venerdì 28 febbraio 2014

Quando smetteranno i magistrati di rilasciare dichiarazioni alla stampa?
Non è mai troppo tardi





Quando smetteranno i giudici di rilasciare dichiarazioni alla stampa?  Magari,  per lavorare e basta. O comunque, se già molto impegnati,  per  lavorare duro e  in silenzio.  Perché non se ne può veramente più.  
Ricordiamo, da ultimo, l’ intervenuto di ieri del  procuratore generale della Corte di Appello di Roma, dottor Luigi Ciampoli.  Il quale ha voluto  dire la propria sulla conferma dell’assoluzione da parte della Corte di Cassazione,  di Ranieri Busco,  dall’accusa di aver ucciso  la sua ex fidanzata Simonetta Cesaroni,  
Il bello, o il brutto,  è che il dottor Ciampoli,  il cui ufficio propose il ricorso in Cassazione  contro la sentenza di assoluzione,  ammette in qualche misura di intervenire a gamba tesa. Ascoltiamolo:

Malgrado sia buna regola intervenire con riflessioni su una decisione giudiziaria solo dopo averla letta attentamente - dice all'ANSA - il giudizio espresso ieri sull'omicidio Cesaroni consente tuttavia qualche osservazione, dato il forte impatto mediatico registrato sul caso

Per dire che cosa? In sintesi,  che

In presenza di "dubbi e perplessità" "meglio assolvere un colpevole che condannare un innocente"; no ai tempi lunghi della giustizia, inaccettabili sotto il profilo costituzionale e della democrazia; preservare la serenità dei giudici, "unica vera garanzia per i cittadini"

Ora, sia detto con il massimo rispetto, siamo davanti alla classica scoperta dell’acqua calda… Perciò,  per dire certe ovvietà -  ci perdoni l’ardire l’illustre magistrato -   valeva proprio la pena di intervenire  irritualmente?   Dando un ennesimo colpo alla credibilità della magistratura? 

Carlo Gambescia


giovedì 27 febbraio 2014

La rivista della settimana: “la Biblioteca di via Senato”,  n.1 – gennaio 2014;  n.2 – febbraio 2014  

http://www.bibliotecadiviasenato.it/editoria/biblioteca-di-via-senato/Anno-VI.aspx


Rivista per veri bongustai del libro e della cultura,  “la Biblioteca di via Senato”, mensile dell’omonima Fondazione,  apre il 2014  con  due fascicoli all’altezza, tanto per restare in metafora, del gourmet  più esigente.
Dal sommario del fascicolo n. 1 (gennaio 2014) segnaliamo il denso articolo (piccolo miracolo di sintesi) che Errico Passaro dedica a J.R.R. Tolkien ( “J.R.R. Tolkien, signore della fantasia”, pp. 6-9).  Di cui si  scrive,  a proposito  de La caduta di Artù,  poema inedito uscito per Bompiani,  introdotto da Gianfranco de Turris,  che  « Tolkien si apparenta a un MacPherson novecentesco, o se si preferisce un paragone più vicino alla nostra esperienza, un Carducci che, invece delle mitologia classica greco-latina, si riferisce all’epica nordica» (p. 9).  
Intrigante anche il ritratto  di Giancarlo Petrella, direttore della rivista, di quel picaro dell’editoria che fu  Filippo Argelati (“Questi non son sono tempi per libri”, pp. 10-20)  l’editore settecentesco dei Rerum Italicarum Scriptores di Muratori. Sempre sospeso tra debiti, crediti, mercanteggiamenti, blandizie, sogni di gloria. E, tutto sommato, il lieto fine. Quale?  Quello di  aver pubblicato  un padre della storiografia moderna, padrone delle fonti,   come pochi altri.
Non meno interessante la ricostruzione della politologia di Machiavelli,  ben tratteggiata da  Teodoro Klitsche de la Grange  (“Niccolò Machiavelli. Primo costituente”, seconda e ultima parte, pp. 25-23, per la prima parte si veda il fascicolo dicembre 2014,  da non perdere anche per il focus dedicato  al “segretario fiorentino”). Scrive de la Grange: « L’esistente prevale sul normativo (senza il primo  viene meno il secondo: ma non è vero l’inverso): è questa la lezione che Machiavelli (e il realismo) ci dà ancora oggi. A non capirlo o a volerlo non capire, anche nell’organizzare le istituzioni si trova “ più presto la ruina che la preservazione sua” » (p. 32).
Bello,  infine,  il “Ricordo” di  Fellini scritto da Piero Meldini (“Un sommo regista nel ricordo di in grande scrittore. A vent’anni dalla morte una memoria di Federico Fellini”, pp. 63-65).  Soprattutto per un’intuizione, tutta a favore dell’intelligenza  storiografica fellininana,  a proposito del     “Casanova”  Osserva Meldini: « Quello che ci rappresenta Fellini  è per l’appunto un Settecento notturno […] Il Casanova felliniano è un apolide, un vagabondo che concepisce l’amore come  passione […]. Altro che recordman e forzato del sesso: Casanova  è un amante appassionato e anche sdolcinato, un romantico ante litteram.  La rappresentazione del Settecento che ci dà Fellini troverebbe d’accordo, oggi, la maggior parte degli storici […]. [Ma] trent’anni fa il regista era in perfetta solitudine». Ma c’è dell’altro, di regola, conclude Meldini, « i registi di film storici, così come gli scrittori di romanzi storici, tendono, volenti o nolenti, ad attualizzare il passato. Fellini  fa l’opposto: guarda al presente con gli occhi dello storico. Da questo punto di vista  sono per me film storici non solo “Satyricon”, “Casanova” , “E la nave va”, “Amarcord”. Ma anche “Roma”, “Prova d’orchestra” e soprattutto “La dolce vita” » (pp. 64-65).  
Il fascicolo n. 2 (febbraio 2014) si segnala invece per uno “Speciale Emo”, con scritti di Giovanni  Sessa, Sandro Giovannini e interviste a Massimo Donà e Romano Gasparotti (pp. 14-31). Parliamo di un  focus  di altissimo livello su Andre Emo (1901-1983) filosofo, vero esempio vivente dell’epicureo vivi nascosto,  perché in vita non pubblicò nulla.  Sebbene riscoperto dopo la morte,  dalla triade cognitiva Cacciari,  Donà,  Gasparotti, abituata a dare del tu al pensiero negativo,  Emo rimane – almeno a nostro avviso -  una specie di  gigantesco punto interrogativo teoretico. Avvince e inquieta al tempo stesso. Un Cioran  di nobile casata veneta, forse addirittura più profondo del pensatore franco-rumeno,  passato per  Gentile,   che attraversa i molteplici stadi di una metafisica antimodernamente  votata  all’autodistruzione ma neppure alla costruzione. E forse in cerca -  lui,  Emo -  di un   un fondamento teoretico, o qualcosa che gli somigli,   in chiave di unità metadialettica  tra essere e nulla.   Ma per andare  dove?  Quale metafisica dei costumi è possibile costruire, in termini di una sociologia della vita quotidiana,  distinta com’è  –  e non potrebbe essere diversamente -  da analfabeti,   sulla pur avvincente  filosofia del pensare scrivendo?  Ciò che vale per i professori di filosofia vale anche per i cittadini? Difficile dire.Infine,  ogni fascicolo della rivista,  per tornare alla metafora culinaria, offre un ricco buffet di rubriche, tra le quali ricordiamo “L’altro scaffale” (Alberto Cesari Ambesi); Filoosfia delle parole e delle cose (Daniele Gigli); “BvS: il ristoro del buon lettore” (Gianluca Montinaro). E così via. Buona lettura.     

mercoledì 26 febbraio 2014

L’Uganda e le leggi anti-gay
Nero non è più bello.




