giovedì 30 settembre 2021

Caso Morisi. Quando crescerà l’Italia?

Questa mattina prendo spunto da un breve post dell’amico Massimo Maraviglia, di poche ore fa, che tuttavia condivido al contrario... Però, regola numero 1, prima leggere. «Morisi è un coglione, non v’è dubbio. E tale è chi si circonda di simili figuri, senza controllare e valutare attentamente stili e comportamenti. Ma non capisco i predicozzi dei soliti moralisti di sinistra. In fondo dovrebbero gioire perché un leghista si comporta secondo i loro modelli etici: immigrazione, libertà sessuale e omosessualismo, libertà di drogarsi. Anzi, fossi in loro assumere subito Morisi come portabandiera!» (*). Sono d’accordo sulla condanna di Maraviglia dell’atteggiamento ambiguo della sinistra, libertaria con i suoi, ma non con gli avversari politici. La solita sinistra moralista, se ci si passa l’espressione volgare, con il sedere dei membri dei partiti di destra. Però, non condivido, di Maraviglia, la provocazione, piuttosto pesante, sull’ “assunzione” di Morisi “come portabandiera” di una sinistra che difende “immigrazione, libertà sessuale e omosessualismo, libertà di drogarsi”. Credo che temi del genere, in un paese liberale, debbano invece essere materia condivisa da tutte le forze politiche. Le libertà di lavoro, di scelta sessuale, di fare le proprie opzioni, anche facendosi male, male fisicamente, ritengo siano questioni non negoziabili. Soprattutto in una società che si vuole aperta e libera. Cominciando, per l’ appunto, dalla libera proprietà del proprio corpo, che non è di nessuno, né di dio, né dello stato. Assumendosi, ovviamente, sul piano individuale, le responsabilità del caso. Diritti, quindi: né vizi né malattie ma solo libere scelte, meglio se non codificate, se non dal costume. Ma conseguenti, sul piano dei doveri, fino a toccare il fondo. Se lo si tocca, naturalmente. Certo, Morisi appartiene a uno schieramento di destra, che, sostanzialmente, ha sposato valori cattolici e conservatori in materia di libertà sessuale e altro. Di qui, la contraddizione tra il dire e il fare. Però, ecco il punto: la politica, a destra come a sinistra, non deve occuparsi dei cosiddetti “stili di vita”. Né imponendo il salutismo welfarista (la sinistra), né obbligando le persone a nascondersi (la destra). In Italia Morisi è diventato un caso, perché la cultura politica, a destra come a sinistra, è imbevuta di certo cattolicesimo ipocrita che ha sempre combattuto la cultura liberale dei diritti civili ed economici, dalla sessualità al lavoro. Di qui, i reciproci colpi di fionda su Morisi. Come i bambini di una volta. Quando crescerà l’Italia? Quando si finirà di giocare a guardie e ladri con gli “stili di vita”? Quando si smetterà di evocare il solito moralismo da quattro soldi? (Carlo Gambescia) P.S. Ci scusiamo per la formattazione. Ma purtroppo per il momento meglio di così...

mercoledì 29 settembre 2021

Incidenti sul lavoro. Perché seminare odio sociale?

