martedì 31 marzo 2015

Normalità e società
Spicchi di  felicità



Per apprezzare la “normalità” sociale  si deve  provare  l’anormalità…  Serve una pietra di paragone. Insomma, per farla breve, trascorrere dalla sofferenza  alla  gioia.  Cosa vogliamo dire in concreto? Che, ad esempio, il Novecento ci ha regalato tra il 1914 e il 1945 un non breve  periodo di anormalità. Invece, il primo quindicennio del Ventesimo Secolo  brilla per la sua normalità.  Come possono essere definiti tali gli  otto  lustri (grosso modo, 1948-1991)  seguiti alla Seconda Guerra Mondiale.  Meno normale, per contro,  il primo quindicennio del Ventunesimo Secolo, apertosi con l’abbattimento terroristico  delle Torri Gemelle:  quindicennio, questo sì, lungo,  perché iniziato con la Prima  Guerra del Golfo...  
Quindi  normalità pace, anormalità guerra? Non proprio, perché i periodi “normali”, appena ricordati, da molti storici sono giudicati di “preparazione” alla guerra, e quindi non del tutto normali.  Eppure le persone  - come del resto  negli anni Venti-Trenta  -  si divertivano, amavano, lavoravano, si sposavano,  pianificavano il futuro.   Tutto appariva loro normale.  Dove era e dov'è,  allora, il punto  discrimine tra normalità e anormalità sociale?  Forse, non esiste.  Certo, esistono dati  statistici che indicano, per il Novecento, un costante miglioramento  della "quantità-qualità" di vita. Dati però  non condivisi da tutti,  di regola,  interpretati dai diversi attori  attraverso le lenti dell’ideologia: alla maggiore durata della vita in Occidente, si oppone, la minore durata  nel resto del mondo; ai progressi nelle tutele del lavoro in Occidente, si oppongono le pessime condizioni in cui versano i lavoratori  di  altri continenti. E così via.
Allora va tutto male?  O tutto bene? La normalità sociale esiste o non esiste? Diciamo, semplificando, che non si può essere tutti felici  (nei  termini di alcuni  indicatori ricordati)  nello  stesso momento.   Perciò mentre alcuni sguazzano nella normalità altri  affogano nell’anormalità… C’est la vie..  Il che spiega i buchi neri dell’insoddisfazione di alcuni e della soddisfazione di altri.  Qui però  si apre un problema etico.  Perché, come si sostiene, la nostra normalità dipenderebbe dall’anormalità di altri: un fatto increscioso da modificare subito  redistribuendo la ricchezza,  come si diceva un tempo, dal Nord  ricco al Sud povero. Anche qui però le strade si dividono. Perché, secondo i sostenitori del capitalismo, il mercato alla lunga, redistribuirà secondo il  merito (economico), favorendo gradualmente l’elevamento sociale di tutti (Nord e Sud), pur a livelli diversi;  per altri invece, gli anticapitalisti,  il mercato potrà solo accrescere le diseguaglianze (economiche, interne ed esterne), di qui la necessità, per evitare che pochi  divengano sempre più ricchi e molti sempre più poveri,   di correggerlo radicalmente o abolirlo del tutto.
Chi ha ragione? Dipende. Da che cosa?  Non tanto  dall’ idea di normalità (pro o anti capitalista) che eventualmente si condivida.  Allora? Dall’accettazione o meno, ripetiamo,  di una semplice  verità,  in fondo di senso comune (basta guardarsi intorno),   che non si potrà mai essere felici tutti insieme nello stesso momento.  La felicità è sempre a spicchi.  Spicchi temporali. Se qualcuno ride, qualcun altro piange.  Non si potrà  mai ridere o piangere a comando: per così dire,  piaccia o meno, esiste la mano invisibile del tormento e della gioia.  Il pianto però, come si diceva all'inizio, ci fa capire il valore del riso. O almeno dovrebbe.

Carlo Gambescia                     

  

lunedì 30 marzo 2015

Le intercettazioni 2
 Arma dei Carabinieri (*)
Nucleo di Polizia Giudiziaria di [omissis]
VERBALE DI INTERCETTAZIONE DI CONVERSAZIONI O COMUNICAZIONI
(ex artt. 266,267 e 268 C.P.P.)
L'anno 2015, addì 22 del mese di gennaio, in [omissis] presso la sala ascolto sita al 6o piano
della locale Procura della Repubblica, viene redatto il presente atto.
VERBALIZZANTE
M.O Osvaldo Spengler
FATTO
Nel corso dell'attività tecnica di indagine svolta nell'ambito del p.p. n. 19195105 R.G.N.R. -R.R.I.T. nr. 272107, [Operazione “PANNA PULITA”, N.d.V.] è stata intercettata, in data 20/01/2015 ore 18.09.36, una telefonata intercorsa dall'utenza n. 335*** in uso a SPINACCI LEONIDA [noto come “Il Re della Panna Montata”, N.d.V.] , in atti del procedimento generalizzato, sull'utenza n. 334*** in uso a CIPOLLINI GIOVANNI [Presidente di Corte d’Appello presso il Tribunale di omissis, ”, N.d.V.], contraddistinta dal progressivo nr. 74.
Si riporta di seguito la trascrizione integrale della conversazione su menzionata:

[omissis]

