lega di Salvini è  la Lega di sempre. E ogni buon liberale dovrebbe saperlo. Dovrebbe.  
Carlo Gambescia
 (*)      Qui l'articolo di Corrado Ocone:  https://formiche.net/2019/12/lega-salvini-bossi-ocone/

sabato 21 dicembre 2019

Il ritorno dei  “Soliti ignoti”…

Al pubblico dell’ Ambra  piacciono,  gli applausi si sono sprecati.  Effettivamente la prima versione teatrale  dei  “Soliti ignoti”,  film cult di Monicelli,  cult però per le generazioni nate  fino agli anni  Settanta (millennial e pre-millennial ormai ignorano perfino Totò),  ha ritmo ed eleganza. 
I tempi teatrali, impongono  scelte che talvolta  menomano.  Ottimo quindi  l'adattamento di Antonio Grosso e Pier Paolo Piciarelli.  Bravissimi  tutti  gli attori,   
Vinicio Marchioni, riflessivo regista,  nonché come interprete già grandissimo delinquente acculturato in “Scialla”,   non fa rimpiangere Marcello  Mastroianni. Anzi, fa di più, perché  dona al personaggio del fotografo rovinato, Tiberio Braschi, quel pizzico di  vitalità che non guasta.  Giuseppe Zeno, “Beppe er Pantera”,  invece conferisce al pugile sfortunato stupori e dubbi dell’anima,  ignoti al pur grandissimo Vittorio Gassman.  
Giusto ricordare l'intero cast. Composto di  attori  capaci  di conferire un tocco personale ai personaggi.  Come dire? Chiedendo scusa a Marx, di attingere a un plusvalore interpretativo individuale che rende la rivisitazione un unicum: Ivano Schiavi (Dante Cruciani), Salvatore Caruso  (Capannelle), Vito Facciolla (Ferribotte), Augusto Fornari (Cosimo), Antonio Grosso (Mario),  Marilena Anniballi (Carmela e Nicoletta).
Quale potrebbe perciò essere la cifra  particolare,  se si vuole il plusvalore collettivo, di questa rilettura teatrale, fortemente voluta Marchioni?  Quella di un' Italia che viene dopo l’Italia dei “Soliti ignoti” e che quindi  non può essere, sociologicamente parlando,  la lettura  dell’Italia coeva al film.   Monicelli, una specie di trotskista depresso prestato al cinema, bravissimo per carità,  perseverò fino alla morte nel rimpiangere  “la rivoluzione tradita”.  I  “Soliti Ignoti”, di Marchioni invece sono post-ideologici: non rimpiangono e non celebrano, perseguono la verità effettuale.  Come era quell’Italia. Punto. 
A Trotsky sostituiscono Machiavelli. Che fu anche buon commediografo. Ma questa è un' altra storia... 
Carlo Gambescia

Per tutto il periodo natalizio  lo spettacolo resterà in cartellone all'Ambra Jovinelli di Roma.  Ultima replica il 6 gennaio.  Poi Tournée nazionale  Per ulteriori informazioni: https://www.ambrajovinelli.org/it/i-soliti-ignoti/                              

venerdì 20 dicembre 2019

Il caso di Marcello Foa
Chi di complottismo ferisce di complottismo perisce…




Incuriosisce  la vicenda della mail ricevuta dal presidente della Rai, Marcello Foa, in  cui si chiedono soldi per un fantomatico progetto umanitario,  inviata  da un finto Tria,   rivelatosi  - sembra -  un avvocato svizzero (*) . La storia intriga  non per i suoi possibili  risvolti   affaristici,  bensì perché solo un complottista, come Foa, poteva cadere in una trappola del genere. 
Infatti, pare,  che il Presidente della Rai  abbia risposto al finto Tria, dichiarandosi favorevole alla proposta, salvo poi però avvisare Fabrizio Salini,  Amministratore Delegato.  
Una raccomandazione: il lettore non si perda dietro al conflitto tra i due, sul quale oggi invece puntano le gazzette. Fumo. La “ciccia” della questione è sociologica, come ora vedremo.