È proprio vero come si legge che gli incidenti sul lavoro hanno raggiunto un numero di casi inquietante? Alcuni titoli, dopo le morti degli ultimi giorni, parlano di stragi, contribuendo alla creazione di un clima di paura e di conflitto sociale. Allora andiamo a vedere i dati. L’Inail, ente preposto come si dice, fornisce dati dal 1951. Fino al 2010 sono basati sulle denunce accolte, diciamo andate a buon fine. Invece tra il 2010 e oggi, comprendono anche le denunce di morte per infortunio che hanno avuto definizioni amministrativa negativa. Ossia che non sono state ritenute tali. Nel 1951, settore industria e servizi, furono denunciati all’Inail 540.037 casi, di cui 2.199 mortali. Nel 1954, quindi con un sistema già a regime, 793.349 di cui 2.645 mortali. Dieci anni dopo, 1964, il numero di casi denunciati è di 1.257.470, di cui 3.094 mortali. Dieci anni più tardi, nel 1974, i casi denunciati sono 1.220.430, di cui 2.053 mortali. Ancora dieci anni dopo nel 1984, i casi denunciati sono 770.504, di cui 1.271 mortali. Si noti, intanto, come tra il 1951 e il 1984 la mortalità si sia quasi dimezzata rispetto a un maggior numero di casi dichiarati. Dieci anni più tardi, nel 2004, i casi denunciati sono 869.439, di cui 1.137, mortali, sempre rispetto al maggior numero di casi dichiarati. Nel 2014, i casi denunciati sono 512.255, di cui 978 mortali (inclusi però, come si diceva, anche i casi non risarcibili) (1). E nel 2020? Diamo, di nuovo, la parola all’Inail. «Sono 554.340 – [dato, sorprendente, perché riferito a tutti i settori industria-servizi-agricoltura] gli infortuni sul lavoro denunciati all’Inail nel 2020, in calo del 13,6% rispetto ai 641.638 dell’anno precedente. 1.270 quelli con esito mortale, 181 in più rispetto ai 1.089 del 2019 (+16,6%) »(2) Come si intuisce, rinunciando, per ora, a comparazioni con i dati europei, che, per quanto più dettagliati, sono consultabili a partire dal 2007-2008, e quindi inutilizzabili per confronti sul trend storico 1951-2020 (3). Dicevamo, come si può intuire, la mortalità sul lavoro, per i settori industria e servizi tra il 1951 e il 2020 si è ridotta della metà: è passata da 2.199 casi mortali a 1270, in presenza di un maggior numero di denunce (da 540.037 a 554.340 (inclusive, dal 2010 rispetto a quelle del 1951, dei casi di infortunio mortale con definizione negativa). Va detto, per inciso, che il trend del settore agricolo ha più o meno le stesse caratteristiche, ma con un numero di addetti decrescente. Per contro, per industria e servizi, vale in contrario il numero, pur in fasi differenti, è crescente. Ecco alcuni dati occupazionali per settore, anno 2015, per farsi un’idea in termini di grandi numeri, tra il numero degli occupati per settori e numero degli infortuni mortali. I dati sono tratti da una sintesi Istat: agricoltura (843.000); industria (5.976) servizi (15.646) (4). Ora, a fronte di questi numeri, e con il massimo rispetto per le vittime, perché parlare di stragi? Tra il 1951 e il 2020 la sicurezza sul lavoro è progredita in modo straordinario. Certo, le cifre delle vittime non sono pari zero. E forse mai lo saranno, ma per inafferrabili ragioni legate alla natura umana, extrasociologiche, che riguardano imprenditori e lavoratori, come l’avventatezza e la temerarietà, la pigrizia e l’avidità. Il che, ovviamente, non significa, che la legislazione sulla sicurezza sul lavoro sia inutile. Anzi, come abbiamo visto è utilissima. Concludendo, se le cose stanno così, perché seminare l’odio sociale? (Carlo Gambescia) P.S. Ci scusiamo per la formattazione. Ma purtroppo per il momento meglio di così... ******************************************************************************************************************************************************************************************************************************************************************************************** (1) Inail, pagina dedicata Tav. 2: https://www.inail.it/cs/internet/attivita/dati-e-statistiche/statistiche-storiche/casi-denunciati.html ***(2) Inail, pagina dedicata con tabelle all’interno:https://www.inail.it/cs/internet/comunicazione/news-ed-eventi/news/news-dati-inail-infortuni-malattie-professionali-2020.html ***(3) Inail, pagina dedicata, con tabelle: https://www.inail.it/cs/internet/attivita/dati-e-statistiche/statistiche-europee.html ***(4) Si veda qui, p. 27: https://www4.istat.it/it/files/2016/12/6-lavoro.pdf

