lunedì 31 gennaio 2022

Mattarella e i quattro approcci all’analisi della politica

 


Oggi prendendo spunto dalla vicenda dell' elezione del Presidente della Repubblica, vorremmo parlare di quattro approcci differenti all’analisi della politica. Chiediamo scusa in anticipo al lettore per il linguaggio crudo, non proprio da erudito, ma così gli sarà più facile capire. Gli approcci sono i seguenti: del “Magna-Magna”, dell’ “Uomo della Provvidenza”, dei “Servitori di Napoleone”, della “Scienza metapolitica”.

Il primo livello, diciamo base, è quello della spiegazione all’insegna del “Magna-Magna”. E qui si potrebbe risalire ai vari partiti popolari, antioligarchici, dell’antichità greco-romana. Cioè, partiti, uomini politici, governi sono visti come popolati di ladri, che rubano i denari della brava gente, costretta a subire ogni tipo di prepotenze. Conclusione: Mattarella, sarebbe stato eletto per non tirarla troppo per le lunghe e così tornare a rubare. Grosso modo, il 90 per cento delle persone, quindi degli elettori, e non solo oggi, vede la politica attraverso il filtro del “Magna-Magna”.

Il secondo livello, che in qualche misura si riallaccia, per semplicità al primo, è quello dell’ “Uomo della Provvidenza”. Cioè, come si può notare, si riconduce l’agire politico ai vari Super Mario, Super Sergio, Super Matteo, Super Giorgia, Super Silvio, eccetera. Tutti capacissimi con un colpo di bacchetta magica di trasformare la Zucca Italia in Carrozza Italia. Conclusione: Mattarella sarebbe stato eletto, per approfittare, e per due volte, della presenza di un “Grande Uomo” al Quirinale. Larga parte di quel 90 per cento degli elettori, tende a sposare, quasi naturalmente, anche la tesi dell’Uomo della Provvidenza”.

Il terzo livello, più evoluto, rinvia, a quelli che un tempo erano i lettori dei giornali di opinione, attenti ai retroscena delle politica, a ciò che accade dietro le quinte dei palazzi politici. Ma si potrebbe risalire fino a Svetonio o ancora più indietro. Parliamo dei retroscenisti. Cioè si tende a ricondurre la politica al pettegolezzo, spesso velenoso e distruttivo. Diciamo pure che si tratta della politica vista attraverso gli occhi dei Camerieri  o “Servitori di Napoleone”. Che vedono i propri padroni, per così dire, in mutande. Conclusione: Mattarella avrebbe preso i voti di Matteo Salvini, perché quest’ultimo voleva far dispetto a Giorgia Meloni. Oppure quelli di Renzi, teso a ridicolizzare le scelte del Movimento Cinque Stelle. Spesso, molti analisti della politica, che si muovono all’interno di un 10 per cento di elettori, più evoluto, ( rispetto al 90 per cento, le masse, abbiamo detto) tendono a spiegare la politica attraverso le lenti dei “Servitori di Napoleone”.

Il quarto livello, rinvia all’ 1 per cento, forse meno. Insomma, ai pochi che studiano la politica come scienza. Parliamo dell’approccio “Metapolitico”. Cioè l’approccio dello scienziato che riflette sulla politica, tentando di andare oltre la stessa, nel senso di poter scorgere in essa ciò che vi di è costante, regolare, come comportamento politico che si ripete, a prescindere dal regime politico.
Si pensi alla preziosa divisione concettuale, schmittiana e freudiana, della politica come conflitto tra amico e nemico, conflitto storico nei contenuti, perché cambiano sempre, metastorico come forma, perché il conflitto come tale non muta mai.
Conclusione: Mattarella sarebbe stato eletto, perché rappresentante, e punto di congiunzione, di un patto corporativo-redistributivo, basato sulla difesa dell’individualismo protetto, un patto condiviso, di fatto, da tutte le forze politiche, gli “amici”, Che esclude, ovviamente, come “nemici”, tutti coloro che sono contrari al patto.
Un esempio di questo approccio è rappresentato dal nostro articolo di ieri (“Mattarella bis, i partiti e lo status quo redistributivo” *). Gli amici Carlo Pompei, Aldo La Fata, Jerónimo Molina, e “si licet parva…” (il che vale anche per noi ), studiosi come Panebianco, Sartori, Miglio e così via (da Pareto, Mosca, Michels fino a Machiavelli e Aristotele),  rientrano in questa “categoria”. Tutti analisti e pensatori che utilizzano la metodologia, della “Scienza metapolitica”.
Ovviamente, i primi tre livelli caratterizzano il discorso pubblico, perché arrivano a tutti, sono compresi da tutti, eccetera, eccetera. Il quarto livello, quello della “Scienza metapolitica” rinvia invece agli specialisti, a una élite di persone, a studiosi, spesso quasi costretti a parlare solo tra di loro.

E qui al “metapolitico” accade un fatto curioso. Il tentativo, per così dire, di “portare la scienza al popolo”, spesso viene travisato, non compreso, per varie ragioni, tra le quali ne va ravvisata una comunicativa. Se lo “scienziato metapolitico” semplifica i concetti, chi ascolta o legge si sente come preso in giro, perché come talvolta si sente ripetere, “sono cose ovvie”. Quindi lo “scienziato metapolitico” direbbe troppo poco. Se invece, non semplifica, esponendo le cose per quello che sono, quindi complesse, la gente non capisce e reputa lo scritto o la conferenza troppo complicati. Quindi lo “scienziato metapolitico” direbbe troppo. Purtroppo, si deve prenderne atto, tra ogni vero scienziato e il popolo non c’è ponte. La scienza, l’autentica scienza, non è democratica.

