Che cosa muove una persona che si imbarca su una Flotilla diretta a Gaza, sapendo che sarà fermata, che rischia acqua gelida di idranti e manette in un porto israeliano? Come questa notte è puntualmente avvenuto.
Non il calcolo politico. Non l’illusione di cambiare i rapporti di forza con una barca a vela. È qualcosa di diverso: una miscela di empatia radicale, senso di colpa occidentale e bisogno di azione simbolica. In altri termini: la psicologia dell’attivista filopalestinese.
Distinzione importante.
L’attivista agisce per una causa specifica con gesti simbolici, proteste o azioni di solidarietà, spinto da convinzione etica e bisogno di visibilità.
Il militante invece appartiene stabilmente a un’organizzazione politica o ideologica, con disciplina, continuità e senso di appartenenza collettiva. In breve: l’attivista è il lampo, il militante è la struttura.
Se ci si perdona la mediocre metafora, l’attivista è quel che si dice un “cane sciolto”, poco controllabile. Mentre il militante è una specie di dobermann, ben addestrato dal suo padrone.
L’attivista è sempre stato un personaggio scomodo. Da una parte appare come un essere generoso, dall’altra come un ingenuo.
E qui si va oltre Israele o Gaza. Perché si può osservare il meccanismo stesso dell’attivismo: cercare un punto del mondo in cui incarnare il male assoluto e, per contraccolpo, il bene necessario. L’attivista di Gaza è mosso dalla stessa pulsione che portava altri a partire per il Nicaragua negli anni Settanta o a sostenere i curdi perseguitati negli anni Novanta. La differenza è che oggi la radicalizzazione è diventata la regola del gioco, non più l’eccezione.
Ed ecco il confronto inevitabile: perché non abbiamo visto sindacati e associazioni mobilitarsi con la stessa passione per Mariupol assediata o per Odessa bombardata, come invece accade oggi per Gaza?
Domanda imbarazzante. La risposta sta a metà tra la metapolitica della razionalizzazione e la psiche collettiva che si nutre di pretesti. Detto altrimenti tra volontà di giustificazione e pulsioni profonde.
Un passo indietro. Kiev rappresenta il fronte “giusto” per l’Occidente, sostenuto dagli Stati e dalle istituzioni. Non c’è bisogno dell’attivista che rischia la pelle: basta la diplomazia e il bilancio militare. C’è una struttura, militante, anche mediatica. Gaza invece è il fronte “sbagliato”, delegittimato, e dunque ha bisogno del gesto spettacolare, simbolico, disperato. Qui la pulsione collettiva.
Altra domanda interessante. Perché la destra odia tanto questa gente? A destra ci sono i militanti. C’è la struttura: anche nei governi, e persino a livello altissimo: Trump e Giorgia Meloni incarnano l’essenza del militante puro. La loro mentalità rispecchia, in un certo senso, quella dell’attivista… ma al contrario. Uguali e contrari al tempo stesso.
Quanto al militante di destra, quello medio ( quindi per estensione anche l’elettore con la cosiddetta bava alla bocca), militante, dicevamo, che gode del favore di strutture governative ( e che si confonde con la struttura stessa), va detto che detesta una cosa in particolare. Cioè odia il fatto che qualcuno, invece di combattere per i confini, combatta per un’idea astratta di giustizia globale. Per la destra questo non è idealismo: è tradimento. È una sfida al nazionalismo come religione civile.
E il Papa? Qui il silenzio pesa, ma non è un dettaglio secondario: Leone sembra accodarsi al cosiddetto piano Trump per Gaza, i già famosi 21 punti, senza una parola sulla Flotilla. Questo silenzio non è semplice neutralità: è il riflesso di una Chiesa che teme di alimentare la radicalizzazione, ma agli occhi degli attivisti di sinistra appare come tradimento, mentre ai militanti di destra può sembrare prudente conformismo, in fonda appagante per la destra.
In realtà, il silenzio del Papa evidenzia un nodo centrale: anche chi detiene il potere morale rischia di legittimare, per inerzia, il conflitto tra attivisti e militanti. Così, l’assenza di parola da chi ha autorità diventa un meccanismo che rafforza la logica del gesto simbolico e della radicalizzazione, mostrando come il dissenso e l’azione rischiano di rimanere intrappolati nella contrapposizione assoluta, senza mediazione.
Tutto questo si colloca in una cornice più ampia. Dal 1945 in poi, dopo le macerie del fascismo e del nazismo, si era trovato un patto tacito, liberal-democratico: mai più radicalismi. Nella politica, nelle piazze, nelle opinioni pubbliche. Quello che vediamo oggi – a destra come a sinistra – è la rottura di quel patto. Un desiderio compulsivo di radicalizzazione. E l’attivista della flotilla ne è un esempio lampante: come i suoi avversari, cerca una soluzione nel linguaggio assoluto.
Solo che dal linguaggio assoluto non si esce. Una barca non cambia il mondo, ma nemmeno una repressione brutale lo mette in riga. Siamo in un eterno ritorno del conflitto radicale, dove ci si chiede ogni volta “chi ha cominciato”, senza mai riconoscere che il vero nodo è questo: non sappiamo più pensare in termini liberali, moderati se si vuole.
Il punto merita. Ci si interroga, spesso in modo retorico sulle colpe. Domanda oziosa
nella migliore delle ipotesi. Per capirsi – diciamo alla buona – tra
due cosche mafiose chi ha sparato il primo colpo? Cosa impossibile
da provare…
Di conseguenza la psicologia dell’attivista (di sinistra), come quella
del militante (di destra) non è altro che la psicologia del nostro
tempo. O tutti intransigenti, o nessuno. E in questo mare agitato,
nessuna flotilla può arrivare in porto.
Un’ultima cosa: questo processo di radicalizzazione indebolisce l’Occidente, il vero Occidente, quello liberal-democratico, vittorioso nel 1945, perché erode al suo interno la capacità di dialogo, di compromesso e di pensiero critico. Trasforma conflitti complessi in guerre simboliche, alimenta il risentimento reciproco e rende impossibile costruire soluzioni condivise.
In altre parole, mentre ci scanniamo tra estremi, l’Occidente che abbiamo conosciuto e difeso nel 1945 svanisce: non nei campi di battaglia, ma a causa del nostro fanatismo. Affonda nell' incapacità di mediare, di dialogare, di costruire soluzioni reali.
A qualcuno potrà dispiacere, ma il momento è grave, certe cose vanno dette: attivisti (di sinistra) e militanti (di destra) sono i necrofori del liberalismo occidentale.
Carlo Gambescia



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