martedì 28 settembre 2021

L’uomo è antiquato

Il titolo è ripreso da un libro di Günther Anders, "Die Antiquiertheit des Menschen", filosofo tedesco, pacifista, figura cult per la sinistra post marxista, ma comunque imbevuta di utopismo negativo, la stessa sinistra, oggi al potere, che si “accontenta” (si fa per dire), delle transizione ecologica. Causa sposata anche dalle élite politiche liberal-socialiste (da ultime, celebratissime, ieri in Germania), un poco perché di moda, un poco perché utile alla causa anticapitalista. E da ultimo dalla chiesa populista, incarnata da papa Francesco. Anders sottolineava l’inadeguatezza dell’uomo nei riguardi della tecnica. Al fondo della sua filosofia, gravitava l’idea di un ritorno al mondo pre-tecnologico e pre-industriale, per equilibrare i conti, tra umano non umano (la tecnica). Il che come dicevamo lo ha reso molto popolare tra gli ecologisti e gli anticapitalisti, dichiarati o meno. Il che spiega anche - è quasi una battuta - il suo divorzio del 1937, da Hannah Arendt, "filosofa" somma, che se peccava sul piano cognitivo, peccava per un eccesso di realismo politico. Il contrario dell’ex marito: pessimista sì, ma con lo sguardo rivolto al passato, al paradiso perduto pre-tecnologico. In realtà, l’uomo è antiquato per un’ altra ragione. Perché al capire ha sempre preferito il credere. Quindi ha bisogno di credere, anzi se ci si passa il termine, di “leggendizzare” anche la scienza e la tecnologia. E, di rimbalzo, combattere quest’ultima, in nome di una specie di ritorno all’Età della pietra. Semplificando si tratta di un passaggio dalla leggenda B alla leggenda A. Se ci si passa la battuta: dal culto del Consiglio Superiore della Sanità ai culti solari o del dio della pioggia. Il punto è che la ragione ha andamento oscillante. Ancora oggi non ci si rende bene conto che due-tre secoli di progresso tecnologico e scientifico, ma anche di civiltà delle buone maniere, sono storicamente l’eccezione, non la regola. O comunque sia, un punto alto del pensiero umano che può essere seguito da una caduta verticale in senso contrario. Insomma, così stanno le cose: alti e bassi del pensiero cognitivo. Potrebbe essere il titolo di un libro. Probabilmente dalle scarse vendite... Purtroppo, l’ età della ragione, odiata dalle destre, più conservatrici e reazionarie, ha il suo nemico principale proprio nell’uomo. Che alla ragione sostituisce le leggende sulla ragione, aprendo così spazi infiniti ai nemici della ragione e della tecnica, che ne è il naturale prolungamento. Si prenda come esempio quel che è accaduto negli ultimi due anni. Un uomo antiquato, a ogni livello politico (in alto come in basso), ha creduto nella leggenda epidemica, pardon pandemica, e nel potere assoluto, diremmo salvifico, della scienza medica e della scienza dell’organizzazione politica. Le disastrose conseguenze sociali, economiche e culturali sono sotto gli occhi di tutti. Alla leggenda epidemica sembra ora sia stia sostituendo la leggenda della transizione ecologica. Insomma, niente da fare: gli uomini continuano a preferire al capire il credere. Il problema non è la tecnologia, in quanto tale, ma l’arretratezza cognitiva a singhiozzo dell’uomo, che - attenzione - può spingerlo a porre la scienza al servizio della reazione. In fondo, il discorso di Anders, in cosa consisteva? Nella critica della modernità, dal punto di vista di un uomo che poteva farne a meno riducendo i bisogni. Non è forse tutto questo la transizione ecologica? Certo per addolcire una pillola in realtà amara, si magnifica il futuro. Qui,però, non è più Anders a parlare, ma lo stato, con i suoi potentissimi mezzi. Ottimi per finire di piegare le coscienze all’insegna del “Dopo saremo tutti più liberi”, “Qualche ‘piccolo’ sacrificio, eccetera, eccetera”. Insomma, un futuro che ha il “cuore antico”... Titolo di un libro di Carlo Levi, degli anni Cinquanta, in cui si magnificava l’Unione Sovietica, custode dei valori tradizionali. Pure scemenze utopiche. Eppure la gente continua a “credere” in queste stupidaggini. Esiste una via di scampo? La destra non è in grado di offrire alcuna ricetta (ieri per esempio leggevamo un articolo in cui Veneziani inneggiava a San Padre Pio, che, di lassù, si sarà arrabbiato). La sinistra liberal-socialista strizza l’occhio compiaciuta ai movimenti ecologisti. E la gente comune “preoccupata” per il “futuro del pianeta” applaude o quasi. Sì, l’uomo è antiquato.( Carlo Gambescia) P.S. Ci scusiamo per la formattazione. Ma purtroppo per il momento meglio di così...

