martedì 28 ottobre 2025

Orbán, l’amico del Cremlino a Palazzo Chigi: la visita che l’Italia non doveva concedere

 


C’è un momento, nella diplomazia, in cui la cortesia diventa complicità.

E ricevere Viktor Orbán a Palazzo Chigi, nel pieno di un conflitto in cui l’Europa cerca disperatamente di restare unita, appartiene esattamente alla seconda categoria. Non ci si dica, che in Europa ognuno va per conto proprio. E che alla fin fine, vale la regola del si salvi chi può. Quindi perché non trattare in modo amichevole e realistico anche l’amico di un nostro nemico?

In realtà, se proprio di realismo politico si vuole parlare, la regola è: i nemici dei miei nemici sono miei amici.

E invece Giorgia Meloni ha accolto a Roma il premier ungherese, l’uomo che da anni rappresenta la spina più pungente nel fianco dell’Unione Europea. L’incontro è stato descritto come bilaterale, cordiale, utile al dialogo. Ma dietro il linguaggio neutro del cerimoniale si nasconde un fatto politico inequivocabile: Orbán è il principale alleato di Vladimir Putin dentro l’Occidente, e riceverlo con tutti gli onori significa concedere legittimità a un amico di un nostro nemico.

Da tempo, il leader ungherese gioca una partita personale: quella di un’Europa “illiberale”, cristiana nei simboli e autoritaria nei metodi, ostile a Bruxelles ma dipendente dai suoi fondi.

Una specie di parassita, che però diffondendosi, può uccidere, l’organismo europeo, già in condizioni cattive, a causa dei successi dell’estrema destra un poco ovunque.

Orbán ha bloccato pacchetti di aiuti militari all’Ucraina, indebolito la linea comune sulle sanzioni e intrattenuto rapporti economici e diplomatici con Mosca anche dopo l’invasione del 2022.



Ogni volta lo fa con lo stesso refrain: “Noi vogliamo la pace”. Ma nel suo linguaggio “pace” significa resa, e “neutralità” significa convenienza energetica.

Dietro l’immagine del pacificatore c’è un calcolo: erodere dall’interno la compattezza dell’Unione e costruire una rete di “resistenze sovraniste” — dall’Ungheria all’Italia, passando per altri paesi, magari dell’Est— che indebolisca l’asse euro-atlantico.

Un piano che a Mosca non dispiace affatto. E che probabilmente promuove puntando sulla disinformazione e altri colpi proibiti.

Come al solito, Giorgia Meloni, rivendica un realismo pragmatico, corrompendone il significato. “Si parla con tutti”, dice.

No. il realismo politico, quello vero, imporrebbe di parlare con gli amici dei miei nemici.

In un’Europa che fatica a trovare coerenza tra le dichiarazioni di principio e le convenienze energetiche, Orbán è il testimone perfetto, nell’ipotesi migliore, dell’ambiguità.

Accoglierlo a Roma significa rischiare di importare quantomeno quell’ambiguità dentro la nostra stessa politica estera.

Giorgia Meloni si presenta come una leader che ha dato all’Italia una postura atlantista, affidabile, coerente, nonostante l’origine post-fascista del suo partito.



Eppure, con Orbán in salotto, quella credibilità traballa: l’Italia meloniana sembra tentata dal doppio gioco: solidale con Kiev a parole, indulgente con Mosca nei fatti.

Ora, ammesso e non concesso il pragmatismo meloniano, il punto non è vietare il dialogo, ma riconoscere il peso simbolico di chi si invita.

Orbán non è un interlocutore qualsiasi: è un premier che censura la stampa, riscrive le regole elettorali, e usa la religione come legittimazione politica. 

Il caso di Ilaria Salis dipinta su base indiziaria come pericolosa terrorista, è una prova evidente dell’arretramento sul fronte dello stato di diritto. Senza dimenticare l’antisemitismo strisciante culminato nella sanzioni politico contro Soros. L’Ungheria di Orbán è nei fatti, il volto istituzionale dell’anti-liberalismo europeo. E la cosa non va sottovalutata nel paese che vide nascere e impazzare le Croci Frecciate, cioè i nazisti ungheresi: veri talenti nella caccia agli ebrei.

L’Italia che si fregia di essere madre della democrazia occidentale dovrebbe sapere che certi incontri non si archiviano con la formula scambio franco e costruttivo. Perché non si tratta di diplomazia: si tratta di identità politica. Liberale

C’è una pericolosa illusione che attraversa una parte della destra europea, la peggiore quella dalle radici o simpatie fasciste: di poter costruire un “altro Occidente”, più chiuso, più etnico, più muscolare. Probabilmente, fatte le debite proporzioni, un “Nuovo Ordine” che parla ai cuori neri. E che piace a Trump, cuore malvagio di una America che tradisce i valori liberali racchiusi nella Dichiarazione d’Indipendenza, nella Costituzione e argomentati in modo sontuoso nel montesquieuano The Federalist.



Ma l’Occidente, quello vero, non è una categoria geografica o razziale — è un insieme di valori: libertà di stampa, pluralismo, separazione dei poteri, responsabilità internazionale. Orbán li ha svuotati uno per uno, fino a farne un guscio retorico.

Riceverlo come un pari non è solo un errore di stile: è una concessione di principio. Giorgia Meloni aveva una scelta: riceverlo come partner o considerarlo come problema.

Ha scelto la prima opzione, nella speranza di apparire come la “voce del dialogo”. Ma in politica estera, il dialogo senza una linea di vero realismo politico è solo rumore per imbrogliare le cose.

E così Roma, per un giorno, è sembrata più vicina a Budapest che a Bruxelles. Un dettaglio? Forse. Ma nella geografia morale di un’Europa assediata dalle guerre e dai populismi assetati di un “Ordine Nuovo”, i dettagli contano.

E Giorgia Meloni, per le sue origini neofasciste, sembra sapere benissimo da che parte stare: di sicuro non quella dell’Occidente liberale.
 

Carlo Gambescia

Nessun commento:

Posta un commento