Che tipo di rapporto si instaura tra lo scienziato politico e l’uomo politico? Dal punto cognitivo, nessuno. Perché il politico per ragioni pratiche, di conquista e mantenimento del potere, preferisce muoversi ai primi tre livelli, alla portata degli elettori. Di qui una semplificazione del linguaggio politico, ben rappresentata da social, ma anche dai talk show politici, che sono, tutti insieme, il proseguimento con altri mezzi dei comizi di un tempo.

Per fare un esempio, di che cosa parlano questa mattina giornali, televisioni, social, la stessa gente comune? Di Mattarella descritto come una specie di Super Santo laico (tradotto: approccio “Uomo della provvidenza”, secondo livello), della rabbia di Giorgia Meloni verso Matteo Salvini o di Luigi Di Maio verso Giuseppe Conte (tradotto: approccio “Servitori di Napoleone, terzo livello), dei parlamentari, che votando Mattarella, non hanno perso stipendi e pensioni (tradotto: approccio “ Magna-Magna, primo livello).

Che in politica esistano pulsioni di natura materialistica ed egoistica, nessuno può negarlo. Tuttavia, parliamo di tre approcci ( “Magna-Magna”, “Uomo della Provvidenza”, “Servitori di Napoleone”) che in realtà   rinviano alle rappresentazioni ideologiche della politica, rivolte a facilitare i processi egemonici di conquista e mantenimento del potere.

Quindi, per capirsi: nella costante metapolitica dell’ “egemonia politica”, ritroveremo sempre, tra le altre, tre rappresentazioni ideologiche, riconducibili alla costante metapolitica del “consenso demagogico”, costante individuata e descritta fin dai tempi di Platone e  Aristotele, per limitarsi alla tradizione del pensiero politico occidentale.

I tre approcci del “Magna-Magna” dell’ “Uomo della Provvidenza”, dei “Servitori di Napoleone” rimandano al picco demagogico della politica.

E questo è esattamente il punto in cui oggi si trova l’Italia. E per alcuni addirittura l’Occidente.

Carlo Gambescia

(*) Qui il post di ieri: https://cargambesciametapolitics.altervista.org/mattarella-bis-i-partiti-e-lo-status-quo-redistributivo/.

domenica 30 gennaio 2022

Mattarella bis, i partiti e lo status quo redistributivo

 


Errare è umano, perseverare diabolico. Antico adagio che quasi tutti hanno dimenticato, soprattutto in ambito politologico, diremmo addirittura metapolitico.

A cosa ci riferiamo in particolare? La scelta, condivisa bene o male da quasi tutti i partiti, di confermare il Presidente della Repubblica uscente, indica chiaramente, mai come ora, l'incapacità del  sistema politico (parlamento e partiti)  di svolgere il proprio ruolo.

Se per la rielezione di Napolitano, si poteva ancora parlare di errore, con Mattarella, siamo alla reiterazione intenzionale dello stesso errore, quindi si persevera, si sistematizza, per così dire il consumo occasionale si fa dipendenza… La voglia di status quo, di cui oggi parlano i giornali, ha però ben altra radice che le tasche dei parlamentari.

In realtà, e non siamo i soli a sostenerlo, la crisi dei sistemi politici, semplificando, liberal-democratici, viene da lontano e non riguarda solo l’Italia, ma il mondo occidentale.

Diciamo che l’Occidente liberal-democratico non si è mai del tutto ripreso dai tremendi scossoni totalitari novecenteschi.

Del resto, nel secondo dopoguerra, mescolando socialismo e liberalismo, si pensò di allontanare la crisi totalitaria, di tenerla sotto controllo, grazie anche a una ripresa economica postbellica, sprigionata dalla straordinaria voglia di benessere dei singoli. Uno slancio che durò almeno fino alla prima metà degli anni Sessanta.

Purtroppo man mano che la società liberal-democratica si socialdemocratizzava, la spinta morale individuale al benessere perdeva vigore, per sparire del tutto nei sotterranei dello stato redistributivo, o se si preferisce stato-provvidenza.

Di qui, il riaffiorare di una tendenza -  sempre presente nel parlamentarismo - al corporativismo degli interessi collettivi, però particolari, a danno del libero sviluppo economico degli interessi individuali. Collettivi e individuali, il lettore prenda appunto

Di conseguenza, negli ultimi cinquant’anni la redistribuzione si è sovrapposta alla produzione. Sicché l’inevitabile distanza tra produzione e distribuzione, causata dal crescente costo economico del welfare, è stata colmata dallo stato e dalle sue istituzioni economiche (dalla leva fiscale allo strumento del debito pubblico).

Di qui però – e veniamo al punto – il progressivo decadimento del ruolo dei partiti e del parlamento: da guardiani delle libertà individuali, private (politiche ed economiche) a indaffarati infermieri sociali, agenti delle tasse e gestori di provvidenze pubbliche.

Una trasformazione del resto invocata, non solo in Italia, dagli stessi cittadini, prigionieri, spesso consenzienti, di ciò che si può definire individualismo protetto a sfondo corporativo, legato a macro e micro gruppi di interesse, a cominciare dai partiti fino a cordate varie, clan e famiglie.