La  notizia  è che in Uganda i gay oltre a rischiare la prigione finiscono  in vere e proprie liste di prescrizione, pubblicate dai giornali, per ora  uno  (http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/mondo/2014/02/25/Uganda-giornale-pubblica-black-list-200-gay_10141746.html   ).  Insomma,  in  Uganda  gay non è bello, anche se gli ugandesi non sembrano così contrari (http://www.monitor.co.ug/News/National/Anti-gays-groups-organise-prayers/-/688334/2222114/-/bg9j59z/-/index.html  ), ma lo stesso vale anche  in non pochi stati africani ( http://www.newvision.co.ug/news/652905-uganda-11th-african-state-to-tighten-gay-laws.html  ).  Di conseguenza, nel mondo Occidentale,  ormai decisamente dalla parte dei gay,  nero  rischia di non essere più bello.   
Che dire? E soprattutto che fare?
Si tratta indubbiamente di una forma di discriminazione.  Che però non è reputata tale in paesi, ad esempio come quelli africani, segnati,  per semplificare,  da una forte cultura dell’onore maschile, a sua volta, collegata a una morale della colpa e della vergogna nei riguardi di coloro che intrattengono rapporti con persone dello stesso sesso.
L’Occidente, piaccia o meno, ha fatto le sue rivoluzioni egualitarie e sta superando il problema, se non di fatto, sicuramente in linea di diritto. L’Africa no. Di qui, due possibilità: o una escalation sanzionatoria da parte delle organizzazioni internazionali e delle nazioni pro-gay  o una politica attendista, come dire,  legata alla paziente  attesa che anche l’Africa, ormai completamente aperta al mondo esterno,  faccia le sue rivoluzioni egualitarie. Ma per propria scelta.  
Non scorgiamo altre strade. 

Carlo Gambescia


        

               

martedì 25 febbraio 2014

La triplice sfida di Renzi
Auguri Matteo!



Matteo Renzi  c’è  piaciuto.  Sì,  piaciuto, come si dice a proposito di una ricca  tagliata di carne, in mostra su una bella tavola apparecchiata...  
Naturalmente, parliamo, non tanto dei contenuti (sui quali  Renzi si  è tenuto abbottonato) quanto della forma, del modo di esporre, semplice e colloquiale, poco istituzionale.  E poi, ormai è chiaro, Renzi  non è un nostalgico del comunismo, né un simpatizzante della socialdemocrazia dei “Trenta Gloriosi”. L’ex sindaco di Firenze,  immagina   una sinistra moderna, vicina ai cittadini senza essere oppressiva,  ovviamente europea, nemica di ogni forma di razzismo, aperta al mercato, anche se probabilmente non meno “tassatrice”, come purtroppo impone  l’ album di famiglia  della   sinistra  egualitaria. Nessuno è perfetto.   
Inoltre, cosa non secondaria,  Renzi sembra  aver perfettamente capito l’inutilità delle guerre ideologiche, a partire dal ventennale conflitto tra berlusconiani e antiberlusconiani.
Insomma, siamo davanti a un politico, certamente di sinistra, ma giovane, pragmatico, intelligente, comunicatore. Si pensi alla differenza, non solo fisica con altri leader del centrosinistra, come, Prodi, D’Alema,  Letta e perfino  Rutelli e Veltroni, troppo legati, gli ultimi due, anche se riformisti,  al paludato universo politico  della Prima Repubblica.
Ovviamente, la tagliata va assaggiata e  mangiata…  E qui nascono tre  problemi:  il primo è che  Renzi è avanti  anni luce rispetto alla sinistra italiana, perciò troverà  forti resistenze conservatrici all’interno e all’esterno del Pd;  il secondo è che le maggioranza sui cui  si regge è la stessa risicata maggioranza del governo Letta: il terzo è che dovrà  mostrare con i fatti di essere all’altezza della situazione.  
Diciamo che siamo davanti a una  triplice sfida: di Renzi:  con le sue ambizioni,   con la sinistra,  con la sua maggioranza.  Il che,  forse è un po’ troppo per le giovani spalle di un ex sindaco, ripetiamo, molto ambizioso.  Si spera   però che possa farcela,  soprattutto  per l’Italia.   E anche  per  la tanto auspicata - almeno da tre decenni  -  modernizzazione della  sinistra.      
Auguri Matteo!  

Carlo Gambescia


lunedì 24 febbraio 2014



Caro Vice,
Non sono passati neppure due giorni dal giuramento e Renzi  già parla di nuove tasse… La sinistra non cambierà mai…
Cordiali saluti,
Italo Impresa

Caro signor Italo,
E’ di sinistra,  perciò  fa il suo mestiere.  Il problema  è un altro.  E’ che  la destra non le ha mai abbassate.

*** 

Egregio Vice,
Otto donne nel governo!  Non saranno troppe?
Distinti saluti
Giovanni  Macho

Gentile signor  Macho,
Mah… Se continua così, alla prossima infornata saranno troppi otto uomini…

*** 

Carissimo Vice,
Ma donna Mestizia che fine ha fatto?
Salutoni
Giovanni Affezionato

Caro Signor Giovanni,
si è arruolata nella Legione Straniera. Mi ha scritto che sta bene e che i cammelli sono migliori degli uomini. E probabilmente  ha ragione.


venerdì 21 febbraio 2014

Decadenza




Alcuni vecchi amici mi hanno invitato a parlare -  in verità l'argomento  l’ho suggerito io -  di decadenza. Concetto, nel senso di una rappresentazione mentale di un determinato aspetto della realtà,   difficile e affascinante al tempo stesso.  L’appuntamento è per il tardo pomeriggio.
Si tratta di un tema cui sto lavorando. Penso a un libro.   Come per altri miei lavori,  non ho scelto  il "soggetto"  a caso o perché di  moda,  bensì per una necessità legata a un  percorso personale di ricerca intorno alle grandi questioni della  metapolitica.
Indubbiamente,  la decadenza, dal punto di vista analitico, rientra in pieno nello studio del ciclo politico. Parliamo della  fase (una delle fasi) di un processo ciclico, dal momento che i fenomeni sociali, almeno nelle loro forme, tendono a ripetersi nel tempo.
Qui però iniziano i problemi.
Innanzitutto di definizione.   Ne rileviamo solo alcuni.  Che cos’è la decadenza?  Decadenza rispetto a che  cosa?  Decadenza dal punto di vista di chi osserva il fenomeno? Oppure dal punto di vista dell’osservato?  
Questi interrogativi  indicano  che il concetto di decadenza è un concetto che si può studiare solo se riferito a un giudizio di valore.  E i  giudizi di valore sono tanti quanti sono gli uomini.
Detto in altri termini: quel che è decadenza per gli uni è progresso per gli altri. E così via…
Allora, non esiste un grado zero?  O se si preferisce un minimo comun denominatore? In effetti,  esistono dei parametri istituzionali minimi. 
Si pensi alla teoria ciclica delle forme di stato e di governo. Che ovviamente è altrettanto imbevuta di giudizi di valore. Per un monarchico la repubblica (nel senso moderno del termine)  e un segno di decadenza e viceversa. 
Si pensi alle spiegazioni  demografiche, economiche, ecologiche, politologiche; spiegazioni sicuramente  fondate  e interessanti, che tuttavia non spiegano la sopravvivenza di un sistema ideologico,  Si pensi, per dirne solo una,  al ruolo del  diritto romano,  sopravvissuto alla caduta di Roma.
A questo punto, anche per concludere,  è possibile stabilire quattro  livelli cognitivi, crescenti e successivi di analisi del fenomeno decadenza  (nel senso che il secondo  livello  include il primo e così via). 
a) la sociologia della decadenza come  analisi del  romanzo sulla decadenza,  come sistema narrativo-dottrinario,  fondato su giudizi di valore.
b) la sociologia della decadenza, come  spiegazione,  in termini di sociologia della conoscenza, del perché gli intellettuali, ciclicamente, tornano a parlare di decadenza.
c) la teoria  della decadenza,  come grande tavola analitica in grado di raccogliere e rappresentare, per approssimazioni successive, diremmo per distillazione,  il sapere teorico  intorno alla decadenza.
d) la sociologia della decadenza come ricerca dei parametri minimi per misurare oggettivamente il  “fenomeno decadenza”.

