giovedì 17 aprile 2025

Perché pagare il pizzo a Trump? Il viaggio a Washington di Giorgia Meloni

 


Oggi Giorgia Meloni si troverà al cospetto di un tiranno che vuole introdurre nelle università americane un commissario politico per facilitare l’iscrizione di studenti che condividono l’ideologia trumpiana (*).

Una misura che non ha precedenti, se non nel maccartismo, che comunque non fu così sfrontato né fu riflesso di scelte presidenziali. Harvard,il tempio del sapere americano, ha detto no. Come del resto altre università. Sicché perderanno ingenti finanziamenti.

E questo probabilmente è solo l’inizio di un processo di distruzione delle libertà non solo americane. Perché il modello Trump, come il modello Mussolini post marcia su Roma, rischia di essere esportato in tutto il mondo occidentale. Il carisma dell’uomo forte sembra tornato tristemente di moda. Come l’istinto gregario nei popoli, o se si preferisce di gregge.

Perciò Giorgia Meloni dovrà parlare di dazi con un tiranno. Un uomo che calpesta la legge e ammira altri tiranni come lui. Una cosa moralmente e politicamente disgustosa e inaccettabile. Che ci riporta ai tempi di Daladier e Chamberlain quando  pendevano dalle labbra di Mussolini e Hitler.

Che c’entra tutto questo con i dazi? Ci si potrebbe rispondere nulla, perché quando si fa politica – così recita certo realismo dalla vista corta – si deve essere concreti e pensare solo ai propri interessi.

Giorgia Meloni, accesa nazionalista, pardon sovranista, non ha dubbi al riguardo. E il fatto, come sembra, che l’Unione Europea si sia affidata a una neofascista, nemica storica dell’Europa e dell’Occidente ( non si creda alle sue recenti dichiarazioni “filo”), è purtroppo un altro segnale di decadenza. Per dire una banalità, indica solo una cosa: che Italia ed Europa ballano sul Titanic non avvertendo gli  strani rumori che risalgono dalle stive.

Otterrà risultati? Tramanda Ibn Khaldūn, il grande Machiavelli maghrebino, che i tiranni vanno circuiti, coccolati, adulati. Lui stesso, una volta al cospetto di un Tamerlano, disteso tra piume e cuscini da mille e una notte, per catturarne i favori lo definì il più grande sovrano di tutti i tempi, davanti al quale non si poteva non tremare. E che quindi si scusava della sua mancanza di lucidità…

Il che per estensione significa che Trump vuole intorno sé non consiglieri e alleati ma solo ministri condiscendenti e associati servili. E che applica ed estende a tutti i suoi interlocutori la logica della potenza. Di qui l’uso del ricatto.

Può valere con uomo del genere la logica del contratto? Il pezzetto di carta sventolato da Giorgia Meloni? Come quello che dopo Monaco Chamberlain sventolò al suo ritorno? In realtà, come ogni tiranno Trump è un estorsore. E qui è d’aiuto il codice penale: estorsore è chi con violenza o minaccia, costringe uno o più soggetti a fare o a non fare qualche atto, procurando a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno.

Ovviamente, la logica della potenza non contempla i concetti di ingiusto profitto e di altrui danno. La politica assolve il vincitore, perché segue la logica del successo: s’inchina al più forte. A meno che – ecco il vero punto politico – non ci si opponga con forza pari o superiore.

Pertanto è un errore insistere sull’importanza della mediazione e sulla logica del contratto a prescindere. Cioè con chi fondi il suo potere sull’uso spregiudicato forza. Perché nella migliore delle ipotesi la “controversia” – chiamiamola così – si può risolvere, come capita quando infuria il racket, nel chinare la testa e pagare il pizzo.

Giorgia Meloni rischia di fare la stessa fine di quei negozianti,i famigerati borghesi piccoli piccoli,  che attenti al proprio particolare e diffidando delle forze dell’ordine, si apprestano mestamente a pagare il pizzo. Però a Trump.

Ultima notazione non secondaria. Sembra che il “format” (come dicono i massmediologi) sia lo stesso usato per ricevere (e umiliare) Zelensky: studio ovale, telecamere, sodali trumpiani, famelici e servili, tutti intorno. E lui il tiranno al centro della scena, tra piume e cuscini, come il Tamerlano, di cui narra Ibn Khaldūn.

Perché sottoporre l’Italia, e di rimbalzo l’Europa, a tutto questo? Perché correre il rischio di essere umiliati? E per giunta in mondovisione?

In che cosa si spera? Trump capisce solo il pizzo. O lo si paga o si brucia. Tertium non datur.

Pertanto il caro vecchio buon Macron ha ragione. Su la testa!

Aux armes, citoyens !
Formez vos bataillons !
Marchons, marchons !
Qu’un sang impur…
Abreuve nos sillons ! 

 

Carlo Gambescia

 

(*) Qui un interessante articolo in argomento: https://www.msnbc.com/top-stories/latest/trump-vs-constitution-enemy-freedom-deportation-rcna201590 .

mercoledì 16 aprile 2025

La pistola a tappi di Vittorio Emanuele Parsi

 




Ascoltavamo ieri sera Vittorio Emanuele Parsi, ospite de “Il cavallo e la torre”.