Se ci si perdona la frase fatta, siamo dinanzi a un individualismo spurio, collettivizzante, che socializza le perdite individuali, ma non i profitti. Insomma, una specie di individualismo, tutt’altro che eroico, dotato di paracadute, nel senso della fruizione di finanziamenti a pioggia e di altre misure sociali.

Pertanto dai partiti, dediti alla distribuzione di beni sociali, cosa ci si poteva e può aspettare? Di risolvere, subito il “problema” elezione Presidente della Repubblica, giudicato come secondario, rispetto alle grandi questioni redistributive. E così è stato.

Cosa vogliamo dire? Che queste sono vere radici della “voglia” di status quo dei partiti, non la pensione di parlamentare (o comunque non solo). Chiedere ai partiti, a questi partiti,  di fare i partiti, eleggendo un presidente della Repubblica, magari contrario al patto corporativo e redistributivo,  significava e  significa recidere le fondamenta del sistema. Dello status quo.

Perciò non sia dia ascolto ai lamenti di questa mattina sulla morte dei partiti: non è una questione di riforme costituzionali, di legge elettorale, di pensioni e stipendi dei parlamentari. 

Per inciso, quanto a Giorgia Meloni, prima “moralista” d’Italia, che si fregia di non aver votato Mattarella, ricordiamo ai lettori che il suo partito è il partito della spesa pubblica per eccellenza. Quindi un partito redistributivo, come del resto fu il fascismo, al quale molti dirigenti, elettori e simpatizzanti di Fratelli d’Italia, guardano con nostalgia.

Partiti e governi gestiscono per così dire la “cassa del reggimento”, cosa può importare loro delle critiche di tipo moralistico?

Il vero nodo è un altro: quello di strappare la “cassa” dalle mani di governi e partiti. Come? Puntando sulle privatizzazioni e sulle liberalizzazioni economiche, sui tributi da paradisi fiscali. Favorendo i mercati e il ritorno a quell’ individualismo eroico, persino temerario, soprattutto a livello imprenditoriale, che nel XIX secolo, prima della tormenta totalitaria, favorì un incredibile sviluppo economico, senza precedenti storici. “Lasciar fare, lasciar passare”… Ecco la ricetta.

I partiti liberali, all’epoca, fecero di tutto per favorire lo sviluppo della produzione, senza però interferire nella redistribuzione, saggiamente lasciata al mercato. Si ricordi lo straordinario sviluppo europeo tra gli anni Trenta e Settanta dell’Ottocento, anni d’oro in cui i partiti si disinteressarono della redistribuzione.

Sotto questo aspetto, quanto più oggi si insiste sulla redistribuzione, trascurando la produzione, introducendovi addirittura vincoli di ogni tipo, tanto più si rischia di provocare una crisi di sistema che potrebbe essere causata, ad esempio, proprio dalle politiche ecologiste.

Tra l’altro – e il circolo vizioso si chiude – sono politiche, queste ultime, ben viste da larghe fasce di popolazione, soggiogate da un individualismo protetto, patrocinato, da istituzioni, come i partiti, che invece di scusarsi con gli ecologisti, che terrorizzano la gente, dovrebbero fare il possibile, tornando al ruolo originario, per favorire la produzione, lasciando al mercato la redistribuzione. 

 E poi per dirla tutta, senza produzione non esiste redistribuzione, ammesso e non concesso che lo stato possa sostituirsi al mercato. 

Attenzione, produzione crescente, non lo sviluppo sostenibile, quindi limitato, teorizzato dai teorici del welfare verde o addirittura la decrescita ipotizzata dagli ecologisti duri e puri.

Sotto questo aspetto, la vittoria di Mattarella, se così si può definire, resta la vittoria di un individualismo protetto, redistributivo favorito da quei partiti che ne vivono, incuranti o ignari di recidere le radici stesse, le radici produttive, dei sistemi liberal-democratici.

E in questo senso, ripetiamo, di partiti tesi, a destra come a sinistra, a difendere lo status quo redistributivo.

Carlo Gambescia

sabato 29 gennaio 2022

Il bis di Mattarella. Centrodestra, chi è causa del suo mal pianga se stesso…

 


 

Come scrivevamo, “quieta non movere…”, Mattarella due volte presidente. Altro settennato… Sette + sette = quattordici, si va verso la monarchia… Forse Diarchia, perché non va dimenticato Draghi.

Basta così. Niente battute. Solo analisi. Perché, come vedremo, il secondo settennato, politicamente parlando, potrebbe essere più corto.

Intanto, però, iniziamo da ciò che un politico  liberal-democratico non dovrebbe mai dire… Così Giorga Meloni, commentando il comportamento degli alleati:

«La vicenda dell’elezione del prossimo Presidente della Repubblica dimostra che in Parlamento ci sono persone che preferiscono “barattare i sette anni della presidenza della Repubblica per sette mesi di stipendio e di mandato parlamentare”. Meloni conferma il voto del suo gruppo per Carlo Nordio» (ANSA).

Tipico stile missino, di disprezzo per le istituzioni parlamentari. Disprezzo tipicamente fascista. Roba da vergognarsi. La solita teoria “del magna-magna”. Altro che liberal-democrazia.

Chiarito questo, non comprendiamo bene la meraviglia di non pochi commentatori.