Bibliografia minima
Pierre Chanu, Histoire et decadence,  Perrin 1981, pp. 366.
Julien Freund, La décadence, Sirey 1984, pp. 408.
Arthur Herman, The Idea of Decline in Western History,  The Free Press 1997, pp 522.


Carlo Gambescia

giovedì 20 febbraio 2014

Il libro della settimana: Guido Panvini, Cattolici e violenza  politica. L’altro album di famiglia del terrorismo italiano, Marsilio 2014, pp. 400, euro 22,00 - http://www.marsilioeditori.it/lista-autori/scheda-libro/3171753/cattolici-e-violenza-politica



Non è un provocazione.  Ma quando Berlusconi ricevette in pieno viso la famigerata  statuina  del Duomo milanese, Rosi Bindi, fece capire piuttosto chiaramente che il Cavaliere se l’era andata a cercare. Parliamo, non di una ex terrorista rossa, bensì di  una  cattolica di sinistra, democratica,  testimone oculare della feroce uccisione del professor Bachelet, di cui era stretta collaboratrice. 
Ora,  nell’altro “album di famiglia”, per citare il sottotitolo  l’interessante volume di Guido Panvini,  Cattolici e violenza politica (Marsilio), un’ ampia e dotta analisi di un  fenomeno in fondo sfuggente come il terrorismo politico, va ricordato anche questo, non tanto (o non solo) il rifiuto della modernizzazione capitalistica, quanto la difesa del  pauperismo: lo scorgere nel ricco colui che non passerà mai per la cruna dell’ago.  Di qui, quel vero e proprio odio patologico nei riguardi del Cavaliere, portatore di un modello culturale, addirittura edonista.  In qualche misura, l’antiberlusconismo  di politici cattolici  come Rosi Bindi  può essere letto come la continuazione  del terrorismo con altri mezzi.
L’abbiamo sparata grossa? In realtà,  il  libro di Panvini spiega proprio questo: la totale incomprensione da parte del cattolicesimo, soprattutto quello sociale, della normalità dei processi di modernizzazione. Di qui, la spinta,  in molti giovani cattolici, verso la scelta armata. Ma lasciamo la parola allo storico: «Sembrò prevalere a un certi punto la convinzione che la società dell’opulenza e lo sviluppo tecnologico, creando un mondo di bisogni indotti dal mercato, avesse definitivamente allontanato gli uomini dalla fede,provocando addirittura la morte di Dio. Uno nuovo potere totalitario e nichilista stava dunque impossessandosi della terra portando miseria e distruzioni nei paesi del Terzo mondo e creando inedite forme di povertà nelle società occidentali. Ci si domandò allora se fosse lecito ricorrere alla violenza per arginare la deriva in corso così come era accaduto in America latina e negli altri contesti dove i cristiani avevano imbracciato le armi contro le dittature. Moltissimi giovani cattolici maturarono le proprie convinzioni politiche in questo contesto, mobilitandosi  nella contestazione  studentesca sul finire del decennio […]. Terzomondismo, giustizialismo e pauperismo di matrice cristiana contaminarono, al contrario,  l’ideologia e la produzione teorica della nuova sinistra, dove molti cattolici militarono per poi compiere il passi verso le organizzazione armate. L’impatto con il marxismo-leninismo  radicalizzo le loro posizioni, portando alla deriva terroristica nel decennio successivo, ma la scelta delle armi era già maturata  all’interno di un percorso religioso» (pp. 15-16).
Pavini concede anche intelligente spazio ( circa un centinaio di pagine) alla ricostruzione delle matrici ideologiche del  terrorismo di destra, ovviamente  dove riconducibili (ma in misura minima)  a matrici cattoliche e cristiane.  Anche a destra  emerge la totale incomprensione  della modernizzazione capitalista, se non  in chiave demonizzante, cui viene associata, come rovescio della stessa medaglia, la rivoluzione comunista, sempre in agguato.
Insomma,  alle origini del  terrorismo, come ben si evince dal libro di Panvini,  c’è una  questione culturale irrisolta legata all’incomprensione del  fenomeno capitalistico, di cui si scorgono, in chiave manichea,  solo gli effetti negativi.  Di qui la condanna e il ricorso alle armi per combatterlo. O se si vuole della “categoria” della  “guerra giusta” E che, alla fin fine, si tratti di una mentalità dura a morire tra i cattolici si evince  da atteggiamenti  come quello di Rosy Bindi.

Carlo Gambescia


venerdì 14 febbraio 2014















San Valentino
di Carlo Pompei

Un albero intriso
D'acqua gravoso
Serioso oscillava

Soffiava vento deciso
Sotto il cielo piovoso
Ma pioggia non lava

L'umore incostante
Come lampo tonante
Era lei che cercava?

Non terra, ma fango
Non erba, ma stagno
Tutt'intorno si vede

Non le presta fianco
Sebbene sia stanco
E tutt'ora non cede

Resta un uomo ferito
Che sol ora ha capito
Ma ancor non ci crede
                          
                    Carlo Pompei 


giovedì 13 febbraio 2014

Il libro  della settimana: Leonida Bissolati, Diario di guerra. I taccuini del soldato-ministro 1915-1918, a cura di Alessandro Tortato, Mursia 2014, pp. 218, euro 16,00
  
http://95.110.225.117:8080/mursia/index.php?
page=shop.product_details&flypage=flypage.tpl&product_id=3974&category_id=13&option=com_virtuemart&Itemid=58