Innanzitutto uno studioso non può cavarsela parlando in modo così generico dell’influenza di Montesquieu sulla Costituzione americana. Nel Federalist, che ai tempi del devastante trumpismo va tenuto sulla scrivania, ci sono passi precisi dove si discute acutamente della teoria della divisione dei poteri.

Ad esempio nel saggio 47° (su 85), Madison proprio partendo da Montesquieu, parla della pericolosità della riunione in una sola persona dell’esecutivo e del legislativo. Proprio ciò che sta facendo Trump. Quindi la citazione precisa era necessaria per comprendere la svolta epocale antiliberaldemocratica di Trump (*). Pregna di gravissime conseguenze. Per capirsi: Trump vs Madison (e Montesquieu). Non è una cosa da prendere alla leggera.

Ma il punto non è questo ( o non solo). E qual è allora? Che Parsi, pur sottolineando giustamente la necessità di difendere la società aperta, non riesce a pensare la guerra.

Per quale ragione? Perché il suo è il classico realismo politico standard, diffuso, “mediamente” accettato. Insomma da salotto televisivo o aula universitaria: realismo accademico, un pizzico (non sempre) dottrinario, rispettoso delle buone maniere: in primis di un pacifismo di  centro diciamo, ma pacifismo.  Un realismo al passo con il pensiero politicamente debole del nostro tempo. Debole soprattutto in Europa, si badi bene.

Al di là di certe rapsodiche ruvidezze, l’argomentazione di Parsi riflette un approccio realista che però si ferma, per dirla con Gozzano, alle soglie della guerra. Teme di varcarle. Se ci si passa la battuta, si pensi alla pistola a tappi.

Nel caso specifico: Parsi spera, proiettando sugli attori politici il suo desiderio di pace e di tran-tran quotidiano ( casa-università, università-casa), che Trump e Putin si fermino, magari per ragioni interne o perché improvvisamente resipiscenti. Insomma che rinsaviscano di motu proprio. Di propria iniziativa. La cosiddetta forza della ragione. Che però spesso si addormenta...

Un realismo che in fondo non decide perché si ferma alla minaccia in attesa dello scambio per evitare il conflitto. Un conflitto, quello russo-ucraino, già in corso da tre anni.

Si rifletta. Il realista standard, nel senso di un realismo politico schiacciato sul presente, del salvare il salvabile, che non contempla la guerra se non come “minaccia”, non riesce a cogliere il ruolo della guerra guerreggiata, proprio come atto capace di rafforzare la credibilità della minaccia.

Quindi Parsi mette in discussione la “fattibilità” della guerra, dimenticando una cosa fondamentale: che per essere credibili la guerra almeno una volta bisogna farla. E si deve vincere.

Cosa sarebbe successo se ad esempio, dopo l’aggressione russa, diciamo nei primi due-tre mesi, si fosse risposto sul campo inviando truppe Nato?

Una cosa da attraversamento delle Alpi da parte di Annibale? Per respingere gli aggressori, usando armi convenzionali, senza per questo puntare – dichiarandolo pubblicamente – all’ invasione della Russia?

Che Mosca, una volta presa alla sprovvista, dalla rapidità della reazione occidentale, avrebbe perso l’iniziativa e capito che l’Occidente euro-americano non aveva paura di fare la guerra, perché ne aveva iniziata una in riposta alla sua aggressione. E che perciò la Russia – questo il messaggio delle truppe sul campo – doveva ridimensionare i suoi obiettivi.

Un bel rischio si dirà. Perché Putin minacciava l’atomica, eccetera. Certamente. Ma la Russia avrebbe di sicuro fatto marcia indietro, per quei solidi motivi interni di autoconservazione del potere che sconsigliano alle dittature di lanciarsi in guerre in cui le possibilità di vittoria sono scarse o nulle.

Cosa vogliamo dire? Che la paura dell’autocrate di perdere il potere è un fattore che le democrazie non devono sottovalutare quando confliggono con le autocrazie. Però, attenzione, non si tratta di qualcosa che germina in modo spontaneo all’interno di un’autocrazia, deve essere favorito dalle sconfitte sul campo.

Qui l’errore di Biden, della Nato e dell’Unione Europea.

Il realismo standard è un realismo a quo, schiacciato sul presente, della sopravvivenza, quindi disposto a cedere, sulla potenza e sui valori, pur facendo finta di non voler cedere. Per contro, il realismo, vero e proprio, ad quem, che guarda al futuro, temendo di veder accrescere la potenza dei nemici e per la sorte dei suo valori, non è mai disposto a cedere. Non fa finta.

Per il realista ad quem la guerra è un atto dimostrativo non la minaccia di un atto dimostrativo: Churchill, realista ad quem, che guardava al futuro, all’indomani della sconfitta della Francia, non si arrese al realismo a quo di Lord Halifax, alla guida fino al gennaio del 1941 del Foreign Office, schiacciato sul presente, quindi pronto a una pace “onorevole” con Hitler (**).

Si dirà, deridendo, che il nostro ragionamento ricorda quello del Dottor Stranamore. Può darsi. Però resta il fatto che il ragionamento di Parsi rimanda a un realismo spuntato, standard, che vuole difendere l’Occidente a colpi di proclami e sanzioni economiche. E che alla fin fine ricorda quello di Lord Halifax pronto al compromesso con Hitler pur di sopravvivere. Tanto rumore per nulla.

Eppure nel 2022 Trump, reduce da un primo mandato disastroso sotto il profilo liberale, incombeva. Insomma si poteva fare molto di più.