Inutile qui  portare altre  prove circa la  visione complottista di un  Foa che ritiene che dietro l’attacco alle Torri Gemelli ci fossero i satanisti.  Oppure che difende  i Novax e i propalatori di altre scemenze cospirative  sotto la false flag  - termine caro ai complottisti - di un abborracciato  giornalismo partecipativo.    
Qui,  il  punto è che un Presidente Rai, “normale”, prima di rispondere, avrebbe chiamato la segreteria di Tria.  E invece come si comporta Foa?  Replica subito, sperando di scoprire chissà quale complotto ordito contro di lui. 
Naturalmente,  sappiamo  che potrebbero essere date altre  interpretazioni dello scambio di mail  con il finto Tria,  meno benevole della nostra, soprattutto sotto il profilo penale.  Ipotesi che qui però non interessano.
Il lato   importante  della cosa, sociologicamente importante,  “la ciccia”,  rinvia  all’approccio di Foa, degno del peggiore giornalismo ai tempi dei social:  “Io rispondo, così magari scopro qualcosa,  sul conto di Tria e  dei  mandanti incappucciati…”.  
Purtroppo, si tratta di  una scelta  - quella di intavolare  lo scambio di mail -  frutto di una  sciagurata innocenza complottista  che giunge ben oltre i confini della credulità.  
In fondo, il  complottista tipo,  a prescindere dal ruolo (da Presidente al Rai al redattore dell’ultimo giornaletto online), si  “beve di tutto”.  E soprattutto  ritiene, che nulla sia come appare. Il che se sostenuto da Machiavelli, che di congiure se ne intendeva, ha un senso,  se invece  sostenuto da Foa  un altro.  

Il complottista è tale perché non distingue tra complotto e complotti (o congiure).  Ci spieghiamo meglio: storia e sociologia insegnano che   non  è mai esistito  un macro-complotto  mondiale messo in piedi  da un gruppo di uomini incappucciati.  Possono invece darsi micro-complotti,  dove in alcuni settori specifici si cerca di danneggiare gli avversari, giocando sporco.
Ora, il complottista,  nel tentativo di provare  il “grande disegno”,  scorge ovunque  gli stessi uomini incappucciati. Anche dietro Tria, sicché, Foa,  tentando di smascherarlo,  avrà  pensato  di poter  provare  a tutti l’esistenza di un complotto mondiale contro di lui e le forze sovraniste del bene, capeggiate da  Salvini, Trump e  Putin, i suoi beniamini.  
Però come si può capire,  chi di complottismo ferisce di complottismo perisce…  Foa  ha fatto la figura dello  sprovveduto e del  credulone,   per non usare altri termini.     
Ovviamente, i complottisti, e probabilmente lo stesso Foa, rilanceranno, per dirla volgarmente, buttandola in caciara e gridando al complotto nel complotto.   
Il punto però  è un altro, e fondamentale:  si può nominare  al vertice della Rai un giornalista che crede ai voli asinini?

Carlo Gambescia                     


giovedì 19 dicembre 2019

Trump e Salvini contro lo stato di diritto
Governo dei prepotenti o delle leggi?

Il Congresso, a maggioranza democratica,  ha votato per l’impeachment di Trump, accusato di   aver brigato con una potenza straniera e intralciato in patria  le indagini al riguardo, abusando  dei suoi poteri.  Il Senato, a maggioranza repubblicana probabilmente lo respingerà. Però l’ultima parola deve essere ancora detta 
In Italia si vuole invece processare Salvini, sempre  per abuso di potere nella vicenda  delle nave Gregoretti: una brutta storia  che vide,  secondo il Tribunale dei Ministri di Catania,  il sequestro per alcuni giorni  dei 131 migranti a bordo. La Giunta  per le immunità del Senato dovrà decidere la “processabilità” di Salvini.  L'esito dipenderà dalla maggioranza salviniana o antisaliviniana che  si formerà al  momento del voto.

Trump e Salvini  sono  due estremisti privi di qualsiasi senso delle istituzioni e quel che è peggio  sempre  pronti a trasformarle in “mazze ferrate” per  colpire i  nemici politici.  Di qui, l’importanza  - e la fortuna -    di  una magistratura, come  negli Stati Uniti e in Italia,  capace di indagare  liberamente per  evitare che al governo delle leggi si sostituisca il governo degli uomini, per giunta prepotenti.  
Certo, anche i giudici hanno  idee politiche. Ma non sono politici di professione. Esiste perciò nei magistrati  una riserva mentale, oltre che legale,  di neutralità.  Riserva che deriva dall’appartenenza a un corpo sociale che fa della propria indipendenza un dovere istituzionale ( e costituzionale, almeno nel diritto liberale).    
Ciò significa che se la magistratura fosse completamente sottomessa alla politica, e in particolare al potere di un capo prepotente, come pretendono Trump e Salvini, e prima ancora Hitler e Mussolini,  non esisterebbero più ostacoli all'amministrazione  autocratica di una giustizia ridotta a tentacolo del potere politico.
Pertanto il voto politico sulla “processabilità”  di Trump e Salvini può essere visto, in chiave realistica,  come l’ultima parola del potere politico nei riguardi del potere giudiziario: del governo degli uomini rispetto al governo delle leggi.  
Si rifletta però su un punto.  Sotto l'aspetto obiettivo,  ci troviamo davanti a due corpi sociali - politica e magistratura  -   in  conflitto.  E di quale conflitto si tratta?  Di  quello fisiologico  tra  logica  politica del diritto e  logica giuridica della politica.  Ovviamente  con manipolazioni, sull’uno e l’altro lato, di tipo criptopolitico. Purtroppo  gli scivolamenti nel  patologico della dinamica  sociale non vanno mai esclusi.  
Però la vera questione è che personaggi come Salvini e Trump aspirano addirittura all’eliminazione della dialettica in quanto tale, insomma del conflitto fisiologico.  A che scopo?  Ricondurre il diritto nell’alveo esclusivo  della ragione politica.    