SPINACCI: “Tu dirai che sono un coglione.”
CIPOLLINI: “Ma dai, Leo…”
SPINACCI: “Eppure guarda, Giovanni, non me ne frega niente. Niente, zero, meno di zero.”
CIPOLLINI: “Da quanto ci conosciamo? Eh? Lo sai che a me puoi dire tutto.”
SPINACCI: “Non c’è un cazzo da fare, ‘sta ragazza mi ha preso, cosa vuoi che ti dica.”
CIPOLLINI: “Che ragazza?”
SPINACCI: “Non la conosci. Ha 25 anni, ti rendi conto?”
[lunga pausa]
CIPOLLINI: “Leo? Leo, sei ancora lì?”
SPINACCI: [profondo sospiro] “Con quegli occhioni da cerbiatta…e quando sorride? Quando sorride, Giovanni, si vede il suo dentino storto, mi fa una tenerezza…e poi intelligente, cosa credi?”
CIPOLLINI: “Ma veramente io non…”
SPINACCI: “Intelligente ti dico! Ci si può parlare di tutto, non so, anche dell’azienda…di quello stronzo di mio figlio, lo sai quanti casini mi fa, bè, ecco, se ne parlo con lei mi sembra…[pausa] Dai, dimmi la verità. Pensi che sono un coglione.”
CIPOLLINI: “Hai presente Tolstoj?”
SPINACCI: “Chi cazzo è ‘sto Tolstoj? Non ci lavoro io coi russi. ”
CIPOLLINI: “Ma no, lo scrittore, sai Guerra e pace…”
SPINACCI: “Ah sì, ho visto il film. Ma che…”
CIPOLLINI: “Secondo te era un coglione Tolstoj?”
SPINACCI: “Ma non lo so, cosa me ne frega…”
CIPOLLINI: “NON era un coglione, era uno scrittore immenso. Bè: a ottant’anni, Tolstoj si è messo a correre dietro a una sedicenne.”
SPINACCI: “Grazie! Avrei ottant’anni io?”
CIPOLLINI: “Per dire. Lo so quanti anni hai, eravamo in classe insieme. Voglio dire che in queste cose, l’età non c’entra niente.”
SPINACCI: “Sì, è vero. [pausa] Mi piace troppo, Giovanni. Questa settimana l’ho vista quattro volte, ti rendi conto? E quando torno a casa, canto! Canto…”
CIPOLLINI e SPINACCI [in coro] “Volareee…oh oh…cantare, oh oh oh oh…
[risate]
CIPOLLINI: “E allora ti fa bene, no? Dai, Leo! Goditi un po’ la vita, perché ti fai il sangue amaro?”
SPINACCI: “Sai come la chiamo?”
CIPOLLINI: “Come la chiami?”
SPINACCI: “Fiamma, la chiamo. Lei si chiamerebbe Pamela, ma Fiamma mi sembra più… perché mi…non so, mi accende dentro un…”
CIPOLLINI: “Bella la giovinezza, eh Leo?”
SPINACCI: “Cazzo se è bella! Mi fa una pippa, la cocaina, mi sento come…”
CIPOLLINI: “Eh…[sospiro]
SPINACCI. “ [lungo sospiro] Eh. Sai cosa?
CIPOLLINI: “Cosa?”
SPINACCI: “Mi piacerebbe fartela conoscere. Cioè, con discrezione, eh? Per poterne parlare con te, che sei un amico…Anche per lei, che in questa situazione un po’ così, sai…”
CIPOLLINI: “Certo, capisco.”
[pausa]

SPINACCI: “Bè, che ne dici?”
CIPOLLINI:  [pausa] “E per il…?”
SPINACCI: “Duemila.”
CIPOLLINI: “Però.”
SPINACCI: “Vale la pena, Giovanni. Stai tranquillo che vale la pena.”
CIPOLLINI: “Va bè, se me lo garantisci tu…”
SPINACCI: “Mi ringrazierai. Ce l’hai un pezzo di carta?”
CIPOLLINI: “Dai.”
SPINACCI: “338*** [omissis] Però, Giovanni…”
CIPOLLINI: “Dimmi.”
SPINACCI: “Non la chiamare Fiamma. Fiamma…”
CIPOLLINI: “…Per chi mi prendi? Fiamma è tua.”
SPINACCI: “Sei un amico. Mi ha fatto bene, questa chiacchierata.”
CIPOLLINI: “Ma dai! Cosa ci stanno a fare gli amici?”

Letto, confermato e sottoscritto
L’UFFICIALE DI P.G.
M.o  Osvaldo Spengler





(*) "Trattasi" -   tanto per non cambiare stile,  quello  della  Benemerita...  -   di ricostruzioni che sono  frutto della mia  fantasia di  autore e commediografo.  Qualsiasi riferimento  a fatti o persone  reali  deve ritenersi puramente casuale. (Roberto Buffagni)


***

Chi è il  Maresciallo Osvaldo Spengler?  Nato a Guardiagrele (CH) il 29 maggio 1948 da famiglia di antiche origini sassoni (carbonai di Blankenburg am Harz emigrati nelle foreste abruzzesi per sfuggire agli orrori della Guerra dei Trent’anni), manifestò sin dall’infanzia intelletto vivace e carattere riservato, forse un po’ rigido, chiuso, pessimista. Il padre, impiegato postale, lo avviò agli studi ginnasiali, nella speranza che Osvaldo conseguisse, primo della sua famiglia, la laurea di dottore in legge. Ma pur frequentando con profitto il Liceo Classico di Chieti “Asinio Pollione”, al conseguimento della maturità con il voto di 60/60, Osvaldo si rifiutò recisamente di proseguire gli studi, e si arruolò invece, con delusione e sgomento della famiglia, nell’Arma dei Carabinieri. Unica ragione da lui addotta: “Non mi piace far chiacchiere .” (Com’è noto, il carabiniere è “uso a obbedir tacendo”). Mise a frutto le sue doti di acuto osservatore dell’uomo in alcune indagini rimaste celebri (una per tutte: l’arresto dell’inafferrabile Pino Lenticchi, “il Bel Mitraglia”). Coinvolto nelle indagini su “Tangentopoli”, perseguì con cocciutaggine una linea d’indagine personalissima ed eterodossa che lo mise in contrasto con i magistrati inquirenti. Invitato a chiedere il trasferimento ad altra mansione, sorprese i superiori proponendosi per la sala ascolto della Procura di ***. Richiesto del perché, rispose testualmente: “Almeno qui le chiacchiere le fanno gli altri.”

domenica 29 marzo 2015

Povero elettore di destra
Vota Antonio, vota Antonio...




Oggi come oggi -  domenica  29 aprile 2015 -   un uomo di destra (la destra che non ha nulla a che vedere con i rottami del neofascismo, of course) non sa proprio a che santo votarsi.
Politica economica interna: Landini, scende in piazza a Roma  perché vuole più stato e più tasse; Renzi, dice di volere meno stato e intanto aumenta le tasse; i diadochi di Berlusconi, auspicano  meno tasse e meno stato, però alcuni di loro governano con Renzi, altri sono all’opposizione (pur nazareneggiando),  ma tutti insieme ogni volta che s'incontrano litigano (Lega inclusa), e non si è ancora capito bene perché;  Grillo, né di destra né di sinistra (così dice),  è di uno statalismo assoluto (superiore a Landini e  Renzi messi insieme).  
Politica estera: tutti i partiti, dalla sinistra alla destra (Presidente della Repubblica incluso, via “Le Figaro”),  dichiarano di voler contrastare  Isis  e immigrazione selvaggia  a colpi di marce, buoni pasto e coriandoli.  Proprio oggi  Renzi è volato a Tunisi per “manifestare”…
Le posizioni tornano invece  a dividersi sulle questioni dei diritti civili, del politicamente corretto, dei temi, cosiddetti, etici, eccetera. Dove però  non c’è  ciccia… Sicché  le chiacchiere, spesso inutili (perché in fondo si tratta di foro privato),  abbondano.  Tanto sono a costo zero. E poi ripetiamo non c’è la ciccia del denaro da spartirsi e quella umana, reale dei soldati che tornano nelle bare imbandierate. Da gestire. 
Il lato paradossale dell’intera questione  è che dove lo stato dovrebbe essere forte  (in politica estera) sparisce, si eclissa  mentre dove lo stato  dovrebbe essere debole (politica economica interna) riappare e impazza… Ergo: chi sia destra, come dicevano, non sa più a che santo votarsi…  E poi dice che uno vota Antonio, vota Antonio…   


Carlo Gambescia     

sabato 28 marzo 2015

Da domenica 29 marzo, lancette avanti di un’ora
A che serve  l’ora legale?