Adesso con Trump al potere, che condivide con Putin una visione politica che fa strame di Montesquieu, tutto è più complicato. Le autocrazie funzionano così: o confliggono o si mettono d’accordo tra di loro per divorare le entità politiche minori o più deboli. Si chiama logica di potenza: dagli Assiri a Hitler. Alla quale è inutile opporre la logica del contratto, già nota secondo Jacques Pirenne, ai tempi del liberalismo babilonese.

Ed è quel che sta accadendo con l’Ucraina che Trump ha scaricato per favorire Putin, come ai tempi del patto Molotov-Ribbentrop sulla spartizione della Polonia. Un accordo scellerato al quale l’Europa assiste impotente, ieri come oggi. Salvo poi, corsi e ricorsi (per dire una banalità), lo svegliarsi anche questa volta all’ultimo minuto, già con l’acqua alla gola.

In questo scenario da ultimi giorni di Pompei scorgiamo Parsi che impugna la pistola a tappi del realismo standard da salotto o da lezioso seminario accademico: un realismo a quo, incapace di pensare la guerra come azione dimostrativa.

Certo, il passaggio all’atto può essere costoso in termini di vite umane. Ma rimane necessario. Sempre che, ciò che resta dell’Occidente dopo l’avvento di Trump, non aspiri a tramutarsi nel Quaquaraquà di cui scrisse Sciascia.

Carlo Gambescia

(*) Si veda A. Hamilton, J. Jay, J. Madison, Il Federalista, intr. di G. Ambrosini, Nistri-Lischi, 1955, pp. CVII-CXII,  pp. 325-333.

(**) Abbiamo approfondito la questione nel nostro Il grattacielo e il formichiere. Sociologia del realismo politico, Edizione Il Foglio, 2019.



martedì 15 aprile 2025

Vargas Llosa liberale? Mannò…

 


I giornali italiani, da destra a sinistra, passando per il centro, non riservano lo spazio che merita a Mario Vargas Llosa, già premio Nobel per la letteratura, di origini peruviane, poi con cittadinanza spagnola, scomparso l'altro  ieri, quasi all’età di novant’anni.

Per quale ragione? Era un liberale dichiarato. Inoltre, a parte il breve appoggio al Castro pre-sovietico, fu un fiero avversario del populismo di destra e sinistra: il veleno del Sudamerica.

Una pozione venefica che tuttora contamina il pensiero di un presunto liberale come Milei.

Di qui però il gusto sadico, soprattutto a sinistra, di presentare Vargas Llosa come un traditore “dell’Idea”: un transfuga. E di opporgli  invece Gabriel García Márquez, di certo un grande scrittore, colombiano, poi naturalizzato messicano, devoto però all’ideologia marxista. A dire il vero  i due non si amavano: una volta ci scappò pure una scazzottata. Gratta, gratta, il sangue caliente dei latinos non perdona mai.

Per riconnettere Vargas Llosa all’amara realtà di questi giorni, va ricordato che nel 2016, profeticamente, definì Trump un pericoloso pagliaccio dalle pulsioni populiste, autoritarie e fasciste. Centro pieno.

Inoltre va ricordato che per evitare al Perù una pericolosa deriva autoritario-populista, Vargas Llosa nel 1990 si candidò alla presidenza contro Fujimori. Ma perse.

Fujimori, uno dei più corrotti presidenti peruviani ma populista di ferro, fu eletto con i voti della sinistra antiliberale. Due anni dopo segui il colpo di stato.

Però Vargas Llosa aveva già lasciato il Perù. Divenne cittadino spagnolo. Paese in cui viveva e lavorava già da tempo.


Si legga con attenzione la nota di presentazione a lui dedicata su IBS.it Un testo, se ricordiamo bene, di derivazione einaudiana. Perché “politicamente” significativa (poi diremo perché).

Mario Vargas Llosa è uno scrittore, critico e giornalista peruviano, vincitore del Premio Nobel per la Letteratura nel 2010. Figura centrale della rinascita della narrativa ispanoamericana, fine polemista, è vissuto a lungo in Europa. Attivo nelle battaglie civili e politiche, si è candidato alle elezioni presidenziali del Perù nel 1990 (resoconto di quell’esperienza è Il pesce nell’acqua, El pez en el agua, 1993). Collaboratore di diversi giornali europei, conferenziere in molte università del mondo, nel 1994 ha assunto la cittadinanza spagnola; ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti tra cui i premi Principe di Asturias, Cervantes, Grinzane-Cavour alla carriera e la presidenza del Pen Club International. Autore molto prolifico, ha pubblicato articoli, saggi (su García Marquez e Flaubert), pièces teatrali e narrativa di vario genere. La città e i cani (1963) è il dissacrante romanzo d’esordio: bruciato in piazza in Perù, ottiene larghi consensi in Europa. Gli fanno seguito La casa verde (1966) e il romanzo politico Conversazione nella cattedrale (1969). Pantaleón e le visitatrici (1973) inaugura un registro di sottile, a volte comico, ironico, cui appartiene anche La zia Julia e lo scribacchino (1977). Ha sperimentato il genere giallo dal risvolto sociale (Chi ha ucciso Palomino Molero?, 1986). Tra le ultime opere: La festa del caprone (2000), Il paradiso è altrove (2003), Avventure della ragazza cattiva (2006), struggente storia d’amore e di fuga, Il sogno del celta (Einaudi 2011) la biografia romanzata di Roger Casement, La civiltà dello spettacolo (Einaudi, 2013), Crocevia (Einaudi, 2016), Il richiamo della tribù (Einaudi, 2019), Tempi duri (Einaudi, 2020), Le dedico il mio silenzio (Einaudi, 2024). Ha vinto il premio Nobel per la letteratura nel 2010 con la seguente motivazione, ‘per la sua cartografia delle strutture del potere e la sua acuta immagine della resistenza, ribellione e sconfitta dell’individuo’“.