Bissolati chi era costui?   È sì, il livello è questo.  Oggi, se non per pochi storici e antiquari politici di una mai nata  socialdemocrazia italiana,  è  poco più  di un nome,  al massimo una targa  annerita dal tempo  dedicata  a un distinto signore  socialista dai  baffi fluenti.  Sia chiaro, la cosa non ci piace.  Anche perché, quando Craxi  si involò, accelerando,  con  la macchina socialista e democratica, in cerca di padri nobili  per contrastare gli istinti  leninisti  del Pci  berligueriano  saltò più di una fermata.  Per andare a  schiantarsi  nel circuito di Hammamet…  Ma questa è un’altra storia.
Negli anni, per alcuni  eroici,  del primo craxismo si ripescò Proudhon, pensatore brillante però antiborghese,  ma non Leonida  Bissolati (1857-1920) - o comunque senza la stessa convinzione -   e con lui l’ala riformista,  per così dire, al quadrato,  che aveva accettato ben prima di Turati la democrazia  liberale e  celebrato l’idea di patria senza cedere nulla  alle opposte monomanie  nazionaliste   pacifiste. Quel che  colpisce  del pensiero bissolatiano,  è l’interessante  collegamento fra Risorgimento,  socialismo democratico  e irredentismo, quale coronamento, anche attraverso la “Grande Guerra” -  guerra giusta -   dell’ Unità, dell’emancipazione economica e dell’autodeterminazione del popolo italiano.  Siamo veramente agli antipodi  della tradizione leninista,  così  carica di violenza e odio di classe.  Detto per inciso,  ancora si attende -   a quanto ci risulta  -   un’edizione  filologicamente impeccabile degli scritti di  Bissolati.
Sotto questo aspetto, chiunque ci abbia pazientemente seguito fin qui,  non potrà  non apprezzare  il suo   Diario di  Guerra.  I Taccuini del  soldato-ministro 1915-1918 (Mursia), finalmente  in edizione integrale, con due sontuose appendici (1/Lettere alla moglie;2/Discorsi e carteggi). Il volume è  ottimamente curato e introdotto  da  Alessandro Tortato,  che, da come si legge in quarta,  ha  affiancato alla carriera  musicale  gli studi storici.  Meraviglioso!  Se fosse per noi  obbligheremmo certi aridi cattedratici  a studiare musica proprio per rendere fertile il discorso storiografico, quale magnifico insieme di armonie, movimenti e tempi, ovviamente lenti e veloci.  Che vanno, per farla breve, dal grave al prestissimo…            
Il volume restituisce  i  pensieri  quotidiani di un fondatore del partito socialista, deputato, direttore dell’ “Avanti”, arruolatosi nel 1915,  a cinquantotto anni,  tra gli alpini.  Ferito due volte, decorato.  Dal 1916  Ministro  per i collegamenti con l’Esercito ( il  “«soldato-ministro»). Di qui,  il rapporto mai facile con Cadorna, generale comandante, segnato da alti e bassi, ma soprattutto, al di là degli apprezzamenti formali, da una reciproca diffidenza. Sentimento -  nostra amara considerazione -  che non può non distinguere, e da sempre, il rapporto tra militari e civili.
Parliamo di secche  notazioni a tutto campo:  i morti, i feriti, le bombe, le croci, i tarocchi,  il freddo, le alte quote, il quarto di pagnotta inzuppato nel caffè,  i cieli azzurri ma gelidi come gli occhi dei austriaci,  le marce, la stanchezza, la febbre, disertori, le fucilazioni.  Dopo Caporetto, Bissolati  credendo nella fine del sogno irredentista,  pensò per un  momento addirittura  di farla finita. E, come si osserva,  definì quella tragedia,  da antico organizzatore sindacale qual era,  come   frutto avvelenato di uno «sciopero militare». Va qui  ricordato che a proposito dell’Otto Settembre, Renzo De Felice usa un’espressione simile: «sciopero morale» (Rosso e nero, a cura di Pasquale Chessa, Baldini & Castoldi 1995, pp. 42-44 ). Probabilmente, al di là della natura onnivora delle letture defeliciane,  perché tristemente consapevole come Bissolati,  per dirla con Furet,  autore  citato dallo storico reatino,  che  «il fatto che i popoli  non si comportino eroicamente nella sventura non è una novità…».         
In sintesi, per chi abbia dimestichezza con la letteratura di guerra,  si può dire che nelle pagine di Bissolati, ritroviamo la lucidità  del   Diario di guerra  di Mussolini e la passione civile racchiusa   nelle   lettere  dal fronte di  Omodeo 
Fondamentale,  infine,  per cogliere alla radice il pensiero politico di Bissolati,  resta  il testo (in Appendice) della famosa  conferenza  della Scala dell’ 11, gennaio 1919, interrotta dal fior fiore del diciannovismo  e dallo stesso Mussolini,  presente in sala,  che pur stimava Bissolati.
Il  pensiero del “soldato-ministro”  è  un concentrato di   ragionevolezza politica e di fede nei  valori di quella  democrazia, liquidata da proto-fascisti e leninisti con l’epiteto di  borghese.  Torna l’idea  della Prima Guerra Mondiale, come conflitto della democrazia contro l’autoritarismo; si ribadisce con forza  l’adesione ai principio wilsoniano -  e prima ancora mazziniano - di autodeterminazione dei popoli; si crede fermamente nel ruolo pacificatore della Società delle Nazioni; si sfida il  nazionalismo  e il nascente mito  della vittoria mutilata, si chiede agli  italiani uno sforzo:  rinunciare  al Dodecaneso, all’Alto Adige e alla Dalmazia; si domanda  di non  contrastare  ciò che per Bissolati  era  già  un fatto: «La  Jugoslavia è, o Signori. E nessuno può fare che non sia» (p. 197).  Inutile ripetere  quel  che accadde  in una sala  strategicamente dominata  da  futuristi, arditi e altri diciannovisti.
Sempre in quei giorni drammatici, Salvemini, altro grande interventista democratico,  osservò:  «Il dilemma, dinanzi a cui si trova oggi il mondo è: o Wilson o Lenin ».   L’Italia, di lì a tre anni,   scelse Mussolini.   Già  massimalista,  nemico di tutti i riformisti.  Un piccolo Lenin italiano? Forse.   Comunque sia,   nessuno si  aspettava, come si direbbe oggi,  che vincesse facile.  Probabilmente neppure Bissolati,  che però morì  il sei maggio  1920.  E non fece in tempo a vedere l’ultimo atto della tragedia.  Probabilmente,  fu meglio così.  Matteotti, che invece c’era, vivo e vegeto,  fece una brutta  fine.      


Carlo Gambescia          

martedì 11 febbraio 2014

Magistratura e politica 
Come finirà?