sabato 25 settembre 2021

Puigdemont libero. Il liberalismo continua a farsi male da solo…

Un liberale può essere felice della liberazione di Puigdemont ? Oppure no? Prima la notizia. La Corte d’Appello di Sassari ha deciso per la scarcerazione senza alcuna restrizione. Di fatto il leader catalano può partire per dove desidera, sebbene l’udienza per decidere l’estradizione in Spagna sia stata fissata per il 4 ottobre. Qualora non si presentasse, perché non presente sul territorio italiano, la corte potrebbe archiviare il caso con un non luogo a procedere . Carl Schmitt, che era un giurista, e che in effetti all’inizio qualche sconveniente simpatia per un nazionalsocialismo conservatore e diligente esecutore degli ordini dello Stato Maggiore la ebbe, diceva che il liberalismo era il regime del Sì e del No al tempo stesso. Insomma lo accusava di pilatismo. Il liberalismo – questa la tesi di Schmitt – come puro desiderio di quieto vivere, di non assumersi responsabilità inerenti al proprio titolo o grado oppure di prendere ferme posizioni in relazioni a particolari questioni. Un seguire la corrente, insomma. Pura routine, orientata sul mainstream. In effetti, dispiace dirlo, la tendenza c’è. E soprattutto sul piano giudiziario. Come prova il giudice di Alghero, che nascondendosi dietro le procedure dello stato di diritto liberale, pur non rinunciando a pronunziarsi sull’estradizione del politico catalano, lo ha rimesso in libertà, favorendone – ma ci auguriamo di no – la fuga. Se al posto di Puigdemont ci fosse stato, per dire, il leader di “Poder Blanco” (nome di fantasia), un’ organizzazione razzista, come si sarebbe comportato quel giudice: lo avrebbe rimesso in libertà? Ecco, il vero stato di diritto (che ovviamente è anche garantismo procedurale) deve mettere sullo stesso piano il leader razzista e il leader nazionalista ( tra i quali, mai dimenticarlo, ideologicamente c’è differenza di grado non di specie). Tradotto: o liberi tutti e due o in prigione tutti e due. E non decidere, per quieto vivere, in base alle “mode” del tempo… Infatti, l’opzione liberale, la vera opzione liberale, rinvia alla neutralità politica: uguaglianza dinanzi alla legge, a prescindere dall’ideologia professata. Costi quel che costi. Si dirà che ne stiamo facendo un processo alle intenzioni, una questione di lana caprina insomma, perché, il giudice si è un pronunciato nel caso singolo, e al momento non c’è riprova del contrario, eccetera. Però il dubbio resta. Quanto alla questione della diffusa benevolenza nei riguardi dei “micro nazionalismi”, oggi così di moda, a destra come a sinistra, anche su questo punto un vero liberale non può essere soddisfatto. Si dirà, che i micro nazionalismi fanno simpatia, perché si oppongono ai macro nazionalismi, Ad esempio, Catalogna contro Spagna. In realtà, e non ci stancheremo mai di ripeterlo, la differenza tra macro e micro nazionalismo, resta di grado non di specie. Per capirsi, se ora – ammesso e non concesso, eccetera, eccetera – sono gli spagnoli a opprimere i catalani, una volta guadagnata l’indipendenza saranno i catalani a opprimere gli spagnoli. Pertanto un vero liberale, dovrebbe cercare di fuoriuscire dalla logica del macro come del micro nazionalismo, per puntare sulla logica dell’internazionalismo. Il che – lo ammettiamo – non è facile. Perché ad esempio i catalani, che sono molto ospitali con gli stranieri, veri simpaticoni, lo sono molto meno con tutti gli altri spagnoli, soprattutto con quelli che non la pensano come loro. Purtroppo, come insegna la sociologia, esiste uno zoccolo duro etnocentrico, difficile da contrastare, legato anche ragioni storiche, culturali eccetera. Come prova il macello balcanico degli anni Novanta. Certo, pur con differenze di contesto. Una carneficina che tuttavia sembra non avere insegnato nulla. Però di una cosa siamo sicuri, che il problema, non può risolversi a colpi di macro e micro nazionalismi. “Dopo”, non seguirà la pace universale, perché macro e micro appartengono alla stessa famiglia ideologica. Invece, che cosa significa internazionalismo? In pratica, riprendere e valorizzare, nei fatti, l’antico detto dell’ ubi bene, ibi patria. Quindi più commerci, più viaggi di ogni genere, più contatti tra i popoli, più aperture, meno chiusure. Sul punto, per inciso, si pensi al male che possono aver causato ai processi di internazionalizzazione dei rapporti umani e culturali, le politiche di chiusura degli ultimi due anni. E ai danni che potrà fare in futuro la diffusione a livello politico e sociale dell’ideologia pandemista, Ma questa (almeno per oggi) è un’altra storia… Concludendo, un vero liberale non può essere contento della decisione del giudice di Alghero. Il liberalismo continua a farsi male da solo. Che malinconia. ( Carlo Gambescia) P.S. Ci scusiamo per la formattazione. Ma purtroppo per il momento meglio di così...