 

Si noti subito una cosa. Manca la sua produzione politica, copiosa. In Italia – quando si dice il caso – pubblicata da piccoli editori. Non semiclandestini, però… Per tutti si veda, anche per apprezzarne la concezione liberale: Sciabole e utopie. Visioni dell’America Latina (Liberilibri).

Ecco, la parola che manca nel profilo è “liberale”. Si accenna nella chiusa alla “resistenza, ribellione e sconfitta dell’individuo”, parole che spiccano nella motivazione del Nobel. Per inciso, resta da scoprire il regime alcolico scelto in quell’occasione dai membri dell’Accademia, noti per le simpatie antiliberali.

Evidentemente, Vargas Llosa, meritava giustamente a prescindere. Guai però a chiamare le cose con il loro nome,  meglio un giro di parole: l’individuo bla bla bla…

In Italia gli unici a celebrarlo, pur nella sobrietà dell’ impaginazione di rito, sono quelli del “Foglio”. Lo ricordano per ciò che era: un grande scrittore che si dichiarava liberale già ai tempi tumultuosi del Sessantotto, sfidando il vento contrario. Allora a dettare la linea era la sinistra, oggi sono i populisti di destra e sinistra. Il che spiega i titoletti di spalla, le manchette sopra la testata, qualche “taglietto” di centro pagina o basso, quasi invisibile (*).

Triste dirlo ma l’Italia si è “latinoamericanizzata”. Complimenti vivissimi. Oggi comanda il populismo. Mezzo fascista o tutto fascista come nel caso dei meloniani della "Giorno del Made in Italy". Quelli dell' Orgoglio Italiano" (con le maiuscole) ai quali non piace però l’orgoglio gay.

La scomparsa di Vargas Llosa è invece roba da due pagine centrali, con richiamo in prima, ben evidenziato. E invece addirittura il quasi silenzio, da regime normalizzante fascio-comunista (se ci si perdona il termine giornalistico ma efficace). Regime simbolicamente contrassegnato dalle faccette della Meloni  vero guanto di velluto in pugno di ferro, che, se proprio deve, privilegia lo scrittore per non fare parola delle sue idee politiche liberali.

 


Due esempi di estremi si toccano? I populisti di “Libero”, trumpiani sfegatati, ignorano. Però lanciano il nuovo libro capolavoro di Sallusti. Idem “Il Fatto quotidiano”, giornale populista di sinistra e filoputiniano. Travaglio, ovviamente non tira neppure la volata a Sallusti… Però apre con un violento attacco, per inciso meritato, alla Santanchè, per la cronaca, in passato sentimentalmente legata a Sallusti

Gallinaio italiano. Tutto fuorché ricordare come dio comanda il Vargas Llosa liberale.

Desolante.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.giornalone.it/

lunedì 14 aprile 2025

Transizione “green”? Sì, al green militare però

 


Mosca fa strage di civili ucraini nella Domenica delle Palme. I filoucraini inveiscono contro Mosca mentre i filopalestinesi subito evocano Gaza.

Il problema dei problemi dell’ Europa e dell’ Italia è il non riconoscimento del nemico. E di conseguenza dell’amico. Ne deriva un clima di confusione generale, segnato da accuse e insulti reciprici. Un’atmosfera politicamente malsana che porta all’inazione militare e al pericoloso pacifismo di maniera. Da malati terminali di pace che travisano i sintomi di guerra, anche i più gravi.

La Russia? Basterebbe un piccolo segnale di pace. Gli Stati Uniti? Trump in fondo con i dazi fornisce una preziosa opportunità. La Cina? Un ottimo partner economico. Israele? Anche qui, si cinguetta, basterebbe un piccolo passo indietro.

Si vuole andare d’accordo con tutti. Convertire al tavolo delle trattative, porgendo l’altra guancia,  chi se ne frega sistematicamente dell’altra guancia (pardon). L’incapacità di distinguere tra amici e nemici rischia di provocare un pericoloso stallo politico europeo. Detto altrimenti:  dinanzi al nemico in armi si continua a evocare la pace oppure a tirarsi i rispettivi morti in faccia.

Non si colgono certi segnali, importanti. Ad esempio, Trump sta organizzando una grande parata militare in giugno per festeggiare lo stesso giorno il suo compleanno e i 250 anni delle forze armate statunitensi.

Si dirà folclore…. Fino a un certo punto. Perché indica un cambio di mentalità. Siamo davanti a una manifestazione di potenza, simbolica se si vuole, inconsueta per gli Stati Uniti, all’altezza però delle visioni militariste del mondo russo e cinese (*). Mentre l’ Europa gioca con le figurine pacifiste…

Si vuole la pace, come se dipendesse solo da noi europei, e non “anche” dal nemico che ci indica come tali. La pace si fa sempre in due. Verità banale, ma dura da comprendere.