Come detto più volte, il cosiddetto candidato “al di sopra delle parti” (diciamo pure, difficile da trovare), tanto evocato da tutti i partiti, in realtà, nessuno lo desiderava realmente.

Si rifletta. Il centrosinistra (e i pentastellati) non hanno indicato alcun nome preciso. Il centrodestra ne ha designati, ma di strampalati, proprio per farsi dire di no (come spiegazione alternativa resta il cretinismo politico, decida il lettore…).

Quanto a Giorgia Meloni, Nordio, ex magistrato, ultraconservatore, già grande inquisitore delle Coop, era una scelta di estrema destra, anche all’interno dello stesso centrodestra (Crosetto, una “boutade”…). Per capirsi, come se il centrosinistra avesse proposto Antonio Ingroia. Quindi la Meloni stia zitta. Smetta di dire e fare stupidaggini. 

Perciò, diciamo la verità, si puntava, senza ammetterlo, sotto sotto, alla conferma di Mattarella. E così è stato. Missione compiuta.

Perché? Come ha scritto un mio intelligente lettore, Cosimo Saccone, per la semplice ragione che Mattarella è il classico “usato sicuro”. La sua rielezione non turba, per ora, il quadro politico, tutto può continuare come prima, almeno fino alle elezioni.

Attenzione però, usato sicuro, ma di centrosinistra.

Cosa significa? Che se il centrosinistra con i pentastellati a rimorchio, dovesse vincere le elezioni, e ci sono forti probabilità, Mattarella non avrà alcun problema – anzi… – a promuovere un Governo Letta-Conte. Dopo di che, secondo la bisogna, uno o due anni, Mattarella darà le dimissioni, e per Draghi si apriranno le porte del Quirinale. “Modalità Napolitano”, per capirsi.

Se, sempre ipoteticamente, dovesse invece vincere il centrodestra, il Quirinale aprirà il fuoco di sbarramento. Con Draghi di riserva, per un governo di larghe maggioranze, appoggio esterno, le solite alchimie del centrosinistra.

Pertanto, se proprio si vuole parlare di vincitori e vinti, il vero vincitore è il centrosinistra. Che conserva al Quirinale, importantissimo palazzo del potere, un suo uomo, un democristiano di sinistra, mentre Palazzo Chigi resta nelle mani di un liberalsocialista. Sicché il cerchio politico di centrosinistra si chiude perfettamente.

Il centrodestra come al solito o per corte vedute o per cretinismo politico, nonostante le chiacchiere sull’unità,  si è diviso sui candidati. Mentre Giorgia Meloni, che ora strepita come il primo Mussolini, ne ha presentato uno politicamente indecente.

Conclusioni? Come dicevamo le nonne? Chi è causa del suo mal pianga se stesso.

Carlo Gambescia


Elisabetta Belloni, chi è costei?

 



Si leggano i nomi che seguono:

«Alla guida del DIS si sono succeduti, dal 2007 a oggi, il generale Giuseppe Cucchi, il prefetto Giovanni De Gennaro, l’ambasciatore Giampiero Massolo, il prefetto Alessandro Pansa, il prefetto Gennaro Vecchione e l’attuale Direttore generale, l’ambasciatore Elisabetta Belloni…».
(Dal sito istituzionale: https://www.sicurezzanazionale.gov.it/sisr.nsf/chi-siamo/la-nostra-storia.html )

Politicamente parlando sono degli emeriti sconosciuti, il cui nome non è mai stato fatto nelle due precedenti tornate, per così dire, presidenziali” (Napolitano II e Mattarella…I ).

Non si capisce per quale ragione sia stato fatto il nome, da parte di Salvini, e sembra anche di Conte, dell’ambasciatrice Elisabetta Belloni come candidata alla Presidenza della Repubblica.

Fino a pochi giorni fa nessun italiano era al corrente della sua esistenza, come del resto di quella dei suoi predecessori alla guida del DIS. Una perfetta sconosciuta. Un Carneade, pardon (ci dicono), “una” Carneade.

Comunque sia, il suo curriculum agli Esteri è come dire nella media. A scuola, un tempo si diceva, “senza infamia e senza lode”.

Forse tra i suoi predecessori, il più noto agli italiani è il prefetto Giovanni De Gennaro. Perché non lui allora? Tanto prefetto per prefetto ambasciatore per ambasciatore, l’uno vale l’altro, pardon l’altra.

Si dirà che non è una questione di notorietà. Un Presidente della Repubblica non può essere scelto tra le star cinematografiche. Giustissimo. Tuttavia, non essere noti è sinonimo d’indipendenza? Di “terzietà” come si dice? Oppure di intuito politico? Di visione, eccetera, eccetera? Ma, per dirla alla buona, se uno non è noto, diciamo istituzionalmente noto, come si può conoscere il suo pensiero? Come possiamo sapere, per giunta, se è o non è un fesso, pardon una fessa?

Qui non si tratta di dirigere una prefettura, un dipartimento della Presidenza del Consiglio, o l’ambasciata italiana a Bratislava… La carica di Presidente della Repubblica impone capacità politiche di altissimo livello. Una cosa è fare il funzionario, un’altra il capo dello stato.

Certo, ci si deve fidare del giudizio di Giuseppe Conte e Matteo Salvini…

Vi fidate voi?

Carlo Gambescia

venerdì 28 gennaio 2022

Quirinale. Il giorno del caos, ma non per il centrosinistra

 


Oggi i giornali non aiutano a capire. In linea generale, il caos in atto, come si legge, viene attribuito a Salvini.