venerdì 24 settembre 2021

L’arresto di Puigdemont. C’è un giudice ad Alghero…

Sul piano geopolitico non crediamo in un’Europa pulviscolare, composta di microstati a sfondo linguistico ed etnico, come non crediamo al superstato europeo, che da Bruxelles comanda e decide ogni cosa. Insomma, la risposta ai problemi dell’UE, crediamo non consista nel confuso micro-nazionalismo, catalano o veneto, surrogato del macro, come pure nel welfarismo liberal-socialista a sfondo ambientalista che ha chiuso dentro casa milioni di europei. Sogniamo un’ Europa parlamentare, con i suoi partiti, regolari elezioni, governi e maggioranze che si alternino serenamente, rispettosi di una cornice di regole liberal-democratiche, segnata da larghe autonomie, diritti civili e politici, libertà di mercato, con al centro il sincero apprezzamento di ogni forma di dissenso, eccetto quello “armato” o “violento”. Crediamo pure che l’Europa debba tornare ad essere composta di pochi paesi, fedeli alle tradizioni, marinare e commerciali, in una parola liberali, che hanno fatto grande il nostro continente. Pochi ma buoni,insomma. Il che significa che personaggi come Carles Puigdemont non ci piacciono, perché sono micronazionalisti, nazionalisti di serie B, pericolosi come quelli di serie A. Tra l’altro, in un paese, la Spagna, dove le autonomie locali, grazie alla Costituzione del 1978 e leggi successive, godono di una enorme libertà. Quindi reputiamo la “battaglia politica” di Puigdemont fuori tempo massimo. Una specie di film sui dinosauri. Però, ecco il punto, detto questo, riteniamo il mandato di arresto europeo una pericolosa manifestazione di centralismo giudiziario, soprattutto a sfondo politico. Quindi non possiamo gioire per l’arresto in Italia, ad Alghero, di Puigdemont. Ovviamente ora attendiamo la decisione del giudice. Come si diceva un tempo, a proposito delle origini dello stato di diritto, che c’era un giudice a Berlino, ecco, oggi c’è un giudice ad Alghero. Ciò significa che l’eurocentralismo giudiziario non ha ancora vinto la sua battaglia. Perché, cari amici lettori, oggi tocca, se mi si passa l’espressione a Puigdemont, che ovviamente alcune pericolose stupidaggini le ha commesse, ma domani potrebbe toccare, a chi contesti, addirittura con scritti, le politiche sanitarie dello stato italiano… (Carlo Gambescia) P.S. Ci scusiamo per la formattazione. Ma purtroppo per il momento meglio di così...