Le posizioni di Starmer, Macron e probabilmente del prossimo governo tedesco guidato da Merz sono favorevoli al riarmo. Il che è incoraggiante. Però si deve ragionare anche in termini di un progetto comune di riorganizzazione dell’industria militare europea, in chiave comunitaria, e di organizzazione di un vero e proprio esercito europeo. Aumentare singolarmente (in chiave “punto e basta”) la quota di Pil suona come furba manovra diversiva. Stesso discorso per le oziose polemiche su quali fondi usare.

L’Italia, governata dalla destra, tenterà di sottrarsi, puntando su calcoli da ragioniere condominiale. Ovviamente dopo aver giurato fedeltà con la mano sul cuore agli immortali principi.

Non si vuole capire che i veri amici sono qui in Europa e che non è necessario arrivare fino in Cina o volare da Trump. Però la cosa deve essere reciproca. Anche Francia, Gran Bretagna e Germania devono dare prova di buona volontà. Il destino europeo è legato al grado di coesione industriale e militare che l’Unione ( o comunque chi ci starà) riuscirà a perseguire.

Inoltre va ribadita una cosa: sul riarmo – perché nonostante il cambiamento di nome di questo si tratta – si cincischia. Mentre per come stanno le cose, se proprio dobbiamo  parlare di transizione green, si deve aggiungere la parola "militare":  "transizione green militare".

Ripetiamo: L’ Europa e l’Italia non possono non riarmarsi fino ai denti. E soprattutto ragionare in termini post Nato. Dispiace dirlo, ma al momento spetta all’Europa il compito di levare in alto la bandiera dei valori occidentali. Può darsi che Trump venga spazzato via. Ma come? Quando? Come recita l’adagio “chi di speranza vive disperato muore”.

Pertanto, anche se non facile, si deve puntare sull’ unificazione delle forze armate e sulla pianificazione militare, a cominciare dalla strenua difesa dell’Ucraina, come se gli americani già avessero ritirato le loro truppe dall’Europa. Serve una specie di Banca Centrale dei cannoni, degli aerei, dei missili. I “tassi” sui quali lavorare sono quelli delle testate, cioè delle armi nucleari, convenzionali o meno.

Per capirsi: crediamo che i generali europei, in attesa dell’unificazione a chiacchiere, debbano godere (certo, bisogna guadagnarsela) della stessa importanza dei banchieri. I quali, a loro volta, a livello concreto di Banca Centrale Europea (fuor di metafora militar-bancaria) possono finanziare riarmo e riorganizzazione. Ovviamente generali non alla Vannacci, amici del giaguaro.

Si chiama economia di guerra. Brutto nome. Ma la realtà è questa. E si badi, ci si deve muovere sul piano europeo. L’Italia della Meloni, con le bandierine tricolori e le fiammette neofasciste al seguito, da sola, non andrà da nessuna parte.

Trump, Putin, Xi, rispettano solo chi ha una forza militare pari o superiore alla loro. Se non si capisce questo, l’Europa assomiglierà sempre più al vaso di coccio tra i vasi di ferro.

E non c’è tempo da perdere. Perché le sinistre, quando in buona fede, sono ingenuamente francescane. Mentre le destre, soprattutto le estreme, sono filoputianane e filotrumpiane. E detestano il riarmo – “questo” riarmo ovviamente – perché in fondo accettano la subordinazione, agli Stati Uniti e alla Russia in primis. Cosa tra l’altro in contrasto con l’ ideologia nazionalista e militarista che anima le destre.

Inoltre una sterzata militare permetterà anche di chiarire le posizioni interne all’ Unione europea. Insomma, meglio pochi ma buoni.

Ricapitolando: 1) individuazione dei nemici (Russia, Stati Uniti, Cina) e degli amici (Gran Bretagna, Francia, Germania, unitamente agli stati favorevoli al riarmo europeo); 2) riarmo comunitario, rapido e potente.

Se nel 1941 toccò gli Stati Uniti levare in alto la bandiera dell’Occidente, oggi è il turno dell’Europa. Certo, le divisioni, l’accidia, il pacifismo, la confusione programmatica, sembrano prevalere. Del resto si tratta di perseguire una “mutazione” antropologica prima che militare. Di riacquisire la capacità mentale di pensare la guerra, il nemico e l’amico.

La metapolitica può dare indicazioni sulle possibili conseguenze delle nostre azioni. Per capirsi: se si vuole la pace, ci dice che si deve fare questo e questo, se si vuole la guerra, questo e quest’altro.

Però, ecco il punto, la decisione tra pace o guerra spetta a noi. Perché non si può essere al tempo stesso per la pace e per la guerra o addirittura confidare stupidamente che sarà qualcun altro a fare la guerra o la pace per noi.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://people.com/donald-trump-planning-military-parade-on-birthday-reports-11711374 .

domenica 13 aprile 2025

Migranti e Ucraina. Quando cambia la percezione della realtà

 


Due notizie di agenzia. Significative. Perché aiutano a capire come e quanto sia mutata le percezione della realtà. E nei suoi termini più semplici: di routine, di pratica quotidiana di quella banalità del male, acutamente teorizzata a suo tempo da Hannah Arendt.