È vero. Il leader leghista si agita troppo, propone “un candidato all’ora”. E come osserva “Il Fatto Quotidiano”, per una volta giustamente, sembra essere tornato, più elettrizzato che mai, ai tempi del “Papete”.

Attenzione però. La regola numero uno della politica è  creare divisioni nel campo avversario. Quindi, anche il rilanciare a getto continuo sui nomi, può essere, dal punto vista di vista salviniano, un’ottima idea per dividere il centrosinistra.

Il punto è che il gioco non può durare all’infinito. A un certo punto si deve stringere sul nome di un candidato sul quale possa convergere tutto il centrodestra (452 voti) e una parte dello schieramento di centrosinistra, da un minimo di 50-60 voti (per superare di poco i 505 necessari), fino a un massimo di voti “a salire” (550? 600?) per consolidare politicamente la vittoria.

Questo nome ancora non c’è. O meglio ci sarebbe, come scrivevamo ieri (*), ma Salvini sembra far finta di non capire, o forse non può proprio capire…

Per quale ragione? Perché il leader leghista – qui il suo punto debole – appartiene alla categoria del “politico agitatore” a carattere drammatizzante. Salvini non è un “politico amministratore”, freddo e distaccato nel trattare gli uomini (**). Come tristemente prova l’ autoaffondamento al tempo del governo giallo-rosso.

Ora, il problema, anzi il duplice problema per Salvini, è che oltre ad essere un “politico agitatore”, quindi dalle sole capacità distruttive, nella battaglia per il Quirinale si trova a giocare la sua partita con un centrosinistra che ha tutto da guadagnare dallo stato di caos che il leader della Lega sta creando.

Guadagnare in che senso? Giocando di rimessa. Seguendo una specie di cammino, che per ora può apparire accidentato, ma che può condurre alla conferma di Mattarella al Quirinale, e ovviamente alla permanenza di Draghi a Palazzo Chigi: il che significa, per capirsi, la prosecuzione delle attuali politiche welfariste in tutti i settori, dalla sanità all’economia, come pure, piaccia o meno, delle politiche limitative delle libertà individuali.

Mattarella è il Presidente del welfare, e la difesa del welfare è nell’agenda storica del centrosinistra, recepita attualmente da Draghi, autodefinitosi liberalsocialista.

Di conseguenza, quanto più Salvini si agita, e non stringe, tanto più la conferma al Colle di Mattarella, democristiano di sinistra, si avvicina.

Certo, nel caso, Salvini potrebbe anche far saltare il governo. Dopo di che però dovrà fare i conti con Mattarella rieletto al Quirinale. Attenzione, prima e soprattutto dopo le elezioni politiche. E con un Draghi – parliamo del dopo – politicamente sempre incombente, come possibile candidato al Governo o al Colle, in chiave, come durata, di Presidenza Napolitano bis. Con Mattarella al posto di Napolitano che passa il testimone a Draghi.

La politica, come ogni altro comportamento sociale, è reiterativa: se una cosa ha già funzionato, perché cambiarla?

Salvini, purtroppo per lui e per chiunque auspichi un centrodestra – semplificando – antiwelfarista, rischia di facilitare, con questo suo delirium tremens politico, di un “candidato all’ora”, il progetto conformista del centrosinistra sul Quirinale. Addirittura a lunga scadenza.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://cargambesciametapolitics.altervista.org/sabino-cassese-un-presidente-della-repubblica-ni-vax/ .

(**) In argomento si veda, chiedendo scusa per l’autocitazione, Carlo Gambescia, Il grattacielo e il formichiere. Sociologia del realismo politico, Edizioni Il Foglio 2019, pp. 76-84.

giovedì 27 gennaio 2022

Sabino Cassese, un Presidente della Repubblica Ni Vax

 

In Francia i “Normalisti” sono portati in palma di mano. È vero che i nostri cugini vantano tradizioni stataliste, napoleoniche, ma nell’Esagono un tecnico, soprattutto se di alto valore, resta tale. E viene ascoltato e trattato con rispetto dai politici.

Forse esageriamo, perché nessuna società (italiana, francese, tedesca, eccetera), come del resto gli individui, è perfetta, però ieri sera al solo nome di Sabino Cassese, insigne giurista, professore emerito della Normale di Pisa, già allievo della stessa istituzione, è scoppiato il putiferio, soprattutto nei ranghi del centrosinistra.

Lo stesso schieramento che da settimane quasi implora la figura di un Presidente della Repubblica al di sopra della parti.

Ecco, Sabino Cassese, lo abbiamo già scritto (*), avrebbe – e qui il condizionale d’obbligo perché ancora non si conosce la sua risposta a Salvini – tutte le qualità: l’erudizione, l’intelligenza, la prudenza dettata da una consolidata conoscenza delle istituzioni e della storia italiane.

Sarebbe, insomma, un candidato perfetto, e come si spera, un Presidente realmente al di sopra delle parti. Dotato di quel giusto equilibrio politico, anzi diremmo realismo politico, che resta, come prova ad esempio la storica presidenza di Luigi Einaudi, la virtù fondamentale di ogni buon capo dello stato.