Domenica notte  torna l’ora legale. Ogni anno, chi scrive, si  pone la stessa domanda: ma a che serve l'ora legale? E in tempo di pace?  Una misura che ci riporta indietro  alle due guerre mondiali? Quando si doveva canalizzare tutta  l’energia  nello sforzo militare? 
L’ora legale è un residuato bellico. Sul serio. Un rottame che sconvolge, come comprovato dagli studi medici, le lancette biologiche dell'uomo, senza  influire in maniera rilevante, in termini di risparmi crescenti,  sulle attività economiche (*).  Per dirla brutalmente: una pericolosa buffonata paternalistica che pretende, in nome del bene comune, di dettare il corso della vita umana, allungando e accorciando la durata delle giornate. Un misura degna di quel centralismo, come dire,  sadico,  largamente praticato dall’Unione Europea.
Eppure i cittadini non protestano. Perché?  Masochismo. Dove c’è un carnefice, c’è una vittima, che in qualche  modo autogiustifica la sua condizione: “ È per il nostro bene”,  “Si fa così, perché si è sempre fatto così”, e via discorrendo.  Purtroppo,  l’idea di bene comune è una pericolosa scatola vuota: la si può riempire di qualsiasi cosa.  Facilita il centralismo politico. Che, a sua volta,  disabitua alla libertà, al rischio, alla responsabilità individuale, favorendo l’obbedienza sociale, anche verso autorità politiche indegne di meritarla.  E  così il cerchio si chiude.
Ciò però  dovrebbe far riflettere sul perché della costruzione delle piramidi. Perché meravigliarsi della mansuetudine  bovina  degli antico popolo  egiziano.  Anche le piramidi come l’ora legale,  erano rivolte  all’edificazione simbolica  di  una qualche  idea di  bene comune. Che poi tale idea,   rinvii alla  grandezza riflessa di un  faraone o  al  potere eccessivo di un pugno di burocrati europei, autoproclamatisi, servitori del bene comune,  indica solo che  i meccanismi dell’obbedienza collettiva  non conoscono  frontiere storiche.  Insomma, fanno  a meno delle lancette dell’orologio…

Carlo Gambescia   



(*) http://heure-ete.net/ached.htm                 

venerdì 27 marzo 2015

La tragedia dell’airbus della Germanwings
La prima  catastrofe europea. Anzi la seconda, dopo l’Euro…


 Dal punto di vista sociologico il suicidio, benché studiato fin dalle origini della disciplina, resta un mistero. A maggior ragione, come nel caso del "copilota killer", oggi tristemente sulle cronache,  rimane difficile capire, non solo il perché di una scelta anticonservativa per eccellenza, ma  del   trascinare  con sé nella morte,  centocinquanta persone. Si potrebbe parlare, per dirla con Durkheim, di suicidio egoistico a sfondo antisociale, con pendant anomico.  Ma, ripetiamo, così da “lontano” è difficilissimo avanzare qualsiasi  classificazione precisa.
Più interessanti, e più facili da comprendere  sono le reazioni sociali al disastro.
In primo luogo, il rituale politico: la presenza, immediata, delle massime autorità dei principali paesi coinvolti,  ha simbolicamente rubricato, in termini di coinvolgimento collettivo,  l’evento a catastrofe (aerea)  europea. Il che è un fatto nuovo.
In secondo luogo,  l’esorcizzazione organizzativa:  la domanda  -  basta scorrere i giornali -  di maggiore sicurezza e controlli  sull’equipaggio, sia psichici ( visite mediche  più frequenti e più  rigorose)  che materiali ( piloti mai più soli al comando). La classica richiesta "perfettista" (per alcuni "modernista") di riduzione o azzeramento del rischio.
In terzo luogo, l’elaborazione mediatiatizzata del lutto: all’evento i mezzi di comunicazione sociale hanno dato la massima copertura interrogandosi intorno alle circostanze e alle cause del disastro, focalizzando l’attenzione sulle vittime, sui loro  parenti e sulle questione legate alle sicurezza. Si potrebbe parlare, per i media.  di un approccio  gravitante tra l’esorcizzazione organizzativa e il rituale  simbolico-politico. Come sempre, vagamente schizofrenico.
In quarto e ultimo luogo, la ricerca del capro espiatorio:  fin dall’inizio, a livello politico-mediatico,  si è cercato di designare  “il” colpevole, avanzando alcune ipotesi, a forte carica simbolica:  prima  la “compagnia area low cost”,  poi il “terrorismo”,  infine il “pilota folle”. Nonostante l' ingentilimento dei costumi,  nei momenti topici,  la brutale ricerca del  "deviante" (collettivo o individuale) da crocifiggere, a torto o ragione,  si riaffaccia sempre. 
Riassumendo,  sotto il profilo sociologico, la reazione collettiva al  triste evento ha seguito i prevedibili canali dell’esorcizzazione organizzativa, dell’elaborazione mediatizzata del lutto,  del capro espiatorio.  Purtroppo, anche nelle circostanze più sfortunate,  il comportamento collettivo tende a seguire schemi iterativi, che tendono a ripetersi. Ciò però, permette, quando si presentano,  di individuare i  fatti nuovi. E questa volta  ce  n’è uno,  collegato al rituale politico: siamo davanti alla prima catastrofe (aerea) europea, celebrata politicamente.  Anzi la seconda, dopo l’Euro... 
Carlo Gambescia 


                                                                              

mercoledì 25 marzo 2015

Le clarisse, il Papa e la Littizzetto
Madri, perché non porgere l’altra guancia?