Ci spieghiamo: il buon Eichmann (si fa per dire) durante la settimana si occupva della “soluzione finale”, e nel week end giocava con i figli e con i cani. In qualche modo, si considerava in vacanza dalla storia. Ecco la banalità del male. Intorno cadono come mosche mentre la vita continua come sempre. Casa e ufficio, ufficio e casa.

Per capirsi: oggi si danno per scontate soluzioni politiche un tempo, neppure lontano, giudicate ripugnanti e difese solo da un destra abituata da sempre a trattare gli esseri umani come escrescenze esistenziali.

Veniamo alla due notizie.

Ansa, citando il “Washington Post” (ora trumpiano), riporta cinguettando, come la cosa più normale del mondo, che nel primo suo anno alla Casa Bianca “Trump punta a deportare 1 milione di migranti ”. Un progetto, si aggiunge, fin troppo “ambizioso”, perché finora le deportazioni “ hanno raggiunto la cifra di quattrocentomila al massimo” (*).

Adnkronos riporta invece la proposta dell’inviato americano a Mosca, Kellog. Si prevede la spartizione dell’Ucraina, da dividere in zone controllate come nella Berlino del dopoguerra: dal lato Ovest del fiume Dnepr francesi e britannici, dall’altro, a Est, i russi; nel mezzo una zona demilitarizzata (**). Americani invece a casetta loro, per dedicarsi alla caccia al migrante latino come impone Trump.

Insomma migranti e ucraini sono trattati come danni collaterali. Perché? In fondo che c’è di strano? In un modo o nell’altro, si proclama, turbano la pace: il migrante è presuntivamente un criminale, come lo è l’ucraino che si oppone all’invasione russa. Quindi vanno trattati come fastidiosi pidocchi.

Cioè non come esseri umani ma come parassiti di cui liberarsi con un colpo secco: schiacciando il dito indice o medio della mano con il pollice. In romanesco si chiama schicchera.

Invece di interrogarsi sulla grande questione morale ( “Si tratta così un essere umano?”): la vecchia normalità. Che si fa ? La si accantona. Come? Se ne parla il meno possibile. Di conseguenza prende piede, come la cosa più normale del mondo – ecco la nuova normalità – la questione organizzativa (“Liberarsi di costoro, e non importa se si tratta di esseri umani, presto e bene”).

Ora, che i russi ( insaziabili, che tra l’altro giudicano la proposta Kellog insufficiente) abbiano il pelo sullo stomaco è cosa scontata, non lo è invece il fatto che gli Stati Uniti, rinnegando le proprie gloriose origini anticoloniali, prendano a calci – perché di questo si tratta – ucraini e migranti.

La cosa più grave, se ci si perdona la caduta di stile, è la normalità del “calcio in culo”. Che va a sommarsi con la normalità della vita condotta dagli esecutori (cioè coloro che sferrano il calcio).

Le due normalità sociologicamente parlando, sono causa ed effetto al tempo stesso del cambiamento percettivo. Si tratta di un processo circolare, un circolo vizioso: è normale liberarsi dei pidocchi perché sono pidocchi. Nessuno si interroga più sul perché alcuni esseri umani sono definiti pidocchi. Si potrebbe parlare di una tautologia criminogena. Per dirla con il titolo di un vecchio film: siamo in modalità tranquillo week end di paura.

Ansa e Adnkronos non commentano, trincerandosi, se interrogati, dietro la distinzione tra fatti e commenti. Il punto è che anche i commenti sono quasi sempre a favore delle tesi della destra. Il “Washington Post” chiosa in chiave ragionieristica. Perché, secondo la tradizione giornalistica americana, si deve partire dai fatti. E i fatti dicono che i migranti sono pericolosi. C’è un problema pidocchi? Vado in farmacia o dal dottore.

In realtà, se è vero che la stampa (ma il discorso potrebbe essere esteso ai Social) continua ad essere lo specchio dell’anima di una società, per dirla in modo romantico, si può notare che la gente si è abituata a guardare dall’altra parte o a chiamare il dottore. Proprio come ai tempi di Hitler quando gli stessi tedeschi che si erano appropriati dei beni degli ebrei – frutto di malversazioni si proclamava – fingeva di non sapere cosa usciva dai camini di “quei campi laggiù”…

Per integrare più modernamente il concetto: Il migrante? Un terrorista. L’ucraino, a cominciare da Zelensky? Uno scocciatore. Ma si pensa la stessa cosa di israeliani e palestinesi: giudicati a fasi alterne, in base alle reciproche accuse di attaccare briga, come disturbatori della quiete pubblica.

Un milione di migranti da spedire a casa come pacchi postali, dieci o quindici milioni di ucraini da deportare spostando bandierine sulla carta geografica. Proprio come un tempo toccò a sei milioni di ebrei: che però non se la cavarono con la semplice deportazione.

Tragedie. E si guarda dall’altra parte. La gente vuole essere lasciata tranquilla. Si invoca la pace. Sicché, i capi, in cerca di capri espiatori, imprigionano e deportano. Carogne.

Anche l’Italia, in occasione della Pasqua, avrà i suoi undici milioni, ma di vacanzieri…

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/nordamerica/2025/04/12/wp-trump-punta-a-deportare-1-milione-di-migranti-in-un-anno_c66df1f1-1d4d-429d-bac3-1f555cf710e5.html .