Leggiamo, cosa notissima, che non avrebbe più l’età. Infatti Cassese, classe 1935, celebrerà in ottobre (il giorno 20) il suo ottantasettesimo compleanno. Ricordiamo, sommessamente, che con grande soddisfazione del centrosinistra, Giorgio Napolitano fu rieletto, più o meno alla stessa età. E che dopo due anni passò la mano. Quindi la retromarcia resta sempre possibile. Certo – quando si dice il caso – dopo di lui venne eletto Mattarella, altro politico di centrosinistra. Ovviamente, presentato anch’egli come al di sopra delle parti…

E qui veniamo al punto importante della questione. Per il centrosinistra, che si oppone a Cassese, il termine “al di sopra delle parti”, rinvia a un presidente capace di procedere in perfetta sintonia con Palazzo Chigi, dove, ovviamente resterebbe Draghi.

Quanta ipocrisia. Perché si tratta di una scelta politica che tutto è meno che neutrale, dal momento che Draghi esprime una sensibilità di centrosinistra, a sua detta liberalsocialista. Perciò si pretende (cosa che ovviamente non si dice) un raccordo politico tra Palazzo Chigi e il Colle, tutti e due sbilanciati a sinistra, per poter governare con le spalle coperte politicamente. Altro che “terzietà”…

Quanto al fatto che Lega e Forza Italia facciano parte del Governo Draghi, va serenamente riconosciuto che finora le due forze politiche non hanno inciso, se non per qualche dettaglio minore, sulle scelte di fondo di Super Mario.

Anche perché il centrodestra, alla fin fine, condivide lo statalismo del centrosinistra. Come del resto ne apprezza quel welfarismo sanitario che da due anni domina lo scenario politico e sociale italiano. Segnato da politiche antiepidemiche, pardon antipandemiche, che hanno gravemente limitato, e limitano, la libertà dei cittadini. Quindi qualche dubbio si può nutrire sulla sincerità della profferta del centrodestra a Cassese. Probabilmente si vuole solo mettere in imbarazzo il centrosinistra. Oppure, chissà, fare sul serio. Lo scopriremo nelle prossime ore.

Cassese, che conosce bene la natura della partitocrazia italiana come pure le contraddizioni e i difetti della macchina costituzionale e amministrativa, ha mosso in questi due anni critiche ben fondate, ma senza esagerare, proprio al welfarismo sanitario e alla conseguente gestione coercitiva e illiberale dell’epidemia, pardon pandemia.

Sotto tale aspetto, se si accetta l’imbecille linguaggio comunicativo, sposato proprio dal governo Draghi, sulla divisione politica in Pro Vax e No Vax, tra l’altro passivamente accettata dagli stessi No Vax (che effettivamente non brillano per intelligenza), si potrebbe definire Sabino Cassese un Ni Vax.

Attenzione, non nel senso del travisamento, già astutamente messo in atto dai mass media militarizzati e filogovernativi, del Ni Vax come persona esitante o che nutre dubbi rispetto al vaccino anti Covid, cosa che tra l’altro entrerebbe nel novero della normale psicologia umana (anch’essa demonizzata dai mass media di cui sopra). Ma del Ni Vax, come protagonista di una dotta e ragionata difesa del principio di libertà individuale come pure di una ragionevole ma doverosa critica all’ uso improprio della legislazione di emergenza.

Insomma, il centrosinistra teme di perdere con Sabino Cassese al Quirinale la sponda politica, ora ben rappresentata da Mattarella, presidente Pro Vax.

In realtà, Cassese, e chiunque lo conosca sa bene di che pasta è fatto, non farebbe sconti istituzionali a nessuno, proprio come un vero Presidente della Repubblica al di sopra della parti. O comunque sia,  almeno tenterebbe.

E questo non va giù al centrosinistra.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://cargambesciametapolitics.altervista.org/la-sfida-per-il-quirinale-miseria-e-nobilta-della-politica-italiana/

mercoledì 26 gennaio 2022

Pier Ferdinando Casini al Quirinale?

 


Bella domanda. Che dire di Casini? Anche se ambizioso e forse pure seduttore ( due mogli, in particolare notevole per il nome la seconda, Azzurra Caltagirone, dalla quale poi si è diviso), Pier Ferdinando Casini non può essere paragonato al mitico Bel Ami. Anche se di aspetto fisico molto gradevole come il personaggio di Maupassant, indimenticabile ritratto letterario dello scalatore sociale per eccellenza.

Del resto il curriculum di Casini, bolognese, figlio di una bibliotecaria e di un professore di lettere, è prestigioso. Inutile enumerare gli importantissimi incarichi ricoperti in Italia e all’estero, praticamente tutti. Crediamo, manchino l’Onu e organizzazioni correlate, crediamo…

Solo una noticina al riguardo: parlamentare fin dal 1983, quando entrò in Parlamento nelle liste democristiane all’età di neppure trent’anni, Casini, con 39 anni di “anzianità di servizio”, essendo stato rieletto al Senato nel 2018 per il centrosinistra, è il parlamentare più longevo.

Cosa si può dire di lui? Un saggio amministratore di se stesso, mai imprudente, nonché uno strenuo difensore del centrismo democristiano, in chiave più dorotea che degasperiana (peraltro fu giovanissimo tuttofare di Forlani, quindi imbastì casti connubi andreottiani…) .

Un ottimo navigatore della vita, come provano le sue attentissime scelte politiche: dall’appoggio al governo Berlusconi (1994) a quello Gentiloni (2016), passando per Monti, Letta, Renzi.