Tutti, o quasi, abbiamo visto il surreale  intermezzo  delle suore di clausura napoletane,  festanti, forse troppo, intorno al Santo Padre. Scontata perciò la facile battuta della Littizzetto:  "Non si capisce perché erano tutte attorno al papa, se perché non hanno mai visto un Papa o perché non hanno mai visto un uomo".  Purtroppo, sulle suore, nell’immaginario non solo anticlericale, ma della gente  comune, aleggia tuttora una “leggenda nera”  In realtà -  e non è necessario scomodare la sociologia -  chiunque  abbia  frequentato le suore non può non apprezzarne il candore e la spontaneità, talvolta irrefrenabile, infantile (nel senso buono del termine),  surreale, soprattutto in “libera uscita”:  bambine gioiose,  capaci però, come  attesta la "martirologia", anche contemporanea, del supremo sacrificio.   
Meno scontata o forse no (considerato lo stato confusionale in cui versa la Chiesa Cattolica) la  replica della clarisse,  ovviamente attraverso il Social Network: “Ci dispiace che la sig. Littizzetto, che abbiamo apprezzato in altre occasioni, abbia pensato che le ’represse monache di clausura stessero aspettando il Papa per abbracciare un uomo... probabilmente per fare questo avremmo scelto un altro luogo e ben altri uomini... se avessimo voluto...  Non sarebbe forse il caso, cara Luciana, di aggiornare il tuo manzoniano immaginario delle monache di vita contemplativa?????".  
Che bisogno c’era? Perché non scegliere  il silenzio?  La Littizzetto, con quelle battute vive, anche bene. E per giunta,  rispetto ai buffoni di corte di un tempo  non rischia niente.  Anzi.  
Un comico  resta un comico, come una suora di clausura rimane ( o dovrebbe rimanere) sempre tale. Tra le due figure, al di là della carità cristiana, non può esserci ponte.   E poi, perché rispondere, come dire, “da sinistra”?  “Probabilmente per fare questo avremmo scelto un altro luogo e ben altri uomini... se avessimo voluto “…  Tentando, come studentelle presuntuose, di superare il  professore. O detto altrimenti:  di essere  più realiste del re, anzi della Regina. Dei buffoni di oggi, i comici televisivi.  
E così, addio silenzio,  candore,  eccetera, eccetera.  Mentre sarebbe bastato, semplicemente,  porgere l’altra guancia…  

Carlo Gambescia       

martedì 24 marzo 2015

Claudio Ughetto,   Nuova Destra e  teoria del Gender
Discorso sul metodo


Ringraziamo  Claudio Ughetto (nella foto)  per l’attenzione che riserva ai nostri scritti. La sua stima  -  sincera -  è  un onore.  Claudio scrive molto ma pubblica poco.  Il che non sempre è un male, soprattutto oggi.  Perfezionista, ragionatore è un agguerrito scalatore solitario dell’animo umano. Anche della mente. Forse,  soprattutto della mente (il cervello è un’altra cosa…).
Non faccio dell’ironia:  i posteri, un giorno,  potrebbero riscoprirlo. Conservi con cura le sue carte.
Ieri ci ha colpito una sua osservazione sulla nostra comune esperienza politica e culturale: 

“Credo che non sarei arrivato a un così drastico distacco dalla cosiddetta Nuova Destra, pur nella inevitabile differenza di alcuni punti di vista, se non fosse stata per questa recente insistenza sul complotto omosessualista e gli sprechi di carta sulla teoria del Gender. Dopo anni e anni di università e saggi folgoranti, l'imbarazzante trincerarsi in una battaglia di retroguardia che si poteva lasciare ai cattolici fondamentalisti”

Giusto.  Criticare la teoria del Gender (antimetafisica e ipersociologica per eccellenza),  dopo aver difeso il  politeismo cognitivo (altrettanto viralmente decostruttivista) è  profondamente contraddittorio. Parliamo di pre-assunti  epistemici, quindi voliamo alto: non ci interessa la telenovela metapolitichese. Come giustamente intuisce Claudio: sono battaglie da monoteismo cognitivo. Non entriamo nel merito dei contenuti. La nostra è un’osservazione di metodo.
Sui “saggi folgoranti”, visti con gli occhi di oggi, avremmo però qualcosa da ridire. Sulle logiche del  capitalismo,  i francofortesi (certo, li si deve conoscere a fondo…) hanno praticamente detto tutto, dopo Marx si intende .  L’originalità filosofica -  e  sottolineo filosofica - della ND (francese, in pratica solo di Alain, praticamente nullo l’apporto della ND italiana),  consisteva  all’epoca - pensiamo in particolare alla fine degli anni Ottanta inizio Novanta, età aurea -   nell’avere tentato di  coniugare, partendo da destra (qui l'originalità "intraspecifica"), Heidegger  e Marx (riletto attraverso le lenti francofortesi) in un’ottica postmoderna, in chiave relativistica, una “bomba cognitiva”: la sociologia di Marx con la critica alla metafisica di Heidgger (sul ruolo di Preve, pensatore fortemente contaminato da Hegel,  per ora sospenderei il giudizio). Insomma, anche qui però, preferiamo  non entrare  nel merito dei  contenuti: solo metodo e coerenza  nel metodo. 
Sicché perso il metodo, perso tutto. Il che spiega certe battaglie di retroguardia. Soprattutto di  coloro che le battaglie di avanguardia le avevano combattute, più di trent'anni fa,  lavorando di soffietto.


Carlo Gambescia

    

lunedì 23 marzo 2015

Il  giornalismo post-aennino  sta tornando all'antico...
Il meta-menabò 




Si dirà, ma chi se ne importa  sono quattro gatti,  non contano niente.  Giusto.  Però ci sono cose che vale la pena sapere.  Una di queste è che  esiste un  “meta-menabò”  -  Umberto Eco parlerebbe di  “Ur-menabò”  -    che impronta serialmente  la produzione giornalistica  dell’ estrema destra:  quella però sulla vena, che per ora  non si dichiara esplicitamente fascista, che fa largo uso del punto interrogativo.  Insomma, che dice e non dice...  E  che ingloba  i  post-aennini, ormai politicamente disoccupati. Un mondo alla deriva che sembra aggrapparsi  alle antiche certezze.  In fondo, nonostante gli sdoganamenti,  non è  mai facile dimenticare il primo amore.  Per scoprire questa marcia del gambero basta fare un giretto on line. E così catturare umori, tic, parole d'ordine. Stilemi di pensiero, insomma.  Pronti a tradursi in titoli, articoli e quant'altro.  Il meta-menabò che segue, ne è il distillato. Il "modello unico"  della rivista post-aennina,  nel senso, del letta una, lette tutte.  Parliamo di una rivista "tipo" che non nasconde  l'ambizione di fare opinione... Insomma, che  si pavoneggia. Ovviamente intramoenia. E si vede.

Meta-menabò

Editoriali:
Contro i "poteri forti". Dalla parte del popolo. Alle radici del nostri valori.
Sovranismo. Mussolini aveva ragione?

Esteri
Francia:  L'archeofuturismo di Marine Le Pen 
Russia:  Un baluardo contro  i gay.
Medio Oriente:  Hamas si ispira alla Giovane Italia.
Vaticano: Juan Domingo Francesco, un Papa peronista?
Europa e minoranze nazionali: Attualità dell'esperienza fiumana.
Stati Uniti: La calda notte dell'ispettore Obama. 