In realtà,  tra le due possibilità "logiche"  (ragione politica e ragione giuridica)   resta  sempre preferibile la seconda:  quella della riconduzione, per quanto sempre tendenziale e conflittuale( fisiologicamente conflittuale), della politica nell’alveo del diritto. E  per un semplice motivo: la ragione giuridica,  pur avendo nei suoi aspetti esecutivi necessità  della forza, in ultima istanza, non è mai costitutivamente solo forza, come invece  nel caso della ragione  politica.
Si dirà che quanto fin qui esposto   è solo teoria sociologica, e che nei fatti i giudici si comportano politicamente, anzi criptopoliticamente.  Il che può essere vero, sebbene solo  in parte.  Perché ripetiamo  sono differenti i presupposti delle due logiche, politica e  giuridica.
Il che significa, in parole povere, che dal governo di potenziali autocrati  politici come Trump e Salvini solo un giudice ci può salvare.   
Su questo dovrebbero riflettere i  politici chiamati a pronunciarsi  negli Stati Uniti e in Italia, non pro o contro Trump e Salvini,  ma pro o contro  il governo delle leggi.  O se si preferisce,  pro o contro lo stato di diritto. Che protegge tutti -  politici, giudici e cittadini -   dagli autocrati. Vecchi e nuovi.  

Carlo Gambescia       
                                         

mercoledì 18 dicembre 2019

Il sondaggio di Yahoo!
Tu di che Sardina sei?

Ieri, se ricordiamo bene,   sulla  Home page di  Yahoo! si poneva ai lettori un quesito, crediamo ripreso dal quotidiano "Libero" (*), a dir poco  travolgente nella sua banalità:  preferite che le Sardine si trasformino in partito o restino movimento?   Capito che razza di sondaggi? Tu di che Sardina sei?
In sociologia si sono spesi fiumi di parole sulla dinamica tra movimento e istituzione, senza mai venirne a capo, e Yahoo!  che fa?  Con un quesito, come si trattasse di scegliere  tra due tipi di scarpe, risolve la questione. 
Diciamo pure, allora,  che forse  non esiste migliore metafora della banalità della democrazia del quesito di Yahoo! Insomma,  bianco o nero? E che importa della complessità delle cose…
Una metafora che potrebbe essere estesa alla società di massa, dove si vuole al tempo stesso essere  uguali e disuguali, sulla base di scelte  facili: una scarpa, un abito, un moda, eccetera, eccetera.  
Tuttavia non si deve storcere il naso. La modernità, soprattutto nei suoi aspetti collettivi,  si nutre di comportamenti gregari ed emulativi. Sotto questo aspetto la modernità è il regno della banalità, ossia del luogo comune. E,  più in generale,  dell’assoluta mancanza di originalità, originalità vera, sul piano dei comportamenti sociali.
Però -  ecco il punto centrale -   la differenza concettuale, per così dire, tra mondo moderno  e  pre-moderno è rappresentata dalla consapevolezza dei limiti sociali dell’uomo, soprattutto  nell’ambito dei comportamenti collettivi.  Non si gerarchizza la stupidità. Ognuno è libero di esprimersi, eccetera, eccetera.  Il che va bene. Meno bene quando la si coccola, come nel caso  appena ricordato.
Un intellettuale moderno, veramente moderno,  non può ignorare,   a differenza del chierico medievale o del filosofico stoico, che la società possiede una forza propria e che quanto più i comportamenti si uniformano, come nella società di massa,  tanto più il  peso della densità sociale  diventa predominante, in termini di abitudini, costumi, miti. Su questi aspetti, e sul cosiddetto prepotere delle maggioranze sociali, Tocqueville scrisse pagine definitive.
Certo, è verissimo che andrebbero  incoraggiate a livello collettivo  la diversità e l’originalità, come del resto il dissenso in politica. Però il  punto è che una società, proprio perché di massa, quindi caratterizzata da una capillare diffusione  di gusti e idee simili,  tende a uniformare  le differenze, a tramutarle nel conformismo collettivo anche in chiave oppositiva e soprattutto semplificata. Di qui, il quesito di Yahoo!, che sfiora la stupidità collettiva e  falsa  la competizione politica  risolvendola   a colpi di slogan,  chiari per tutti ma  enormemente  riduttivi nei significati.
Indietro, alle società gerarchiche o castali,  salvo catastrofi politiche sociali,  non si può tornare.  Anzi non si deve.  Ovviamente,  anche nelle società di massa, come insegnano, Michels, Mosca e Pareto,  a comandare è un’èlite politica, sociale ed economica, che però si regge sui valori della democrazia, quindi sulla semplificazione del messaggio. Di qui, l’inevitabile  banalizzazione. Alla quale però vanno posti dei paletti, senza però ricadere in una visione castale.
In questo contesto, l’unica ancora di salvezza, può essere rappresentata dalla  cultura liberale, che,  se condivisa dalle élite,  può  porre un freno politico-sociale  alla banalizzazione del discorso pubblico.  Naturalmente, più le élite rinnegano la culturale liberale, più rischiano di favorire la massificazione politica e il rischio totalitario che un processo del genere sottende.  
Ecco perché un vero intellettuale moderno non può non dirsi  liberale e democratico al tempo stesso. Diciamo liberale per scelta, democratico per convenienza.  E ovviamente con juicio.