Pertanto potrebbe essere il candidato giusto dal punto di vista del minor male possibile, politicamente parlando, per il centrodestra come per il centrosinistra. Certo per ora, sono solo voci. Ovviamente si tratta di una candidatura che può piacere alla gente che piace. Ma questa è un’altra storia… Anche perché l’analisi politica si fa sulle cose come sono e non come dovrebbe essere dal punto di vista filosofico, religioso, morale, eccetera.

C’è però un ostacolo da non sottovalutare. Casini, dal punto di vista anagrafico, 66 anni (67 a dicembre 2022), rimane “giovane” per essere eletto al Quirinale. Nella politica italiana, in particolare dopo Cossiga, alllora cinquantasettenne, il “giovane” viene ritenuto ambizioso a priori, quindi poco affidabile. Dal momento che a 73-74 anni (età che avrebbe Casini alla fine del settennato), in Italia, sempre politicamente parlando, non si va in pensione. Anzi. Insomma, il sessantenne non è benvisto. Un cinquantenne neppure a parlarne.

Quanto stiamo asserendo può apparire bizzarro, tuttavia in Italia l’età media di elezione a Presidente della Repubblica ruota intorno ai 73 anni. Casini invece a quell’età, ripetiamo, potrebbe benissimo tornare a fare politica. Diciamo pure che si tratta di un dato quantitativo con implicazioni qualitative.

Concludendo, Casini ce la può fare? Soprattutto se uniamo alla prudenza e al centrismo, che non dispiace a nessuno, anche l’aspetto fisico gradevole? Cosa, quest’ultima, che nella politica-spettacolo, inutile negarlo, ha il suo valore.

Difficile rispondere. L’età potrebbe essere un ostacolo, ma non insormontabile. Vedremo.

Carlo Gambescia

martedì 25 gennaio 2022

L’Ucraina, Putin e l’attimo fuggente

 


Non è facile prevedere quel che potrà accadere tra Russia e Ucraina. Ma qualche previsione si può fare.

Intanto se ci si passa il linguaggio da “piazzisti” geopolitici, “trattasi” di contenzioso antico che risale al XIII secolo e alle successivi egemonie sull’Ucraina di mongoli, polacchi, russi e comunisti (semplificando).

L’Ucraina è da  sempre terreno di conquista, e in particolare, per i russi. Perché giudicata strategicamente importante dal punto di vista della marcia verso gli Stretti. In direzione del Mediterraneo, verso l’inglobamento panrusso dell’Europa orientale, balcanica e più in generale, storicamente parlando, della sfera appartenuta all’antico Impero Romano d’Oriente. Per capirsi, Bisanzio.

Pura politica di potenza, egemonica: per la Russia l’Ucraina ha sempre costituito un ostacolo geopolitico. Senza ovviamente dimenticare, gli aspetti geoeconomici: un tempo il grano, di cui la Russia zarista fu grande esportatrice, oggi, tra gli altri, il gasdotto russo-ucraino.

In sintesi, tra Russia e Ucraina le cicatrici sono tante e non facilmente rimarginabili. Sotto questo aspetto, comunismo e postcomunismo non rappresentano che il proseguimento di antiche politiche egemoniche che hanno quasi sempre visto l’Ucraina dalla parte dei perdenti.

Come si risolvono le questione egemoniche? Opponendo al nemico una potenza di fuoco superiore. Quindi capace, prima come idea di spaventarlo, poi, se necessario, come fatto, di sconfiggerlo.

Cosa che l’Ucraina da sola non è stata mai in grado di attuare. Di qui, l’importanza di alleati forti: gli ultimi alleati, e per giunta sbagliati e che neppure si ritenevano tali, furono gli eserciti hitleriani.

Al momento dove sono gli alleati forti? L’Europa è latitante, gli Stati Uniti minacciano contromisure economiche, adombrando un possibile intervento militare, che però imporrebbe, per essere credibile come minaccia, massicci trasferimenti, da subito, di truppe e mezzi americani in Europa. In realtà, l’appoggio militare della Nato all’Ucraina, per ora, in termini quantitativi, è semplicemente ridicolo.

A questa politica delle minacce inconcludenti, vanno unite la débâcle afghana degli Stati Uniti e i tentennamenti politici di Biden. Ciò significa che Putin potrebbe essere tentato di risolvere militarmente, invadendo e conquistando l’Ucraina. Secondo gli esperti, la Russia avrebbe le forze necessarie per portare a termine le operazioni di conquista e occupazione, pur incontrando resistenza, al massimo in sette-dieci giorni: una guerra lampo.

Pertanto, non restano che due possibilità, o gli Stati Uniti danno prova di voler fare sul serio, “mobilitando” come si diceva un tempo, oppure abbandonare l’Ucraina al proprio destino.

Nel primo caso, gli Stati Uniti potrebbero impartire un’ istruttiva lezione alla Russia, nel secondo, sarebbe la Russia a impartirla agli Stati Uniti.

A dire il vero, esiste anche una terza via, quella del temporeggiare, sposata dall’Unione europea, che preferisce credere, per nascondere la propria debolezza, che la politica internazionale sia la continuazione del parlamentarismo con gli stessi mezzi. Magari fosse così.