Ci risiamo. Berlusconi grida al golpe morale-giudiziario... Gli avversari replicano altrettanto duramente... Inoltre, i giudici per alcuni fanno il proprio dovere, per altri no. Come stanno realmente le cose? E non tanto dal punto di vista del "teatrino politico", quanto da quello sociologico. Cerchiamo di capire.
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A proposito di divisione dei poteri...
La divisione dei poteri (in esecutivo, legislativo e giudiziario) è presentata dal pensiero politico moderno, a partire da Montesquieu, come una conquista: il fatto, che la giustizia sia indipendente, dagli altri due poteri favorirebbe l’assoluta neutralità dei giudici e l’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, come impongono i diritti dell’uomo. Tuttavia basta entrare in un’aula giudiziaria per capire che la giustizia non viene amministrata in modo indipendente. Perché il maestoso principio della separazione dei poteri resta di così difficile attuazione?
Innanzitutto, bisogna sempre distinguere tra teoria e pratica. Asserire che la giustizia debba essere amministrata in modo neutrale rispetto ai diversi poteri sociali ha un valore teorico, nel senso che indica la realtà come “dovrebbe essere”. Osservare, invece, che almeno due secoli di storia confermano il contrario, ha un valore pratico, perché mostra la realtà “così com’è”.
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Chi ha e chi non ha
Del resto è sotto gli occhi di tutti il “fatto” che chiunque sia privo di risorse economiche o in contrasto con la società (“politicamente” e “giudizialmente”) dominante, difficilmente vince una causa.Inoltre, la giustizia non può essere amministrata in modo assolutamente indipendente, perché è gestita da un preciso gruppo sociale: quello dei giudici. Che, come ogni altro gruppo sociale tende a dominare altri gruppi, a stabilire alleanze, a dividersi in sub-gruppi politici. Del resto, anche la magistratura, come qualsiasi gruppo sociale ha necessità di risorse ideologiche, simboliche e materiali. Risorse, che nel moderno sistema di economia pubblica e privata basato sul mercato, provengono dallo Stato (stipendi e status) ma anche dalla società civile (onori sociali e professionali). Senza dimenticare che l’ideologia della “neutralità dei poteri”, prima che giuridica è politica. Dal momento che si è storicamente affermata attraverso rivoluzioni politiche, che hanno rafforzato il “potere” dello Stato. Il quale, a sua volta, non è qualcosa di neutrale, ma si compone di gruppi sociali (ad esempio partiti e lobby burocratiche), in conflitto per l’egemonia politica, e spesso dipendenti dai gruppi economici (imprese, sindacati e altri gruppi di pressione) .
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Diritto, ideologia e interessi
Pertanto la distinzione dei tre poteri, in realtà, ignora una lotta - sociologicamente scontata - tra gruppi sociali differenti per ideologia e interessi. Un conflitto all’ultimo sangue, distinto da battaglie, imboscate, armistizi, alleanze più o meno sincere. E dove l’ideologia della neutralità della giustizia, per dirla con Pareto, si trasforma in “derivazione” o giustificazione: un’arma ideologica da usare contro gli avversari e per nobilitare se stessi.Ma non basta. Perché, in questo modo, la neutralità della giustizia finisce per essere frutto di fragili equilibri sociali. Che nascono da alleanze ideologiche e materiali tra gruppi temporaneamente affini: gruppi che reinterpretano ideologicamente, e in proprio favore, l’idea normativa ( o teorica) di giustizia
Pertanto la neutralità viene e verrà sempre perseguita in misura parziale, perché di regola riflette l’egemonia di un’alleanza ideologica, anche occasionale, che premia alcuni e penalizza altri.Infine, la “macchina” della giustizia, risente dei problemi legati alla burocratizzazione: fenomeno tipico delle istituzioni moderne. Si tratta di questioni legate al reclutamento, alla formazione e alla gestione della giustizia. Un iter sul quale influisce inevitabilmente la cosiddetta “routinizzazione” o burocratizzazione delle funzioni professionali: un fenomeno che colpisce tutte le grandi organizzazioni moderne, come mostrano, tra gli altri, gli studi sul cosiddetto comportamento amministrativo. E che si ripercuote sulla “piccola giustizia” di tutti i giorni. E spesso negativamente, come in Italia, dove un processo civile, se va bene, dura quindici anni…

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La guerra tra poteri
Di conseguenza, lo scontro tra Berlusconi e i giudici è l’ennesimo episodio di una lotta tra due “sub-gruppi”, di destra e sinistra, all’interno dei gruppi contrapposti di giudici e politici. Un conflitto alimentato, a livello mediatico, da altri gruppi, probabilmente economici, legati all’informazione e anch’essi vincolati ideologicamente a fazioni politiche contrapposte. E il bello, anzi il brutto, è che tutti ( gruppi e sub-gruppi) difendono la neutralità della giustizia, ovviamente sempre da un punto di vista particolare…Purtroppo, ripetiamo, bisogna accettare un fatto sociologico: all’interno delle società liberali e di mercato, basate sul pluralismo dei gruppi sociali ed economici, la cosiddetta ideologia dell’indipendenza della magistratura, è una pura e semplice risorsa simbolica, da usare nella lotta per l’egemonia sociale e politica tra i vari gruppi, incluso quello dei magistrati. E tutto sommato, il nostro “sistema” è “relativamente” migliore di quello in uso nelle società prive di pluralismo o totalitarie, dove la giustizia è assoggettata a un unico gruppo politico e i magistrati reclutati esclusivamente sulla base della fedeltà ideologica al “partito unico”, in nome del quale devono esercitare la giustizia.
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La vita naturale dei gruppi sociali
Se ci si passa la metafora, si possono immaginare i diversi gruppi sociali (magistrati, partiti, lobby, eccetera), come veri e propri organismi biologici, con una loro vita naturale: si espandono se non trovano ostacoli, e si bloccano o regrediscono se ne incontrano. Ma per espandersi servono risorse economiche proprie. E il gruppo sociale “magistratura”, come braccio del moderno stato liberale, non ne ha mai possedute, come del resto ogni altro corpo amministrativo. Ha perciò sempre dovuto confidare in poteri più forti: che pagano i conti ma pretendono… Ad esempio, in Italia, i giudici si sono sempre divisi tra minoranze ( o sub-gruppi) politicizzate di destra e sinistra (più di destra, almeno fino agli Sessanta del Novecento) e maggioranze politicamente indifferenti, pronte però a ubbidire, come ogni altro dipendente statale, a chiunque fosse capace di aprire o chiudere i cordoni della borsa (in termini di offerta politica di mezzi e risorse istituzionali).
In questo senso i giudici sono sempre stati ligi al potere, anche nascente. E perciò attenti a ingraziarsi le stesse forze politiche di sinistra, come negli anni di Tangentopoli, quando sembrava che i post-comunisti fossero sul punto di conquistare il potere. Ovviamente, ripetiamo, tutte le forze politiche in campo hanno sempre issato la bandiera dell’indipendenza della magistratura. Qualsiasi riforma, come ogni controriforma, è tuttora presentata come “tesa a ripristinare la libertà e l’indipendenza dei giudici”.

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Il difficile armistizio
Gli inviti al dialogo tra politica e magistratura - si pensi agli ultimi interventi del Presidente Napolitano - fanno parte di una specie di repertorio dei luoghi comuni del costituzionalismo moderno, da utilizzare nei conflitti istituzionali. "Derivazioni", per dirla con Pareto. Come se la politica fosse puro dibattito pubblico, una specie di minuetto settecentesco, e non duro contrasto amico-nemico, talvolta all'ultimo sangue. Napolitano, o finge o vive sulla Luna. Ed è un peccato, perché così dimostra di aver completamente dimenticato Lenin...
Insomma, la questione è squisitamente politica. Sarebbe perciò più onesto parlare di proposte armistiziali, soprattutto politiche, per arrestare la guerra in corso per il controllo della magistratura. Ma sarà mai possibile fermare la lotta eraclitea tra i diversi gruppi sociali?

Infine, di fatto, c'è qualche partito, al momento, in grado di impegnarsi? E di andare oltre il muro contro muro?