Carlo Gambescia

(*) "Libero" che a sua volta  riprende da  "Termometro Politico": https://www.liberoquotidiano.it/news/politica/13541384/sardine-sondaggio-termometro-politico-partito-politico-numeri.html                          

martedì 17 dicembre 2019

Il fumetto unico di Mario Improta



Crediamo che  il vero   problema non  sia la satira in sé,  ma la  sostituzione della  satira con la politica,  o per meglio dire  l'evocazione in politica  di contenuti e linguaggi terribilmente derisori, che a teatro  possono  far  ridere, ma se pronunciati  altrove possono suonare - e suonano - come condanne a morte. Di certo, morte civile, ma con sempre possibili  scivoloni   politici di altro genere.   
Insomma,  siamo dinanzi a  una  militarizzazione della politica, ormai consolidatasi,  dove l’avversario è un nemico  da distruggere a colpi di irrisorie metafore apocalittiche che mettono tutti e tutto sullo stesso piano:  liberalismo e nazismo, libero mercato e mafia, imprese e povertà,  classe politica democratica e sistema castale induista,  eccetera, eccetera.    

Il caso di "Marione" (Mario Improta), fumettista  grillino, in forza (termine non scelto a caso) al Comune di Roma, che ha paragonato l’Ue al campo di sterminio di Auschwitz,  è un esempio classico  di  militarizzazione della politica.
Ovviamente, fa benissimo la Comunità ebraica a risentirsi, dal  momento che sull’ Olocausto non si deve e non si può scherzare. Ci mancherebbe altro.   Ma, ripetiamo, il punto vero  è  un altro: la militarizzazione della politica, la riduzione dell’avversario a verme da schiacciare.  
Per farsi un'idea dell'approccio militarizzante  si dia un'occhiata al blog di Improta,  grillino (pare) della prima ora (http://www.marioimprota.com/blog/ ) . Ci si ritrova  dinanzi a   un  martellante e inquietante   coagulo di  “ io non dimentico”.
L’immagine del “pensiero unico” evocata da populisti, sovranisti, neofascisti, neocomunisti   rimanda  -  per chiunque abbia letto le approfondite analisi di Nolte  -   allo schema del nemico collettivo:  dalla classe unica (la borghesia)   alla razza unica (gli ebrei in particolare) fino al pensiero unico (il liberalismo in tutte le sue sfumature): tutti soggetti “politici”, veri e propri capri espiatori,   da irridere e  calpestare, fino a completa distruzione.  Per ora morale, poi si vedrà... 
E quel che è più grave, ripetiamo,  è l’imbarbarimento intellettuale  della politica.   Che si è trasformata,  per reazione, in conflitto,  tra pensieri che finiscono per presupporsi unici, come accade nelle guerre totali, prolungamento del manicheismo morale.  
Perché? Una volta abbandonata la ricerca del ragionamento e della mediazione in favore della derisione morale assoluta,  al supposto pensiero unico del nemico,  non può non opporsi, secondo un ciclo a spirale un pensiero altrettanto unico. Si usa la satira come una baionetta, montata sulla canna di un fucile. Per ora, ripetiamo, metaforico.  Il che  però, intanto,  spiega   il  “fumetto unico”  di Mario Improta. 
Si è creato un  circolo vizioso,  di cui però   primo responsabile resta  il giacobinismo satirico dei populisti.  Non per niente, in Italia, il padre fondatore del Movimento Cinque Stelle è  un comico.       
Sapete, amici lettori,  "Marione"  di  cosa si occupava  in Campidoglio? Della creazione di  vignette per una campagna di sensibilizzazione civile promossa dal comune nelle scuole romane…

Carlo Gambescia