giovedì 23 settembre 2021

Draghi e il Capitalismo di Stato

Come funziona il Capitalismo Liberale? Semplice: 1) Sono necessari imprenditori responsabili, capaci di investire nei propri affari; 2) Per investire sono necessarie fonti di finanziamento: fondi propri, la banca, l’azionariato; 3) Il sistema dei prezzi si stabilisce a partire dalla domanda e dall’offerta in un mercato più o meno vasto, regionale, nazionale e spesso internazionale: il mercato è il regolatore del prezzo; 4) Infine è necessario infine circuito di distribuzione, privo di ostacoli, che costituisce, favorendo materialmente il flusso delle merci e dei beni, parte integrante di una società di mercato. Ora, ieri Draghi, il liberal-socialista (definizione sua), cosa ha dichiarato al “Global COVID-19 Summit”? Leggiamo. «”Abbiamo fatto grandi progressi” nella distribuzione dei vaccini attraverso il programma Covax ma “ci sono ancora grandi disuguaglianze” e per questo “bisogna essere pronti a essere più generosi”, sottolinea il premier. “La cooperazione globale è essenziale per permettere che finisca quest’emergenza pandemica e per prevenire le emergenze sanitarie”, aggiunge il premier. “Nel mondo 2,5 miliardi di persone sono vaccinate e un miliardo è parzialmente vaccinato (con una dose, ndr)”, ricorda il capo del governo. “Uno dei punti deboli nella risposta globale alla pandemia è stato l’insufficiente coordinamento tra autorità sanitarie e finanziarie. Come presidenza del G20 noi vogliamo istituire il ‘Global Health e Finance Board” che “potenzierà la cooperazione globale nella governance e nel finanziamento per la risposta e la prevenzione alle pandemie”, afferma inoltre Draghi intervenendo al ‘Global COVID-19 Summit’. Il Board “supporterà la collaborazione tra il G20 e l’Oms, al Banca Mondiale ed altre organizzazioni internazionali. Noi accogliamo la proposta americana di un Fondo finanziario intermediario” » (ANSA). Ovviamente, per ora, i contenuti dell’ipotetico piano mondiale per la salute sono abbastanza fumosi. Inoltre di fatto gli stati non tendono a collaborare fra di loro se non nel caso di interessi comuni, quindi che possono mutare, e talvolta, come nelle grandi crisi del XX secolo, per difendere valori comuni. Tuttavia, nel secolo scorso, le emergenze, ad esempio le guerre (in particolare la Seconda), hanno reso meno indipendente l’economia dalla politica. Il Capitalismo di Stato è nato dall’abbraccio mortale (per i cittadini) tra governi, imprese, e banche per ragioni belliche, prolungatesi nel tempo, almeno fino alla conclusione della Guerra Fredda. Il Capitalismo di Stato è tuttora vivo e vegeto: si pensi agli inquietanti sviluppi cinesi (ma anche l’India non scherza) e alla figura del fondo sovrano, nonché, e qui veniamo al punto, alla valanga di agenzie internazionali, pubbliche e semipubbliche, che dettano regole su regole, turbando i meccanismi di mercato. Equilibri, come detto ai punti 1-4, che rinviano al funzionamento del Capitalismo Liberale. Come si possono inquadrare le dichiarazioni di Draghi? All’interno di quale tipo di capitalismo: Liberale o di Stato? Non c’è alcun dubbio, Mario Draghi, non è sicuramente dalla parte del libero mercato, del Capitalismo Liberale, insomma. Il solo parlare di piani, accordi, regole, e soprattutto decisioni prese in alto dalla politica e dagli stati, (ovviamente dagli stati più forti) rimanda all’intreccio tra politica, imprese e banche, che a sua volta rinvia al Capitalismo di Stato. Però, con un tocco personale. Draghi, semplificando, è un banchiere (di stato, tra l’altro), quindi parla di “istituire il ‘Global Health e Finance Board” che “potenzierà la cooperazione globale nella governance e nel finanziamento per la risposta e la prevenzione alle pandemie”. Insomma, un’altra agenzia finanziaria che in nome – attenzione – della “prevenzione delle pandemie” protenderà i tentacoli delle istituzioni bancarie internazionali, pubbliche, semipubbliche, private (costrette ade adeguarsi), sul libero mercato, introducendo vincoli, per ottenere fondi, titoli da trattare, regole da rispettare. Ancorando il tutto politicamente all’ideologia pandemista, che non è altro che il portato dell’ideologia welfarista basata sul principio di precauzione. Per dirla brutalmente: se passa l’idea di Draghi, la “prossima volta” per ottenere i fondi gli stati dovranno rinchiudere i cittadini in casa. Esageriamo? Il Capitalismo di Stato, contrariamente al Capitalismo Liberale, che funzionò, e bene, nel XIX secolo (diciamo fino alla Prima guerra mondiale), vede i prezzi fissati non dal mercato ma da istituzioni di tipo politico, o comunque politicizzate. Il solo prestare denaro pubblico (perché poi i fondi sono emessi dagli stati), seppure gestito da agenzie internazionali, influisce innaturalmente sui prezzi, sui corsi dei titoli e sul costo del denaro, allontanandosi dal naturale equilibrio dettato dalla legge della domanda e dell’offerta. Ovviamente,interventi e controlli politici sono giustificati evocando il bene comune, la salute comune, eccetera, eccetera. Ci mancherebbe altro… Ora, il “Global Health e Finance Board” auspicato da Draghi non è che l’ennesima agenzia pubblica o semipubblica, di tipo internazionale, che baratta la libertà con i crediti, drogando i prezzi. Come dicevamo: crediti, quindi capitalismo, ma di stato, perché è in gioco la libertà dei cittadini. Naturalmente, la risposta non può essere il socialismo, che è la malattia infantile del welfarismo. O il nazionalismo, che rappresenta una specie di regresso umano e politico all’Età della Pietra. Si deve invece tornare al capitalismo liberale. Ma come? Anche perché, come abbiamo visto, l’ideologia pandemista non aiuta… (Carlo Gambescia) P.S. Ci scusiamo per la formattazione. Ma purtroppo per il momento meglio di così...

mercoledì 22 settembre 2021

L' Azionismo e i suoi amici...

