mercoledì 29 ottobre 2025

Milei e il rischio leninista

 


Seguiamo l’ “esperimento Javier Milei” fin dall’inizio. Per l’Argentina devastata da ottant’anni di ideologia peronista nelle sue varie incarnazioni è qualcosa di nuovo e interessante (*).

Tuttavia Milei, a sua volta, incarna le contraddizioni, inevitabili, dell’introduzione dei principi liberali (a cominciare dai principi economici) in società welfarizzate o comunque contagiate dall’individualismo protetto. Cioè dal perseguimento personale della felicità  sentito  non  più come diritto individuale ma come dovere dello stato. 

E poichè  la politica, almeno dalla Rivoluzione francese in poi,  risulta divisa in destra e sinistra, il ruolo dello stato interventista non può che riflettere, con smottamenti talvolta gravissimi, come in questo momento, letali divisioni tra posizioni conservatrici, in molti casi addirittura reazionarie, e progressiste, ciclicamente sconfinanti nel radicalismo.

Sicché il dibattito politico degenera – semplificando – in battaglie tra estremisti politici, al punto di favorire il successo di demagoghi che sposano le cause più radicali, a destra come a sinistra. Oggi si chiamano populismi.

Al momento sta prevalendo la destra estrema, che sventola la bandiera del dio, patria e famiglia, alla quale si oppone una sinistra che proclama la necessità improrogabile di un’uguaglianza sostanziale.

 


Sia destra che sinistra proclamano l’importanza del ruolo dello stato nel perseguimento della felicità individuale. Di qui la tendenza degli individui a scorgere nei poteri pubblici un padre al quale chiedere protezione, perché conosce alla perfezione quale sia il bene per ogni singolo cittadino. 

 La credenza, in questo fatto, finta o vera che sia, genera ciò che abbiamo definito l’ individualismo protetto. L’esatto contrario dell’individualismo puro, spesso addirittura eroico, che ha fatto grande la società occidentale e liberale, dalle navi da corsa alle navi digitali.

In questo contesto, già di per sé abbastanza complicato, si muove Milei, che però se fosse veramente, come dice ( e dicono i suoi sfegatati fans), libertario, anarco-capitalista, “austriaco” (seguace di Mises, Hayek, eccetera), non dovrebbe neppure stringere la mano a Trump.
 

Si rifletta. Che Milei non la stringa ai suoi avversari socialisti, nazionali o meno, è scontato. Ma cosa può avere in comune un liberale an-archico, con un protezionista, fondamentalista religioso, reazionario come Trump? Nulla.

Certo, ogni ideologia politica, una volta al potere, non può non fare i conti con la realtà. E per chi sia nato in Argentina è difficile non tenere conto della potenza statunitense.

 


Ma il liberalismo è un’ideologia come le altre? O qualcosa che costituisce la spina dorsale del mondo moderno? Oppure ne è  una   vertebra, come può essere il socialismo, per giunta difettosa...

Spina dorsale. E lo si dica senza esitazioni. 

Si pensi al liberalismo come contenitore di tutto ciò che nel mondo moderno respira aria propria: idee, libertà, desideri, persino le sue contraddizioni. Un grande serbatoio d’ossigeno politico, dove convivono -  litigando civilmente, senza dover chiamare la polizia o l’esercito -  destra e sinistra. Grazie allo stato di diritto, alle istituzioni parlamentari, alla separazione dei poteri, alla libertà di stampa.

Detto questo, come si possono definire, i quasi due anni di governo Milei? Tra l’altro culminati nel successo elettorale di domenica scorsa?   Che però lo vede dipendere per governare dai partiti di centro?

Vediamo prima cosa ha combinato Milei in questo lasso di tempo.

Milei ha tentato il colpo di machete sullo stato argentino: ha tagliato, deregolato, smontato ministeri, ottenendo il primo surplus di bilancio dopo 14 anni e un calo dell’inflazione.

Ma il prezzo sociale è stato alto : povertà esplosa nel 2024, poi rientrata solo parzialmente.