(*) Qui: https://www.adnkronos.com/internazionale/esteri/ucraina-putin-inviato-trump-proposta_3HCryJ3NE5WWT3LYGEFXFE .

sabato 12 aprile 2025

Il debole della destra per polizia e militari viene da lontano

 


Non è un fatto nuovo che la destra, in particolare quella dalle radici neofasciste, che si protende  fino a Giorgia Meloni, abbia sempre avuto un debole per le forze dell’ordine e per le forze armate.

A parte il fenomeno terrorista degli anni Settanta ( la famigerata eversione nera), sono agli atti i continui attestati di rispetto, fiducia e simpatia verso polizia e forze armate.

Almirante e Fini, quest’ultimo persino dopo la nascita di Alleanza Nazionale, si sono sempre schierati, con proverbiale regolarità, dalla parte delle forze di polizia e armate. Con un debole per i servizi segreti, come testimoniano negli anni Sessanta e Settanta i tentativi di golpe neofascisti. Quindi simpatie regolarmente ricambiate dagli uomini in divisa, soprattutto tra i  politicamente più retrivi.

Nella visione della destra polizia e militari sono i veri pilastri dell’ordine. Le forze sulle quali contare per contrastare i criminali, ma anche, se necessario, per reprimere ogni forma di dissenso.

La destra di derivazione  fascista e neofascista (il "bagnetto" nell'Acqua di Fiuggi di Alleanza Nazionale conta poco o nulla) ignora totalmente il valore della libertà individuale, diciamo per Dna politico. 

Prima viene l’ordine poi eventualmente la libertà. E prima ancora di tutto, come provano le durezze del Ventennio fascista, la conservazione del potere a spese della libertà dei cittadini.

Giorgia Meloni non è da meno. Cerchiamo però di essere più concreti.

Il “Decreto sicurezza”, nel testo varato dal Consiglio dei Ministri il 5 aprile (dopo le perplessità di Mattarella), inasprisce alcune pene, introduce nuovi reati (ad esempio, rivolta in carcere, estesa ai Cpr; blocco stradale e detenzione di materiale con finalità di terrorismo), insieme a misure che si occupano del riordino della polizia locale, e della “valorizzazione” e “tutela” del comparto sicurezza (*).

Quest’ultimo punto è particolarmente interessante, perché lo stesso partito, Fratelli d’Italia, che, fin dalla sua fondazione, si è battuto per la responsabilità civile dei magistrati (**), ora che è al governo che fa? Estende la tutela legale agli appartenenti alle forze di polizia a ordinamento civile e militare, nonché al Corpo nazionale dei vigili del fuoco. Cosa significa? Che in caso di denuncia o indagine per fatti inerenti al servizio, questi operatori non dovranno sostenere costi per difendersi, poiché è stata raddoppiata la somma erogabile per avvalersi di un libero professionista nelle aule dei tribunali.

Si dirà che rispetto al concetto di responsabilità civile dei giudici ( tradotto in farraginosa legge nel  2015), non è gran cosa. Però  in realtà, la misura consente l’uso dei soldi dei contribuenti per pagare le spese legali di un poliziotto indagato, ad esempio, per aver perso la testa in servizio, magari durante un posto di blocco.

Inoltre – ciliegina sulla torta – va ricordato che il rinnovo contrattuale 2022-2024, firmato a dicembre 2024, che riguarda 430 mila operatori del comparto Difesa-Sicurezza, prevede un aumento dello stipendio del 5,78%, corrispondente a circa 196 euro mensili in più, che nel 2026 raggiungerà il 6% della retribuzione. Incremento che riguarda sia le forze dell’ordine che i militari (***).

Come interpretare, le linee di fondo, diciamo metapolitiche, di queste misure? Che si va ben oltre il fascismo. Che pure si richiamava ai fasti di Roma imperiale.

Che c'entra Roma antica?   Il debole per  le forze armate  si può  far risalire, come forma mentis autoritaria,  a Settimio Severo (193- 211 d.C.), l’ imperatore soldato che dopo due secoli di pace inaugurò la dinastia militare dei Severi.

Cosa fece? Per prima cosa, rispetto agli imperatori precedenti aumentò la paga dei soldati romani. Lasciando ai suoi successori, così dicono gli storici, la seguente raccomandazione: “Arricchite prima di tutto i soldati, anche a costo di trascurare tutto il resto”.

Il che, se accettabile in un imperatore, digiuno di liberal-democrazia, non lo è nel caso di un  primo ministro  dei nostri giorni.

Però, come dicevamo, il fascismo fu malato di romanità. Quindi perché meravigliarsi? Giorgia Meloni da dove proviene?

Carlo Gambescia

(*) Qui il sintetico resoconto giornalistico delle misure: https://www.ilsole24ore.com/art/decreto-sicurezza-ecco-tutte-norme-tutele-agenti-e-militari-nuovi-reati-AGasukyD

(**) Ad esempio si veda qui: https://www.publicpolicy.it/proposta-fratelli-italia-camera-tema-responsabilita-civile-magistrati-33427.html .

(***) Qui per i dettagli: https://www.silfnazionale.it/wp-content/uploads/2024/12/SILFDOSSIER-1-2024-SPECIALE-CONTRATTO-22-24-1.pdf .

venerdì 11 aprile 2025

L’Italiaccia di Chiocci

 


Gian Marco Chiocci è  il giornalista che inchiodò Gianfranco Fini alla croce dorata dell’appartamento di Montecarlo, il Monte Calvario di Fini.  