Che cos’è l’Azionismo? Spesso se ne parla, ma quasi nessuno sa bene cosa sia. Diciamo che al di là dell’azionismo storico risorgimentale, che prende nome dal “Partito d’Azione”, corrente politica di varie tendenze, mazziniane, repubblicane, semisocialiste, socialiste, l’Azionismo novecentesco ha salde radici sociali nell’antifascismo di sinistra, liberal-socialista. Quindi non marxista. Nonostante ciò, l’Azionismo del XX secolo si nutre di una visione della società di mercato in cui lo stato si deve occupare dei consumi sociali (infrastrutture, scuole, strade, sanità, ad esempio), mentre al mercato sono lasciati i consumi privati (inerenti ad esempio al tempo libero, agli acquisti di beni vari, eccetera). Capitalismo sociale di mercato, allora? Non del tutto, perché la radice comune dei diversi azionismi, di ieri come di oggi, rimanda al giacobinismo, a una versione totalitaria, non liberale, e se liberale solo a parole, della democrazia. Che vede nello stato la soluzione, non il problema. In sintesi, “il giacobino sa cosa è bene per il popolo”, e per imporlo usa tutta la forza dello stato. Il totalitarismo giacobino, quindi azionista, consiste nell’oppressione delle minoranze. Altro che liberalismo. Infatti, per l’azionista, proprio nel senso dell’azione politica, l’ultima parola spetta sempre allo stato, non all’individuo. Si tratta di una forma macro-archica di liberalismo che scorge nell’archia (governo, dominio, potere) dello stato (di qui, il macro) un potente regolatore delle disuguaglianze sociali e promotore di nuovi diritti civili anche i più fantasiosi, ribattezzati come liberali, purché ben visti dalle élite giacobine: dal culto dell’Essere supremo alla celebrazione dei diritti dei granchi violinisti. Enrico Letta, per esempio, è un azionista, come lo è Macron. Ma si pensi anche allo spagnolo Sánchez. Diciamo che la crisi verticale del marxismo ha provocato un poco ovunque – si pensi alla stessa Germania delle coalizioni di centro-sinistra degli ultimi anni, incarnate dalla Merkel – il rilancio di un liberal-socialismo, il cui liberalismo si riduce ai diritti dei crostacei. A un’etichetta su un barattolo di frutti di mare dai contenuti socialisti. In genere, alle radici dell’azionismo c’è un atteggiamento di sufficienza verso il popolo. Il che spiega, di rimbalzo, perché le destre, notoriamente elitarie, oggi appoggino, un poco ovunque, il populismo, vellicando furbamente il popolo “tradito” dalle élite liberal-socialiste. Si può dire che il Populismo sta all’Azionismo come l’Azionismo sta al Populismo. Grosso modo, queste sono le categorie politiche, tutte e due estranee al liberalismo, intorno alle quali si è sviluppato il discorso pubblico (paola grossa) in Occidente. In particolare dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, che ha visto il rilancio del liberalismo, al quale però si subito opposto il giacobinismo azionista. Sia l’azionismo che il populismo hanno però connotazioni fortemente razziste. Quelle del populismo verso “lo straniero”, l’”immigrato” sono note. Meno note, perché non rimandano al colore della pelle, sono quelle dell’azionismo verso gli avversario politico in genere. Che, il giacobinismo azionista dipinge come un nemico, con il quale non si deve neppure provare a parlare Per capirsi: se il liberalismo, storicamente parlando, ha trasformato il nemico in avversario, favorendo la mediazione politica, l’azionismo continua a considerare chiunque “pensi diverso” un nemico assoluto. Da abbattere, anche in senso fisico. Si tratta di una retorica forte e menzognera al tempo stesso, che ricorda quella populista contro l’immigrato. Infatti, alcuni studiosi, a tale proposito, parlano dell’azionismo come espressione di un populismo di sinistra. Comunque sia, per una riprova di questa ferocia – insomma di quanto stiamo dicendo – basta andare subito in edicola, anche digitale, e acquistare una copia del quotidiano “Domani”. Si legga l’editoriale di Stefano Feltri. Già il titolo è tutto un programma: “Berlusconi resta tutto ciò a cui la sinistra si deve opporre”. In pratica, abbiamo sotto gli occhi, una specie di micromanuale di antropologismo sociale antiberlusconiano. Il Cavaliere viene liquidato in perfetto stile giacobino-azionista come rappresentante “ di un pezzo dell’ identità condivisa dal paese”. Berlusconi, ovviamente non è un santo, ma il delirio, perché di questo si tratta, di “Domani” (Feltri ne è direttore), rinvia a una retorica che, senza tanti complimenti, asserisce la presunta superiorità di una “razza” azionista su tutte le altre “razze” politiche. Certo, l’editore di “Domani” è un nemico giurato di Berlusconi. Però qui siamo ben oltre l’antipatia o l’odio personale. L’editoriale di Stefano Feltri è un documento storico e sociologico. In poche battute spiega e fa capire l’essenza stessa dell’Azionismo. (Carlo Gambescia) P.S. Ci scusiamo per la formattazione. Ma purtroppo per il momento meglio di così...

martedì 21 settembre 2021

Le sette e il totalitarismo (Continua lo scambio di opinioni tra Massimo Maraviglia e Carlo Gambescia)