Italia
Marò: "Quando l'ignobil Otto di Settembre..."
Foibe: La testimonianza  postuma di Ante Pavelić, mazziniano croato e amico degli italiani.
Politica: Renzi, il  badogliano. 


Economia/Speciale Lavoro
Perché un immigrato deve guadagnare più di un italiano?
Dibattiti: Corporativismo o socializzazione?

Cultura 
La destra e il suicidio politico: Yukio Mishima,  Dominique Venner, Gianfranco Fini.   
Storia/ Lo sbarco alleato in Sicilia: Quel mafioso del Generale Patton.
Libertarismo/ Giovanni Gentile, l’ anarcostatalista.
Fumetti/Il Codice Penale Rocco e il Sor Pampurio.
Cinema/Parla Alvaro Vitali:  "Berlinguer e Almirante amavano il mio  Pierino".
Fantasy/ Inediti: quella volta che Tolkien trovò il tabaccaio chiuso.

Fondamenti
Julius Evola precursore di Anonymous?
Hitler e Mussolini, alle origini di una amicizia personale. Nuovi documenti.
Berto Ricci, morire in piedi.
Nicola Bombacci: una parabola esemplare.

Interviste 
Massimo Fini: "Gli Usa, il nemico".
Diego Fusaro: "Il Capitalismo, il nemico". 
Franco Cardini: "L’Islam, l’amico".  
Pietrangelo Buttafuoco:  "Salvini?  Un gigante politico, deve solo scoprirlo. E io lo aiuterò".  
Donna Assunta Almirante: "C'è un grande passato nel nostro futuro".
Marcello Veneziani: "Il mio destino è quello di essere un intellettuale scomodo".

E così via.  Abbiamo strappato qualche sorriso? Meglio così.  Il riso fa buon sangue. Però, al di là delle battute, si può ritenere che dopo venti anni di "libera uscita", i famigerati topolini, stiano riavviandosi verso le fogne... 

Carlo Gambescia


sabato 21 marzo 2015


Pasolini?  
Solo un comunista al caviale



 «Un grido d'allarme lucido e disperato sull'inevitabile declino della nostra civiltà, che alla luce degli avvenimenti odierni suona straordinariamente profetico» (*).   Quando leggiamo   cose del genere ci  incazziamo  (pardon, per la caduta di stile).   Perché non se ne può più:  uno,  delle lamentazioni dei dolenti necrofori del pasolinismo; due,  del piagnonismo fuori corso di uno scrittore (e tante altre cose, troppe) più datato di un film di Rosi.    
Chi era Pasolini? Un comunista che ci teneva ad essere chiamato dottore (e lo era, per carità). E artisticamente?  Un paio di  romanzi discreti, qualche verso decente,  drammi tetragoni,  film  barocchi  (eccetto il primo): tutta roba inguardabile. Oggi più mai. E l'editorialista?  Da cancellare:  un tramarolo che aveva  letto Leopardi. Senza però diventare progressivo (nel senso luporiniano).    Un miscuglio, per attualizzare, di “Quarto Grado” e “Chi l’ha visto?".    Alla fin fine,  Pasolini dei Lumi, a parte quelli  del suo egocentrismo, se ne  fregava:  un nemico della modernità che immaginava  immensa e rossa  ma senza sviluppo  e consumi (**).  Roba, da falce e mirtillo. O se si  preferisce: l'ennesimo e inutile tentativo di far  quadrare il cerchio del comunismo. Roba da anni Cinquanta-Sessanta, da teste d’uovo  nasseriane. Fuori commercio. Un intellettuale  terzomondista?   Forse,  anche se  girava in  Alfa Romeo GT 2000. Un uomo pieno di contraddizioni?  No, solo un comunista al  caviale. P.S. Un consiglio ai necrofori di cui sopra: storicizzatelo e poi spegnete la luce. 

   Carlo Gambescia 



venerdì 20 marzo 2015

La strage di Tunisi. È in gioco il nostro sistema di vita
Che si aspetta?

Il  "crociato" italiano "schiacciato"... 

Che  L’Europa, anche se più corretto parlare di Occidente (poi spiegheremo perché), "schieri" per ora i suoi "pensionati-crociati",  mostra   quel  lato tragicomico che contraddistingue, da sempre, la  storia umana.  Non solo però: la strage di turisti attempati,  nel bene e nel male,  rappresenta la sintesi, quasi in modo plastico,  di due  opposte evoluzioni sociali.
Da un lato,  l’Occidente e il suo pacifico, gioioso, divertito e divertente  sistema di vita,  dall’altro un Islam guerriero, feroce e totalmente incapace, come ha tristemente provato, di qualsiasi autoironia.  
Non è questo  il momento  della ricerca ragionata della cause interne ed esterne della grave situazione, ponendo quesiti pur interessanti:  perché noi  siamo così?;  perché loro sono così?; chi ha cominciato per primo?; è proprio vero che noi siamo così pacifici? e loro così crudeli?; eccetera, eccetera.
Insomma, sospensione del giudizio. Qui, sono in conflitto due sistemi di vita opposti. Punto.  Si può criticare  il welfare, la corruzione politica e dei costumi,  il troppo mercato, il poco mercato, quel che invece non va ora  criticato, anzi accanitamente difeso è il nostro sistema di vita basato sulla libertà, dall’Europa agli Stati Uniti (ai paesi in via di modernizzazione): l'Occidente.  Una libertà sconosciuta ai nostri nemici, libertà che verrebbe conculcata se essi  dovessero vincere.  Quindi  remare contro, soprattutto sul piano politico, dispiace dirlo (perché sembra, anzi è una frase fatta, tristemente fatta, ma è così):  significa fare il gioco del nemico. Non è il momento dei dubbi, a destra come a sinistra.
Ovviamente, le guerre -  perché di questo si tratta -  non possono essere prese alla leggera. Non servono le fanfare né il bellicismo da quattro soldi ( o solo  quel tanto che basta per una "sana" contro-propaganda).  Come gli esperti sanno,  esiste un  meccanismo di escalation politico-militare: controlli antiterroristici ai confini,  blocco economico e  navale, armamento e  addestramento  delle truppe delle nazioni  amiche o alleate  in Africa e Medio Oriente, controllo militare indiretto delle zone calde, intervento  militare diretto, aereo e/o di terra.  
Quel che non si deve assolutamente fare,  è fingere che non stia succedendo nulla.

     
Carlo Gambescia                     

giovedì 19 marzo 2015

Il libro della settimana: Julius Evola, Il rientro in Italia (1948-1951), a cura di Marco Iacona, Mimesis/Filosofie , Sesto San Govanni (MI) 2014, pp. 258, Euro 20,00 .