L’ apparente stallo fino a quando potrà durare? Finché farà comodo a Putin. E ovviamente agli americani, che, al momento, pur non ammettendolo pubblicamente, non hanno alcuna voglia di battersi. Sicché perdono tempo in incontri e chiacchiere, come si legge oggi, con “gli alleati europei”. Sotto l’aspetto retorico (ossia “chiacchiere”) rientra anche il tentativo di Macron, brutta copia del generale Charles de Gaulle, di sottoporre a Putin un progetto di “de-escalation”.

Come potrebbe finire allora? Il conflitto tra Russa e Ucraina, come abbiamo detto, dura da secoli. Quanto sta accadendo, potrebbe perciò anche andare avanti per anni, decenni, forse più. Probabilmente, la Russia postcomunista, non si sente più forte come in passato, quindi potrebbe prendere tempo.

Però, il punto è un altro. Quale? Che pur sentendosi debole la Russia potrebbe ritenersi meno debole degli Stati Uniti, soprattutto in termini di compattezza politica, e quindi decidere di attaccare in forze.

Ne consegue che cosa? Che, per minare i ragionamenti egemonici di Putin, la minaccia americana venga percepita dai russi come reale. Il che però, al momento, come spiegato, non sembra possibile.

Perciò, diciamo pure che il destino dell’Ucraina, per ora, è nelle mani di Putin. Che potrebbe cogliere l’attimo fuggente.

Carlo Gambescia

lunedì 24 gennaio 2022

Quirinale. Niente scelte nette, solita minestrina riscaldata…

 


Lo schieramento dei grandi elettori (1009) mostra che il centrosinistra ( 413 voti, Renzi incluso, 45 voti) non ha i voti per eleggere il Presidente della Repubblica, neppure dalla quarta votazione in poi (505). Anche perché al momento non sussistono accordi sul   voto a maggioranza qualificata dei due terzi (673).

Tuttavia, neppure il centrodestra (452 voti) raggiunge la maggioranza assoluta (505). Con i voti di Renzi potrebbe sfiorarla (497). Infatti, al centrodestra mancherebbero solo otto voti, che con lo scrutinio segreto, almeno sulla carta, possono essere conseguiti (*).

Però il problema non è matematico ma politico. Perché, non avendo il centrodestra i voti per proporre un candidato con un chiaro profilo politico diciamo di destra o di centrodestra, dovrebbe convergere su un candidato appetibile per Renzi, quindi con profilo centrista sbilanciato a sinistra. Ovviamente, ammesso e non concesso che nelle urne il centrodestra voti compatto e che si trovino gli otto voti di cui sopra, e magari anche altri, però sempre sbilanciandosi verso la sinistra.

Quanto al centrosinistra, considerando parte dell’alleanza anche il M5s, la base di partenza, 413 voti, rende tutto più difficile. Forse, in teoria potrebbe contare sui voti centristi di Forza Italia (413+ 134 = 547, maggioranza 505). Ma non tutti i forzisti, nel segreto dell’urna, voterebbero per un candidato non di centrodestra. Lo stesso centrosinistra, accettando i voti di Forza Italia,  rischia di perdere non pochi voti alla sua sinistra, ad esempio tra quelli di Leu. Per non parlare degli strepiti del M5s.

Quindi il colpo di forza da parte dei due schieramenti resta piuttosto difficile, se non impossibile. Crediamo perciò che a causa delle variabili Renzi e Forza Italia vada esclusa la vittoria di un candidato con spiccato profilo di centrodestra come di centrosinistra.

Il voto perciò potrebbe convergere su un candidato gradito al centro dei due schieramenti, contenendo in qualche misura le reazioni dei puri e duri del M5s. Per inciso escluderemmo, perché priva dei voti necessari, qualsiasi alleanza tra Lega e M5s, 447 voti in tutto su 505. Oppure di 510 voti con l'aggregazione di  FdI, 5 sopra la maggioranza assoluta, ma con tanti franchi tiratori di segno contrario. Sulla congruenza politica di un'alleanza “presidenziale” del genere sospendiamo il giudizio.

Di conseguenza, realisticamente, al Quirinale potrebbe andare una donna, considerate le concessioni alla moda, però con passato più tecnico che politico. Oppure ascendere un politico (uomo o donna che sia), sempre di centro, che però in passato abbia militato, a turno diciamo, nei due schieramenti. Non molto “giovane” però (nel senso di un sessantenne), perché il "giovane candidato",  dopo l’esperienza Cossiga, viene ritenuto a priori   politicamente ambizioso, dal momento che per lui c’è un “dopo”. Insomma,  gli ex presidenti “giovani” non vanno politicamente in “pensione”. Il che li rende poco affidabili.

Ovviamente, se il solco tra centrodestra e centrosinistra dovesse approfondirsi, l’ipotesi Draghi acquisirebbe consistenza, come pure, nell’evenienza di un rifiuto sul suo nome da parte del centrodestra, l’ipotesi di una conferma di Mattarella.

Infine, nel caso di un rifiuto di quest’ultimo, si andrebbe, per stanchezza e retorica emergenziale verso la vittoria, per così dire, di un “simil-Mattarella”, un cattolico di sinistra, con le stesse credenziali, “al di sopra delle parti”, eccetera, eccetera.

Insomma, niente scelte nette, solita minestrina riscaldata.

Carlo Gambescia

(*) Per un buon quadro “numerico” della situazione si veda qui:https://pagellapolitica.it/blog/show/1408/partiti-e-alleanze-tutti-i-numeri-sugli-elettori-del-presidente-della-repubblica