Carlo Gambescia

Napolitano, le voci di  complotto e la crisi italiana
Tutti contro tutti




La lotta politica si esprime seguendo una scala precisa di comportamenti. Per farla breve,  si va dalla soppressione fisica dell’avversario al confronto pacifico.  O se si preferisce  dalla guerra civile alla discussione parlamentare. Trascuriamo i livelli intermedi.
Merito principale delle istituzioni democratiche e  rappresentative è  di favorire  mediazione ragionata dei conflitti. E così  evitare, per quanto possibile,  il ricorso alla violenza nuda e cruda fra differenti gruppi politici.  Insomma,  il confronto  politico parlamentare è un bene prezioso, una conquista se si vuole. Però faticosa da proteggere,  perché, in primis,  implicano  la  condivisione di valori  comuni circa la bontà - e necessità, se si vuole evitare la guerra civile - delle istituzioni rappresentative; in secundis, l’uso di  una retorica  appropriata, consapevole del rischio della reciproca  delegittimazione a colpi di accuse      
Ora, in Italia, negli ultimi vent’anni, si è fatto il possibile, all’insegna del tutti contro tutti,  per gettare discredito sulle istituzioni  rappresentative e  minare  il  senso di lealtà dei cittadini.
Le famose “regole” non sono state rispettate da nessuno, o piegate, di volta in volta, agli interessi di parte: destra, sinistra, massime cariche dello stato.  Inutile parlare delle retorica politica, sempre violenta e fuori misura.
Perciò, le voci di  complotto,  oggi in prima pagina,  indicano, se vere, una grave violazione della Costituzione, se false, l’irresponsabilità  di un’intera classe politica. 
In ogni caso,  le istituzioni ne escono a pezzi.  Povera Italia.

Carlo Gambescia









sabato 8 febbraio 2014


















Due limpidi  occhi
di Villem Grüntal Ridala

Due limpidi occhi
mi fissano.
Mi squilla all’orecchio
la tua voce.
I tuoi occhi, o madre,
madre morta,
come stelle al mio cuore
risplendono.


(trad. di Luigi Salvini)

venerdì 7 febbraio 2014

 Destra radicale/  In anteprima,  alcune pagine dell' Introduzione di Carlo Pompei 
al suo libro  sugli anni  trascorsi a Linea  
 Contromemoriale
di Carlo Pompei

 "Contromemoriale" - titolo forse pomposo
per un post, ma non per un libro di prossima 
pubblicazione  - è dedicato  ai soliti  invidiosi:  
quelli del  "non ti lamentare ora, perché  
fino al 2010 hai campato 13 anni con stipendio
 da dirigente e responsabilità da impiegato". 
 In realtà,  le cose non sono andate 
così.  E fin  dall'inizio.
                                                          C.P.






Pino Rauti non mi ha mai citofonato, nel senso che non sapeva neanche dove abitassi, ma sono io che ho saputo sfruttare una pura e semplice coincidenza. Almeno all'inizio…
Seppi dal grafico impaginatore (un napoletano di cui non ricordo il nome) che alla Fiamma Tricolore si era bloccato il computer sul quale impaginavano Linea mensile. Cosicché, alle 18 di un pomeriggio di un giorno di novembre del 1997,  dopo il lavoro,  varcai  l'uscio  della  sede, allora in  Corso Vittorio Emanuele.
Ero emozionato, la mia parentesi politica "in nero" si era chiusa al liceo. Dopo, solo cose occasionali.
A Corso Vittorio mi intrattenni con Pino Rauti, Luca Romagnoli e Claudio Pescatore, già direttore responsabile di Linea mensile.
Di lì a poco, Rauti prese la strada di  casa,  accompagnato da Pescatore.  Romagnoli  e altri due dirigenti,  Romolo  Sabatini e Roberto Bigliardo  - forse sospettosi  -  rimasero "di guardia" fino al  ritorno di  Pescatore.
Le loro paranoie  sulla mia presenza rendevano  ancora più surreale  un  clima,  che,  grazie anche alla location,  era già kafkiano:  un vecchio, labirintico,  malridotto appartamento, incistato  in un palazzone inizio Novecento, in condizioni non migliori.
Passai tutta la notte a recuperare il file del giornale quasi chiuso e pronto da stampare, mancavano da chiudere 4 pagine su 16 (ho ancora quel numero di Linea mensile, in prima pagina Cossiga e i rigurgiti della Balena Bianca).
Quella notte ripresi a fumare e finii il pacchetto nuovo di Gitanes di Pescatore.
La mattina dopo Rauti arrivò con Romagnoli di buon ora: trovò me al lavoro e Pescatore sdraiato su un divano logoro, sporco, impolverato (ripeto: definire decadente la sede della Fiamma Tricolore era ed è un eufemismo).  Inciso: ricordo che Pescatore mi diceva ogni 5 minuti: "Se non ci riesci, lascia perdere, chiamiamo un tecnico", poiché ignorava completamente che cosa stessi facendo.
All'arrivo di Rauti e Romagnoli, dicevo, Pescatore scattò in piedi e - scena da Fascisti su Marte - urlò:
- SSEGRETARIOO, BUOONGIORNO,
ma con la voce impastata, sollevandosi  dal citato divano.
Non trattenni una risatina.
Allora Rauti si girò verso di me e disse con tono severo e voce genuinamente impostata:
- GIOVANOTTO, ALLORA?
Tornai serio, un po' intimorito da quel tono autoritario.
Risposi che il giornale era pronto e che  si doveva solo consegnare il tutto in tipografia.
Si rivolse di nuovo a Pescatore:
- HAI SENTITO? VA' IN TIPOGRAFIA A PORTARE LINEA!
Non esistevano le connessioni veloci di oggi e i telefoni servivano solo per telefonare.
Romagnoli sogghignava, Pescatore deglutiva, appuntandosi mentalmente  tutto…
Salutai (non romanamente) e  senza  farci neppure caso, con leggerezza,   scesi  l'imponente  scalone.  Ero stanco, soddisfatto  e divertito. E fu meglio così, perché già intuivo, che non avrei preso neppure una lira per l'intervento. E così fu...
Feci colazione al bar d'angolo a Largo di Torre Argentina, come ai tempi del liceo. Inforcai la moto e andai al lavoro, ma non prima di vedere Pescatore partire con un ciclomotore alla volta della tipografia di Tor Sapienza con il disco di  Linea  in tasca.
All'epoca, facevo il grafico e  produttore di impianti di stampa per una grande azienda tipografica che, tra le altre cose, editava quel che rimaneva dell'Avanti di Craxi. Una sera, all'uscita dal lavoro, trovai la mia Honda gettata a terra. Mentre cercavo di risollevarla, imprecando, avvertii  il gelo di una lama alla gola.  E  una voce,  in  napoletano stretto,  che mi sussurrava: "me si fottuto o' lavoro, brav', brav'...".  Appena detto questo, per fortuna, il grafico dal coltello facile sparì.  E per sempre... Infatti,  non l'ho più visto   anche perché litigai con il mio datore di lavoro.  E andai via…  Senza prendere una lira, anche lì.
Non dissi dell'accaduto né a Rauti, né a Pescatore, né loro tornarono sull'argomento. Gliene parlai io soltanto tempo dopo, ma, come prevedibile,  non ricordavano nessun grafico...
Mesi dopo andammo, io e Pescatore, a Milano per incontrare Marco Valle,  giornalista del periodico Abitare.   La nostra mission era  di  ricevere "informazioni grafiche". Unica cosa valida  - ma va? -  fu il  consiglio di non usare il "9 colonne" su un formato piccolo…
Il viaggio in treno A/R fu gentilmente offerto dalla Fiamma Tricolore,  mentre i panini  da Pescatore. Il quale, durante il viaggio di ritorno, continuava ad usare  termini editoriali dei quali non sapevo se conoscesse  il significato. Del resto, andava capito, perché  una graziosa biondina, seduta accanto,  sembrava interessata  agli sproloqui  di  uno sconosciuto che già  si immaginava grande direttore di quotidiano nazionale.
A Firenze vomitai, uscito dal bagno incontrai Enrico Lucci, allora semisconosciuto e meno antipatico  di adesso.
Tutto questo accadeva nell'inverno 1997-98. Erano passati due anni da Fiuggi e dalla nascita di Alleanza Nazionale (svolta per alcuni, abiura per altri). Rauti cercava l'uomo affidabile che gli consentisse di prendere i soldi del finanziamento all'editoria per far decollare le sue creature, Linea e Fiamma Tricolore,  araba fenice rinata dalle ceneri del  Movimento Sociale.
Forse vide in me la persona adatta  per tentare  con Linea  il grande salto da mensile a quotidiano e Pescatore, che aveva bisogno di un "toglicastagne" dal fuoco, non si oppose di certo.
A onor del vero Rauti e la Fiamma  anticiparono i primi tre anni di spese. Ovviamente, il giornale era fatto in economia. E le anticipazioni servivano  per poter maturare l'anzianità necessaria alla percezione del contributo statale all'editoria. Tuttavia, resta un mistero, almeno per me, se Rauti e la Fiamma abbiano mai recuperato tali anticipi…
Nel 1999 Roberto Bigliardo fu eletto al Parlamento Europeo, famosa la sua manifestazione contro il grande fratello Echelon con maglietta stampata. Probabilmente contribuì finanziariamente. O forse no. Comunque sia, pronunciò parole sagge: "du' combiuterr e 'nu modemme e siffatt'u giurnalett' ". È morto nel 2006. Ogni anno  Marco Valle lo ricorda  come il  valoroso traghettatore degli ideali missini…
Purtroppo i non sottoscrittori della neonata Alleanza Nazionale (coloro che consideravano Fini un traditore responsabile di una abiura), sebbene fossero mossi dai più alti sentimenti, non brillavano per doti organizzative, la facevano semplice ("combiuterr") e si perdevano in diatribe sterili, torcicolli mussoliniani, camicie nere, busti, fasci littori e saluti Romani, quando - Almirante prima e Rauti dopo - ostracizzavano certi comportamenti, non per rinnegarli, ma per rispettarli e circoscriverli ad un determinato periodo storico irripetibile. Anche perché, verosimilmente, vedevano poco spessore politico negli aspiranti ducetti in circolazione. Probabilmente Fini fu più il prodotto della stanchezza di Almirante e della testardaggine di Rauti, che della loro proverbiale lungimiranza.
Insomma, Almirante e Rauti  aborrivano una restaurazione impossibile che sfociava inesorabilmente in una parodia inutile (si porgeva il fianco alle critiche) e dannosa (i soliti fascisti manganello e olio di ricino). E qui,  paradossalmente, Fini trovò una autostrada, anche se, senza Berlusconi, non sarebbe andato lontano.
Nonostante tutto, Linea divenne quotidiano, percepì soldi pubblici, fece lavorare tanta gente, forse troppa. E durò quasi 14 anni, un po' grazie anche a me.
E ne sono fiero, anche se ho perso tutto, liquidazione compresa, per colpa di rivalità politiche e, per dirla brutalmente, dei "gargarozzismi" incrociati.