Questo volume  (Julius Evola, Il rientro in Italia (1948-1951), Mimesis/Filosofie), a cura di Marco Iacona,  rischia il  "silenziamento".   E non per demeriti del libro o del curatore, siciliano (di Catania) colto, riflessivo, aguzzo.  Ma per un motivo  molto semplice:  l’Introduzione (86 pagine 86): un uppercut a Evolandia, roba da getto della spugna.   Sicché,  conoscendo l’ambiente culturale della destra radicale, così omertoso da preferire alla spada il veleno della maldicenza, non  resta difficile intuire che sulla raccolta, magari dopo averla lasciata annaspare, potrebbero richiudersi le acque... Tradotto: zero recensioni, rapsodici richiami al curatore, previa sua  liquidazione  per   delitto di lesa maestà intellettuale nei riguardi del Barone.   Sorpreso da Iacona al suo rientro in Italia, emiplegico,  stralunato,  incattivito,  ostile   più  che mai  al  mondo  moderno. E  sul punto,  causa disastrosa sconfitta bellica,  di accingersi a  sorseggiare -  lui, il futuro "Marcuse della Destra" (Almirante docet ) - l’amaro calice  dell’ americanizzazione-sovietizzazione del  mondo:  le  facce  della stessa medaglia,  l’anti-Tradizione.  Insomma, un Evola, idealmente in  piedi,   tra le rovine.  Ma in mutande.
In qualche misura,   il lettore si ritrova fra le mani due volumi:  1) il saggio a dir poco tranchant di Iacona , dove si  prova a  parlare alle anime inquiete, seminando giustifcati  dubbi sulla  reale levatura intellettuale del Maestro, certamente considerevole, ma non al punto  di ascendere ai  livelli himalayani dei grandi protagonisti della filosofia novecentesca, italiani e non; 2)  un’ antologia dal retrogusto feticista (solo "n'anticchia" diciamo...), che forse suo malgrado strizza l'occhio ai Tafazzi del saluto romano; dove sono  raccolti  gli articoli giornalistici (1949-1951, tutti?) di un Evola che si autobignamizza, alcuni carteggi, nonché gli atti del Processo contro i Far (integrali?). Giudizio che vide il Barone imputato per apologia di Fascismo; una telenovela:  prosciolto,  condannato, amnistiato.  Insomma, ce n’è per tutti i gusti. Ciò significa che al silenzio rancoroso della destra,  potrebbe corrispondere la  chiassosa attenzione  della sinistra.  Quindi  -  caro Editore -   non tutto è perduto.    
Chi era Evola?   Qui Iacona porge coraggiosamente  il petto al  plotone di esecuzione, composto di inferociti  evoliani, evolomani e quant’altro  girava, gira e girerà  nel   pittoresco mondo  della destra antisistemica: «Evola è un italiano-tipo, rispettosissimo delle autorità. Intransigente verso gli altri, generoso verso se stesso. Più fazioso che ribelle. Eccessivo, raramente misurato. A onor del vero, certo inappagamento cronico e un carattere concreto e riflessivo (allo stesso tempo) insaporiscono un anticonformismo di tutto rispetto. Nell’esatto momento in cui discorre di metafisica o tratta argomenti meno impegnativi di rigorosa attualità, per così dire a misura d’uomo (…) Batte numerosi sentieri, “educa” a certa interdisciplinarietà. Non è elegante quanto Scaligero ma più sottile» (p. 13).  Così e cosi...
E la politica?  Qui Iacona  ricorre al machete  del professor  Piero Di Vona,  altro sottilissimo studioso anti-mainstream: « Con Evola siamo ben lontani da quella idea della politica attribuita dagli storici a Machiavelli, che la vede  come autonoma ed indipendente da altre discipline, compresa la morale. Al contrario la politica per Evola dipende strettamente dalla sue idee sapienziali, misteriosofiche o esoteriche, comunque si voglia chiamarle. Insomma quel che si rischiava era una teocrazia  - o qualcosa di simile -  su “modello” precristiano» (p. 19).  Guerre stellari...
Giustificatissima,  infine, la staffilata agli esegeti o presunti tali. Scrive Iacona: « I tifosi considerano Evola leader  di una “rivolta contro il mondo moderno”  - contro il pensiero liberale -   eppure gongolano per gli apprezzamenti provenienti  dal campo nemico (vedi la citazione ripetuta a più non posso relativa al giudizio di Benedetto Croce sulla filosofia evoliana). Come se fossero in attesa di legittimazione. o stesso atteggiamento per quanto riguarda   il processo ai Far. L’odiata democrazia manda assolto -  in primo grado -  un  acerrimo nemico?  O la democrazia non è nemica  o l’assoluzione solleva  non pochi dubbi. Sia come sia, per gli evoliani  quello pronunciato il 20 novembre 1951 non dovrebbe essere un giudizio accettabile. Ma è vero il contrario: le vie degli evoliani se non infinite sono senza dubbio incomprensibili» (p. 86).
E il  secondo libro  (gli articoli pubblicati,  eccetera)?  Mah… Più o meno, come accennato,  Evola, traduce giornalisticamente, in pillole,  come nota anche Iacona,  il suo pensiero maturato e pubblicato nelle  corpose opere di filosofia storica e politica  scritte  nei due decenni precedenti.   Chi già lo conosce, non vi  troverà  nulla di  particolarmente  originale ( a parte gli atti  del processo). Chi invece non lo conosce ancora,  potrà giovarsi di un reader evoliano.   Fermo restando l'interesse  di alcune tracce intuite da Iacona, come nelle pagine  dedicate  al corpo a corpo  tra Rivolta contro il mondo moderno e Orientamenti: due must filologici ( e ideologici) da approfondire.    
Quel che forse manca  -  non è una critica -   è l'estensione a  Evola e al mondo del radicalismo di destra  tra gli anni Quaranta e Cinquanta,  della  "formula"  Schivelbusch (La cultura dei vinti, il Mulino 2003, pp. 7-38 ).  Non che Iacona non provi:  nomi,  ambienti,  tic, divisioni ideologiche,  sono ben delineati:  il quadro rimane comunque ricco e  interessante. Però... Cosa intendiamo dire? Che  Evola & Co., forse  andavano indagati  puntando su una organica interazione, caso per caso,  tra le posizioni pubblicistiche e ideologiche degli "sconfitti"  e gli  schemi proposti dallo storico tedesco in argomento:   del “paese dei sogni” ( “Finalmente liberi”); del “risveglio” ( “Il nemico ci ha traditi”); “Vittorie immeritate” (sempre del nemico); dello  “Sconfitti sul campo ma vincitori morali” (quale fede nella propria superiorità); “Della vendetta e della revanche rispetto alla resa incondizionata” (“Pagherete tutto!”); “Del rinnovamento (morale) e della necessità di   apprendere  la dura  lezione  impartita dal  vincitore”.
Sarà per un’altra volta.