 


Altra cosa, Milei ha tolto controlli sui capitali ma li ha messi sui giornalisti; parla di libertà ma nel frattempo ha ridotto gli spazi di manifestazione e informazione.

Raymond Aron, liberale triste, ricordava  a un pensatore del calibro di Hayek (il quale, tra il serio e il faceto non respingeva del tutto l’idea), i pericoli di un liberalismo economico che vada troppo a braccetto con l’ autoritarismo politico (**).

Detto altrimenti il rischio è quello di privatizzare i beni pubblici e di “statizzare” le coscienze, trascurando gli aspetti interiori dell’uomo, che hanno inevitabilmente una ricaduta sociologica in chiave di riduzione di fatto del pluralismo delle idee (***).

Ciò significa che l’ Argentina rischia di diventare  il laboratorio di una “libertà zoppa”, dove la mano invisibile del mercato convive con il pugno visibilissimo dello stato.

 


Ecco perché, se ci si passa l’espressione, il “pappa e ciccia” con Trump, l’uomo dei decreti esecutivi, della guardia nazionale federalizzata, dello squadrismo contro i migranti, non promette nulla di buono.

Perciò, al di là delle esagerazioni delle opposte tifoserie pro o contro il sacro ( o maledetto) esperimento argentino, non è facile emettere un giudizio “sereno” su Milei. Al momento diremmo che è quasi impossibile: chi lo adora vede il ribelle che taglia le unghie alla casta; chi lo detesta vede un demolitore con il martello in mano che mena colpi alla cieca.

Come detto, Milei si proclama “anarco-libertario”: nemico dello Stato, difensore dell’individuo assoluto. 

Eppure governa come un statista interventista: decreti d’emergenza, limitazioni al diritto di sciopero, sorveglianza digitale, insulti ai giornalisti.

Qui la contraddizione è teorica e profonda: l’anarco-libertarismo nasce per ridurre il potere coercitivo dello stato, ma in Milei lo stato diventa il braccio armato, come pare, della “libertà economica”.

È come se Milei volesse distruggere il Leviatano usando il Leviatano stesso. Un po’ come se un pacifista si affidasse ai carri armati per spiegare la pace.

 


Il risultato è un libertarismo autoritario: un ossimoro politico che rivela la fragilità di una visione dottrinaria quando passa dal seminario per pochi alla realtà sociale di tutti.

Certo, come si ripete, si deve avere pazienza,  perché la mano invisibile vincerà o  comunque l'economia decollerà  grazie all'opera di individui razionali e informati.

Una visione che dal punto di vista della struttura mentale ricorda quella di Lenin. Il quale confidava nella dittatura del proletariato, proprio come Milei confida in quella dello stato. E si badi, tutti e due (il primo apertamente, il secondo molto meno), sostengono la stessa tesi. Un miscuglio di utopia e dottrinarismo: un veleno ideologico molto pericoloso.

Si dirà che senza maniere forti, nessuna idea può essere realizzata. E qui torniamo a quanto dicevamo sul liberalismo come contenitore. 

Il liberalismo non è di destra né di sinistra. E per questo garantisce, grazie a una serie di istituzioni (a cominciare dallo stato di diritto), quella tensione naturale tra destra e sinistra che è molla di progresso. Che però non deve mai degenerare come sta accadendo.  Serve senso della misura.

Detto altrimenti Tocqueville non deve mai cedere il posto a Lenin, che a sua volta può generare Mussolini. E nel caso argentino, un nuovo Peron.

Che poi siano idee anarco “qualche cosa” o comuniste non cambia nulla. Perché ogni eccesso di dottrinarismo rischia di provocare l’agonia e la morte del liberalismo. 

Al momento, il  migliore dei regimi politici possibili. E come dicevamo,  spina dorsale della modernità.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/search?q=milei .
 

(**) Su Hayek si veda R. Aron, Il concetto di libertà, pref. di E Craveri, Ideazione Editrice, Roma 1997, pp. 33-76.
 

(***) Su punto si veda sempre di R. Aron, Teoria dei regimi politici, Edizioni di Comunità, Milano 1973.

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