Carlo Pompei



Carlo Pompei, classe 1966, "Romano de Roma". Appena nato, non sapendo ancora né leggere, né scrivere, cominciò improvvisamente a disegnare. Oggi, si divide tra grafica, impaginazione, scrittura, illustrazione, informatica, insegnamento ed… ebanisteria "entry level".

giovedì 6 febbraio 2014

Il libro della settimana: Georges Devereux, Etnopsicoanalisi complementarista, edizione italiana a cura di Alfredo Ancora, Franco Angeli  2014, pp. 256, euro 31,00 - http://www.francoangeli.it/Ricerca/Scheda_libro.aspx?ID=21567







Il pensiero di Georges Devereux (1908-1985) è un continente sommerso. Una Atlantide intellettuale tutta da scoprire, soprattutto in Italia:  qui i resti di un  gigantesco tempio etnologico,  là le vestigia di altissime mura sociologiche, più in alto le torri della psichiatria e di lato le due poderose  colonne della psicanalisi e dell’etnologia. C’è veramente di che perdersi…  Parliamo di un intellettuale senza frontiere, plurilingue,  di casa negli Stati Uniti e in Francia, ma nato in Ungheria,  a Lugoj, città poi passata alla Romania. Di religione ebraica, poi battezzato.  Dalla cultura  sterminata ricca di sedimenti pluridisciplinari: fisica, chimica, storia, letteratura, filosofia, sociologia, antropologia.  Ben stratificati, come piani successivi di una Babele programmata,  edificata, come dicevamo, sulle potenti colonne della psicanalisi e dell’etnologia. Da lui praticate sul campo girando mezzo mondo.  Esemplare al riguardo il suo  un famoso studio  Reality and Dream. The Psychoterapy of a Plains Indian (1951), in cui psicoterapia, psicanalisi e sapere etnologico si mescolano e  completano  a vicenda fornendo un  ritratto a tutto tondo di un etnia indiana nordamericana. Di recente dal libro, il regista Arnaud Despleschin,  ha tratto un film “Jimmy P.”  Interessante, perché va oltre l’adattamento cinematografico del film  quanto ha dichiarato in un’intervista a “Marianne”, Thobie Nathan, discepolo di Devereux:

Le film Jimmy P. est une œuvre originale. Desplechin a créé son Devereux - et il est beau. Des amis m'ont dit qu'il ne souhaitait pas être parasité par quelqu'un qui aurait vraiment connu l'homme. Je trouve cette attitude compréhensible. Et puis qui connaissait vraiment Devereux ? Il cachait tant de secrets... Peut-être que chacun de ceux qui l'ont connu a gardé une image différente de lui. Mais il reste que je n'ai jamais rencontré un homme comme lui, d'une intelligence aussi vive... Dans l'univers des sciences humaines, je n'en vois pas aujourd'hui. Il pigeait tout, il devinait, il devançait. Il m'a appris le métier de penser. 


Giusto. Chi conosceva veramente Devereux?  Comunque sia,  un buon modo per provare a  scoprirlo, oltre intanto  a visitare il sito a lui dedicato (http://www.ethnopsychiatrie.net/ ),  resta  la lettura di  Etnopsicoanalisi complementarista (Franco Angeli), un volume antologico,  pensato  da Devereux e  ben curato, diremmo con scienza e coscienza,  nella  nuova  edizione italiana da Alfredo Ancora.  Il lettore   non addetto ai lavori, non si faccia fuorviare dal titolo accademico e specialistico.  Certo,  il testo si rivolge a  psicanalisti, psichiatri, etnologi, antropologi,  sociologi,  tuttavia  può  insegnare  a tutti, anche ai lettori semplicemente curiosi,   cose importanti  su se stessi e sui rapporti con gli altri, soprattutto se culturalmente diversi. E poi la scrittura  di Devereux è  impegnativa ma non criptica come quella di Lacan o imbevuta di profetismo archetipico come quella di Jung. Tra l’altro parliamo di  studiosi mai amati da Devereux, a differenza di  Róem, Mauss, Bastide e Lévi Strauss (con qualche riserva), per restare nell’ambito delle scienze sociali. Ovviamente scontato, il rapporto, come felicemente nota Ancora, con il «filone di pensatori» sviluppatosi «sulla scia del Freud antropologico» (p. 12).     