                 Carlo Gambescia                            

mercoledì 18 marzo 2015

A proposito del libro di Paolo Bonetti (*)
Il liberalismo di  sinistra e i suoi amici
di Teodoro Klitsche de la Grange

Paolo Bonetti



Di questo saggio  se  ne è già occupato Carlo Gambescia (**),  quindi ci limiteremo a proporre  alcune riflessioni. 
Breve premessa: il liberalismo di sinistra ha avuto in Italia la caratteristica di aver avuto sicuramente più influenza intellettuale che politica. Il che non significa che l’una sia stata tanta e l’altra poca: erano d’influenza relativamente modesta entrambe, ma la prima comunque superiore. E’ un fatto che personaggi illustri e nobili, e pieni d’idee nuove, come Gobetti, siano stati politicamente degli sconfitti o  come Bobbio (a volerlo considerare liberale, ma non del tutto), pur meno fecondi d’idee originali, abbiamo avuto in sorte di essere onusti di riconoscimenti accademici, ma poveri di “seguito” politico.
Come scrive l’autore nel definire il liberalismo di sinistra “…per capire una corrente politica e ideologica tanto varia e perfino contraddittoria nelle sue manifestazioni, occorre adottare criteri interpretativi che consentano di comprendere nel tipo ideale di sinistra liberale personalità e movimenti che, per determinati aspetti, potrebbero o dovrebbero essere definiti in altro modo, ma che, tuttavia, rientrano a buon diritto nel grande filone della tradizione liberale riformatrice come si è venuta configurando nella cultura e nella prassi politica europea e americana del Novecento: in questo senso, liberali possono essere chiamati anche il socialismo liberale di Rosselli e il liberalsocialismo di Calogero e Capitini, così come certe correnti (non tutte) del Partito d’Azione, la democrazia repubblicana di La Malfa, la variegata costellazione ideologica del gruppo del “Mondo”, il primo Partito radicale e taluni aspetti del radicalismo pannelliano, per concludere con la sintesi di Norberto Bobbio di costituzionalismo liberale e riformismo socialista”. Ma qual è il comune denominatore di tali correnti politiche? Scrive l’autore “la «libertà liberatrice», una concezione della libertà che non si chiude mai nella difesa delle istituzioni liberali così come si presentano in un determinato momento storico, ma mira a rinnovarle sotto la spinta di nuovi bisogni sociali e di nuove forme di vita comunitaria. Una libertà, insomma, espansiva ed inclusiva, che rifiuta di essere la semplice apologia dell’ordine liberale dato, ma vuole continuamente rinnovarlo per impedire che diventi il semplice tutore giuridico di ceti e gruppi variamente privilegiati”.

http://www.liberilibri.it/paolo-bonetti/226-breve-storia-del-liberalismo-di-sinistra.-da-gobetti-a-bobbio.html

Il libro termina con Bobbio, ossia, fatte le debite differenze di date, con la fine del comunismo e quella – in larga parte conseguente – della c.d. “Prima Repubblica”, cioè quando la sinistra liberale, quella come definita da Bonetti (cioè del “movimento”) si stava rimettendo in moto. Ad esempio con la segreteria del PLI di Altissimo fu posta chiara la necessità di rivedere la forma di governo della Repubblica, perché palesemente inidonea alla conduzione di uno Stato moderno e troppo incline a degenerazioni corporative e policratiche.
Due notazioni occorre fare: molte correnti che l’autore riconduce alla galassia liberale sono contraddittorie rispetto al senso della definizione che ne dà, siamo convinti che la sinistra liberale sia connotata (anche) dall’idea di “libertà liberatrice” e quindi di movimento sociale (concetto quest’ultimo necessariamente – perché nelle cose – comune ad ogni forza politica, anche nolente allo stesso). Ma è un fatto che spesso le correnti ricondotte da Bonetti alla sinistra liberale siano caratterizzate dalla difesa “senza se e senza ma” di una costituzione quanto mai datata, superata dalla conclusione della guerra fredda, e poco adatta a governare una società post-industriale. Cioè hanno mostrato l’avversione più radicale a ogni mutamento istituzionale, anche di portata non particolarmente rilevante. E quindi più che dal movimento, sono connotate dall’immobilismo.
Seconda notazione: sempre quelle correnti hanno mostrato di considerare quella costituzione come la “più bella del mondo” (affidandone lo svolgimento del tema – e giustamente – ad un comico).
Ma, a parte quel che ne pensino alcuni liberali, la realtà è che le costituzioni sono belle non tanto perché conformi a certi ideali, ma perché danno e conservano l’unità, la coesione e la possibilità d’azione politica di una comunità. Cioè perché sono adatte al popolo. Come scrive Cofrancesco nell’attenta postfazione, citando Cuoco “Se io fossi invitato all’impresa di dar leggi a un popolo, vorrei prima di tutto conoscerlo. Non vi è nazione quanto si voglia corrotta e misera, la quale non abbia dei costumi, che convien conservare; non vi è governo quanto si voglia dispotico, il quale non abbia molte parti convenienti a un governo libero”. Invece a molti, tuttora vocianti, è buono e bello, ciò che loro appare in linea con le loro opinioni soggettive: cioè che, come scriveva Hegel dei loro predecessori dell’epoca hanno sempre la testa “gonfia, gonfia di vento”. E povera di sostanza. E se ne vedono i risultati.
Teodoro Klitsche de la Grange



(*) Paolo  BonettiBreve storia del liberalismo di sinistra da Gobetti a Bobbio. Liberilibri 2014, pp. 217, Euro 16,50 (con post-fazione di Dino Cofrancesco).



Teodoro Klitsche de la Grange è  avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica “Behemoth" ((http://www.behemoth.it/ ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009),  Funzionarismo (2013).


martedì 17 marzo 2015

Manette a Incalza, Lupi nel mirino dei giudici
Grandi opere, meno stato più mercato