Ieri sera,  il  TG1, di cui è direttore a una cifra che gravita intorno ai 200 mila euro annui (*), ha mandato in onda, non il busto del duce, che alcuni ritengono fosse sulla scrivania di Chiocci ai tempi del “Giornale” (**), ma la lettera di scuse che Mark Samson, l’assassino reo confesso di Ilaria Sula, ha scritto e inviato dal carcere ai genitori della giovane vittima (***) .

All’epoca dei capoccioni della Democrazia cristiana, Chiocci sarebbe stato licenziato su due piedi. Il che era ed è troppo. Però, ecco il punto: vedere il Tg1, la nave ammiraglia della Rai, come si scrive in giornalistese, trasformato in un’ appendice di “C’è posta per te” lascia perplessi.

Si dirà che dai tempi di Bernabei, quello delle gemelle Kessler in calzamaglia nera pesante, l’Italia è cambiata. Certamente. Però dal momento che su tutte le reti Rai la cronaca nera impazza, era proprio necessario invadere in stile Putin anche il telegiornale delle ore venti?

A dire il vero, da quando è arrivato Chiocci, reporter d’assalto, assatanato di scoop, non è la prima volta che accade. Inoltre, oggi come oggi, è antipatico fare i moralisti.

Però come conciliare il “Dio, patria e famiglia” celebrato dalla destra bacchettona, alla quale Chiocci deve il posto di direttore, con la versione più o meno noir di “C’è posta per te”?

Solo in un modo. Con l’ipocrisia. Vecchia malattia italica: ci si erge a difensori dei grandi valori morali. Dopo di che si chiude un occhio. E qui si pensi allo stato di famiglia di Giorgia Meloni, quella del “sono donna, sono cristiana, sono madre”… Sì, ma more uxorio, come avrebbe commentato l’ufficio legale Rai ai tempi di Bernabei.

Sia chiaro però: il punto non quello di condannare le madri single, eccetera, eccetera. O di velare le cosce delle Kessler. Oggi Elodie va in giro mezza nuda. Perchè privarsi della bellezza, se frutto di libere scelte individuali?  Ci mancherebbe altro.

Quel che dà fastidio è l’ergersi a paladini della morale, per poi farsi i cazzi (pardon) propri. Per la serie le regole valgono solo per gli altri…

Ma non è tutto.

La destra alla Chiocci il reato di femminicidio non lo ha mai digerito. E che c’è di più in sintonia con ciò che si pensa ma non si dice, di esibire la letterina di un femminicida che chiede scusa? Una specie di mammoletta ex post… Quindi in controtendenza rispetto alla versione neanderthaliana, più che giustificata ovviamente, delle femministe.

Infine sullo sfondo di un Tg1 cannibalesco, tipo “La vita in diretta”, c’è un’Italia che per un verso non vuole sentir parlare di guerre (“giuste o ingiuste pari sono”, questa la vulgata), mentre per l’altro si nutre in quantità industriali di analitici resoconti televisvi sui delitti più raccapriccianti.

Un’Italia di timorosi guardoni, di gente morbosa senza però sapere di esserlo. Ormai è la normalità. Un pubblico affascinato da una specie di romanzo criminale che va avanti fino a notte fonda. Con le appendici delle letterine, dei pentimenti, eccetera. E cosa imperdonabile: senza aver mai letto una riga di Mario Praz.

Ripetiamo: oggi la normalità è discutere di reperti organici, di rigidità cadaverica, del numero di coltellate inferte e dell’abbigliamento delle vittime, nonché dello standard morale dell’assassino, dei genitori, dei parenti, dei fidanzati e dello zio prete. Con gli avvocati, veri  artisti dell’ antilogia, onnipresenti in tv, pronti a dare il colpo di grazia al comune concetto di verità condivisa. Così vanno le cose.

Del resto l’età del pubblico televisivo (altra caratteristica dell’Italia pacifista) è elevata. E si sa, i nonni, 12 milioni in Italia (****), sono sempre nostalgici del buon tempo antico. “Ai tempi nostri non c’era l’assassino seriale”… Sono soddisfazioni…

Un’Italia di vecchiacci affamati di cronaca nera. Ma non solo. Perché tutti gli altri si nutrono di fake news e di complottismo social.

Un’Italiaccia che nel suo insieme non apprezza più il mago Silvan, il mito un tempo dei grandi e dei piccini. Ma adora, ecco il nuovo mito dei grandi e dei piccini, il grand guignol Rai. O come si dice oggi il pulp.

Questa brutta Italia un direttore come Chiocci se lo merita. Come si merita la destraccia ipocrita che lo ha nominato alla direzione del Tg1.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.rai.it/trasparenza/persone/Gian-Marco-Chiocci-ad6199ee-8e72-45ca-a2ca-aa27f65c0167.html .

(**) Qui: https://www.ilfoglio.it/articoli/2014/12/21/news/reporter-borderline-79453/ .

(***) Qui: https://www.adnkronos.com/cronaca/mark-samson-scrive-ai-genitori-di-ilaria-sula_7uFOrhalGZ3CKQM5Mjislk .

(****) Qui: https://www.infodata.ilsole24ore.com/2024/10/02/quanti-nonni-ci-sono-nel-mondo-e-in-italia/