Lo sguardo che "taglia" di Georges  (o George, secondo l' "uso" americano) Devereux


Innanzitutto che cos’è il complementarismo? « Non è una “teoria”, ma una generalizzazione  metodologica. Il complementarismo non esclude alcun metodo, nessuna teoria valida – le coordina» (p. 50).  Perciò, entrando nel merito,  chiunque faccia indagini psico-sociali - o sia semplicemente curioso di capire l’altro da sé -  non può rinunciare ad approcci diversi ma complementari (ad esempio psicanalisi e sociologia),  collocando  ciò che analizza, e quindi le categorie cognitive impiegate,  all’interno del contesto culturale del soggetto studiato ( ricorrendo ed esempio all’etnologia),  evitando così qualsiasi tipo di  imperialismo culturali.
Ovviamente, quel che più colpisce  della ricca antologia  (dieci densi saggi, che vanno dagli anni Quaranta agli anni Settanta), sono le implicazioni per la ricerca sociologica. In particolare,  due punti: moventi psichici e sociali e concetto di identità  
Singolari, sul primo punto,  sono le pagine dedicate alla rivoluzione ungherese del 1956. Scrive Devereux: «L’inventario delle motivazioni dei partigiani ungheresi, considerati come individui, ha rivelato  che un buon numero  di loro non aveva subito personalmente né un cinico sfruttamento né un’oppressione brutale» (p. 126). Tuttavia  «tutti questi uomini hanno potuto battersi  con un ardore simile, uccidere un numero uguale di membri  della polizia politica segreta (AVO) e di Russi, e quindi produrre  dei risultati militarmente e socialmente identici. Psicologicamente i risultati possono tuttavia non essere gli stessi» (p. 128, corsivo nel testo).  E allora?   

«Il punto essenziale è che movimenti e processi sociali sia spontanei che organizzati sono possibili, non perché tutti gli individui che ci partecipano  sono motivati  in maniera identica (sociologicamente), ma perché una varietà di motivi in  realtà soggettivi possono trovare espressione ego-sintonica nello stesso tipo di attività collettiva» (p. 129, corsivo nel testo). 

Ciò significa che

«questo è anche vero sia per  i movimenti rivoluzionari spontanei che per il conformismo estremo. Infatti, pochi gruppi sono lacerati da lotte interne come le cellule rivoluzionarie e le organizzazioni iper-conformiste. Inoltre, nella stessa maniera in cui un rivoluzionario può battersi perché odia la figura del Padre, perché ha subito dei torti personali  o perché  voglia impressionare la sua manate, così un uomo può essere iper-conformista per opportunismo puro, per paura della sua spontaneità, o perché effettivamente ha ancora bisogno dell’approvazione di sua madre» (p. 126).

Insomma, dove la sociologia  scorge nella partecipazione dei vari gruppi sociali a un evento  motivazione collettive (patriottismo, egoismo economico, idealismo, conformismo eccetera) la psicologia  vedrà moventi soggettivi (dolore, paura, orgoglio ferito, ricerca o negazione della figura paterna, conferma o rifiuto del rapporto con l’immagine materna  eccetera). Di conseguenza,

« a livello di ricerca  e della spiegazione concreta, si deve procedere a una doppia analisi -  ma mai simultanea – dei fatti,  e  questo in  modo che mette bene in evidenza la complementarietà – nel senso rigoroso del termine – delle due spiegazioni, di cui una è psicologistica e l’altra sociologistica». Cosicché « solo un ricorso a questo genere di spiegazione, doppio ma non simultaneo, assicura da una parte, una autonomia non finta sia della psicologia che della sociologia» (p. 134, corsivi nel testo).

Notevole, e veniamo al secondo punto, il capitolo (il Sesto)  dedicato all’identità etnica.  Purtroppo, dobbiamo procedere per cenni. Scrive Devereux:

«Giungo ora a un punto decisivo sai dal punto di vista logico che dal punto di vista pratico: Anche se l’identità etnica (e quasi ogni altra identità di classe) sia logicamente e storicamente il prodotto dell’asserzione “A è un X perché non è un Y”, e della messa in opera  differenziante di questo carattere distintivo, è veramente funzionale solo se implica una valutazione non peggiorativa del fatto  che “B è un Y perché è un non-X» (p. 163).

Detto altrimenti:  
                                  
«Prendo ad esempio –  prosegue Devereux -   uno slogan molto alla moda: “Nero è bello”, questa affermazione può essere vera e funzionale solo se  implica che “Il bianco  è bello” anch’ esso benché in una maniera diversa. L’inverso, naturalmente, è ugualmente vero» (Ibid., corsivo nel testo).

Ciò però significa

«che ogni etnia incapace di ammettere questo fatto elementare si condanna da sé, dissociativamente, ad andare alla deriva,  come “sistema chiuso”, verso la perdita di una totale mancanza di senso. Così facendo essa stessa si fa andare alla deriva - e l’umanità intera  -  per terminare ad una totale immobilità, e annichilisce gradualmente l’individuo che, caratterizzandosi solo come una tale identità etnica, puramente dissociativa, si riduce anch’ esso ad una semplice unidimensionalità» (Ibid., corsivo nel testo).

Il che  implica lo sforzo da parte di ogni gruppo umano di non costruire la propria identità  contro altre identità.  E qui, va osservato,  che si tratta di una opzione che  dal punto di vista delle regolarità del politico è difficile, per alcuni  impossibile, perseguire. Di ciò,  a dire il vero sembra consapevole anche Devereux quando studia la «acculturazione antagonista », cui si dedica un’interessante capitolo (l’ottavo, scritto con E.L. Woeb).   Le società umane, osserva lo studioso,

«sono a volte influenzate negativamente dai loro vicini. Resistono all’adozione dei fini dei vicini. Sia con l’isolamento che con l’adozione di mezzi,  tecniche degli stessi vicini, e ciò per meglio resistere all’adozione dei fini.  Sia con l’elaborazione dei costumi deliberatamente diversi da (o in opposizione con) quelli dei vicini. Così anche  quando la reazione ai mezzi  e alla tecniche straniere può sembrare positiva, quella agli scopi e ai fini  è spesso negativa» (p. 215).

Il  saggio   venne scritto nel  1943  e perciò  risale al periodo americano di Devereux. Sul suo sfondo, di contrasto, si scorgono  le  lingue di fuoco della guerra contro il Giappone:  modernizzatosi  ( ecco, ricorso ai mezzi)  per sconfiggere gli Usa (senza però adottarne i fini, il modello sociale).  
Cosa aggiungere? Che lo schema dell’acculturazione antagonista  resta sociologicamente  valido  anche per i nostri tempi,  dove alcuni paesi  si modernizzano riguardo ai mezzi ma non rispetto ai fini. Si pensi, ad esempio,  al fenomeno del  fondamentalismo, segnato dal un terrorismo altamente tecnologico.   Quindi, altra lezione di  Devereux:  la tecnica, da sola,  non basta.      


Carlo Gambescia