 Sembra che stia per scoccare l’ora di  Lupi.  Chissà se si dimetterà.  Si parla di un sistema corruttivo legato alla gestione degli appalti delle grandi opere. Grande scoperta.  
Ora i punti sono due.  Sono necessarie le grandi opere? Quanto stato può esserci nell'economia?
I due aspetti sono  collegati: le grandi opere sono infatti  legate a una visione interventista che designa nei poteri pubblici il principale motore dello sviluppo economico. In realtà,  un Ministero delle Infrastrutture (“un tempo “dei Lavori Pubblici) -  quello presieduto da Lupi e da molti altri prima di lui -   è roba vecchia,  da “dittatura per lo sviluppo”,  da paese  invia di industrializzazione.   Sicché, semplificando, una volta, superata  tale  fase eroica, quanto più si introducono controlli per i fondi erogati o da erogare, per le varianti  e quant’altro, tanto più crescono i rischi di corruzione e  concussione. Inoltre, nelle economie miste (pubblico-privato) si forma, per strati successivi,  una  zona grigia della relazionalità dove i rapporti di conoscenza, da fiduciari si trasformano regolarmente  in  corruttivi.
Si dirà,  allora chi controlla? Se si lascia tutto nella mani dei privati  non  si rischia il  Far West?     In realtà,   finora le economie miste, legate, come detto ai processi di industrializzazione (quindi a una fase precedente),  hanno prodotto, non solo in Italia,  corruzione e concussione. Che facciamo? Continuiamo  a farci del male?  Oppure è arrivato il momento di fare un passo indietro? Anzi avanti, aprendo al libero  mercato? 
Concludendo,  per rispondere alle domande iniziali. 
Uno, guardarsi sempre  da coloro, in particolare a sinistra (oddio, anche a destra...), che propongono di accrescere i controlli. Sono statalisti puri e semplici. Credono che, a parità di condizioni (economia mista),  basti la bacchetta magica del carcere o la "vaselina" della mitica trasparenza.  Mentre  sono proprio le condizioni, o se se si preferisce le tentazioni (che fanno l’uomo ladro),  che vanno  ridotte,  mutando  il quadro economico da “misto” a “privato”. Quindi meno stato.   
Due, quanto alla necessità delle grandi opere, una volta venuti i meno i finanziamenti  pubblici a pioggia,  anche il mercato delle “grandi opere” si autoregolamenterà: quelle utili per  i "consumatori"  (e perciò remunerative per i "produttori")  saranno promosse,  mentre  quelle inutili, bocciate.  Quindi più mercato.


Carlo Gambescia                     

lunedì 16 marzo 2015

Ora è il “turno” del look hipster
La moda?  Che fatica!


Sembra che ora sia  di moda lo stile hipster (*),  barba lunga e apparentemente incolta , abiti in vintage ricercato e posticcio, eccetera, eccetera.  Che succede? Nulla di grave.  Siamo davanti  all' ennesima filiazione di quell’atteggiamento blasé metropolitano, molto "liquido", già  individuato da Simmel  più di un secolo fa (proprio ieri si parlava delle “scoperte” di  Bauman…).
Simmel  ha insegnato, tra le tante cose,  che la moda impone di  essere diversi e uguali agli altri, ma al contempo.  Il che però  nella società di massa equivale a una pesante condanna vita. In un mondo ad alta densità collettiva, per essere sempre diversi  si deve  mutare aspetto (forma)  in continuazione, senza fermarsi mai, altrimenti si rischia di essere uguali ad altri diversi... Insomma,  il contenuto cambia ( le mode) , la forma (il dover essere alla moda) resta.  Et voilà!  Così abbiamo anche spiegato il succo della sociologia  simmeliana:  basata sull'analisi del contrasto  forma/contenuto.
Tornando alla moda.  Che fatica!   E intanto, tra un stile e l'altro,  la vita trascorre. E finisce, come per caso, tra un pro e un contro.  

Carlo Gambescia


sabato 14 marzo 2015

Le culture politiche italiane e il capitalismo
Ma quale controrivoluzione liberista…


Quando si parla di culture politiche italiane  è corretto distinguere tra il mondo accademico che produce ricerche teoriche, quando le produce, che regolarmente, tranne qualche eccezione, sono ignorate all’estero, e cultura politica vera e propria, nel senso di una cultura pratica  capace di  influenzare (condizionare  è parola grossa) la produzione legislativa.
Tuttavia, la distinzione  può valere fino a un certo punto.  Perché, quanto alla sua  appartenenza,  tutta la  cultura politica  italiana ( teorica e  pratica)  finisce per  suddividersi  in  due  grandi  filoni, il cattolico e il riformismo post-marxista, due placidi fiumi che spesso oggi si confondono,  cui si affianca  il  piccolo  rivolo liberale, accompagnato da altri  due ruscelletti, un tempo  impetuosi e gonfi d’acqua:  neocomunismo  e neofascismo. 
Preferiamo non fare nomi,  tanto li conoscono tutti. Però, tutte queste culture, eccetto quella rappresentata dall' ininfluente e litigioso gruppetto dei professori liberali, condividono lo stesso punto di vista.  Quale? Un' inadeguata comprensione, a voler essere benevoli,  del  fenomeno capitalista.  In Italia la società di mercato, l’economia aperta, la libertà di intrapresa economica  continuano ad essere giudicate pericolose o nella migliore delle ipotesi sopportate.  Probabilmente  la  Costituzione  italiana, ancora oggi difesa  a spada tratta  -  a parte l'isoletta liberale  -  nei suoi principi  catto-socialisti,  resta  l’esempio  più  chiaro   di una  cultura politica  fortemente  sospettosa se non addirittura contraria alla libertà economica.  Parliamo di una  Costituzione  che risale all’ anno di grazia 1948, quando sui patti agrari cadevano i governi.  Una Costituzione vincolata, ma il termine giusto sarebbe pietrificata alla  visione engelsiana del capitalismo  britannico,  risalente, come è noto,  alla metà del XIX  secolo.
Si pensi solo  alla   “battaglia politica” sul  Jobs Act: nulla più di una modesta liberalizzazione (non privatizzazione) del rapporto di lavoro.  Un piccolissimo passo in avanti, niente di più. Ora, è vero che  in  Parlamento   si tende sempre a esagerare  la vittorie o la sconfitta di una parte sull'altra, ma è altrettanto vero che è un autentico esempio di  arretratezza culturale,  presentare misure tutto sommato blande come “vittoria della libertà economica” o come  “trionfo della macelleria sociale”. Una povertà di idee  che -  attenzione -  dipende anche dalla natura del  tessuto imprenditoriale  di un sistema industriale e creditizio cresciuto all’ombra dei poteri pubblici. Un assistenzialismo a dire il vero, dato per scontato non solo dagli imprenditori ma persino dagli stessi cittadini.  I quali continuano a vedere nello stato  una specie di paterno potere celeste in ultima istanza.  Sicché  invece di rimboccarsi le maniche,  gli italiani (non tutti,  fortunatamente) attendono, volgendo gli occhi al cielo, la famigerata caduta della manna. Facendo finta di non capire che per ogni euro caduto dall'alto ( in pseudoservizi sociali),  lo stato ne rapina due.  Eppure è così semplice:  nessun pasto è gratis.    
È veramente comico, anzi tragicomico, come talvolta si legge a proposito delle politiche economiche di Renzi ( statalista e tassatore della più bell’acqua), parlare di controrivoluzione liberista in Italia, dove una rivoluzione liberale non c’è mai stata. 


Carlo Gambescia