Caro Carlo, grazie per la tua documentata risposta. Riguardo al tema delle sette, porterei alla tua attenzione il tema delle grandi sette contemporanee (per es. quella del reverendo Moon o di Dianetics). Forse sociologicamente parlando non sono più classificabili come sette, benché abbiano con le sette tradizionali alcuni importanti punti di sovrapposizione (un’analisi l’ho incontrata quasi per caso nel volumetto di R. Ikor, “Las sectas” (Paradigma, Barcelona 1997); Ikor non è un sociologo, ma un letterato e scrittore francese che ha avuto un’esperienza traumatica con le sette e perciò ha fondato in Francia un “Centro contro le manipolazioni mentali”). Potremmo dire che le sette oggi sono “istituzioni” particolari che istituzionalizzano il fanatismo e promuovono un sistematico condizionamento? Per farlo bisogna diventare relativisti, ma non nel senso del politeismo dei valori delle società contemporanee, un politeismo che trova, o dovrebbe trovare, nello Stato neutrale il suo punto di convergenza, ma propriamente il concetto per cui l’ideale tipico della fase movimento si “dialettizza”, cioè diventa plastico e in grado di sopportare qualsiasi tattica, anche quella che effettualmente lo contraddice. Un relativismo machiavellico, che permette la massima libertà d’azione alle élites rivoluzionarie e che tuttavia mantiene sullo sfondo una riserva, un serbatoio di fanatismo da impiegare alla bisogna e strategicamente contro il nemico politico. E’ lo Stato reinventato dalle élites bolsceviche, cui esse, sul modello di una setta, la Comune di Parigi, hanno saputo dare un carattere al tempo stesso istituzionale in senso tradizionale, e settario. Massimo Maraviglia ******************************************************************************************************************************************************************************************************************************************************************************************************************************************************************************************** Grazie, a te caro Massimo, per la documentata risposta . Che sollecita, come deve essere, ulteriori questioni e interrogativi. Per inciso, probabilmente stiamo abusando della pazienza degli amici lettori. Però, come già notato, la questione merita. Parto dalla tua domanda:“Potremmo dire che le sette oggi sono “istituzioni” particolari che istituzionalizzano il fanatismo e promuovono un sistematico condizionamento?” Diciamo che la forma o tipo setta, e non solo oggi, dal punto di vista dello “spirito” di setta, se si vuole della mentalità, “usa” il fanatismo, e ovviamente “condiziona” i suoi adepti. Quindi sì, ma a certe condizioni- In primo luogo, l’istituzionalizzazione, come già scritto, è altra cosa, e prevede il passaggio precedente, dalla setta al movimento. Che non sempre è lineare. Si pensi, come si diceva a proposito dei Circoncellioni, alla difficoltà di trasformarsi in movimento, quindi in attore sociale di dimensioni crescenti, capace di reclutare rapidamente e di sfidare a tutto campo le istituzioni esistenti, proponendosi di distruggerle o assorbirle. L’uso non regolato della violenza settaria, come nel caso Circoncellioni (per inciso, da circum cellas («[coloro che si aggirano] intorno alle cellae», ossia ai santuari dei martiri), per alcuni storici, vera truppa armata del donatismo, impedisce di crescere lungo la linea setta-movimento-istituzione . In secondo luogo, Una cosa è il partito bolscevico, partito di professionisti della politica, poi partito-stato, che si muove nel pubblico, un’altra le sette di oggi alle quali ti riferisci che rinviano a “professionisti del plagio”, senza nessuna volontà di trasformarsi in movimento politico-sociale e partito-stato. Professionisti, insomma, che si muovono nel privato. Ma era veramente una setta il partito comunista? Probabilmente ha sempre conservato lo spirito settario di Zurigo, pur trasformandosi in istituzione-partito e in istituzione-stato dopo la guerra civile. La fase del movimento, lasciandosi dietro quella della setta in senso materiale, inizia e termina con la guerra civile. Dopo di che prevale l’istanza totalitaria, come ho scritto, che apre il fronte delle dimensioni e dell’utilizzazione dell’istituzione-partito e dell’istituzione-burocrazia. In terzo luogo, quanto al nesso tra relativismo e settarismo, preferirei parlare di “dottrina criminogena della politica”. Un aspetto che non riguarda le sette in particolare, ma anche movimenti e le istituzioni, soprattutto se a sfondo totalitario. Quindi qualcosa di più generale, rispetto al tuo discorso in argomento. Si tratta di un atteggiamento o “spirito” che rinvia alla tesi classica della forza che crea il diritto. Tesi, in parte vera, che tuttavia il realismo politico criminogeno (che non è che una delle forme del realismo politico, quella “polemica” per eccellenza, che rimanda al lato “demoniaco del potere ), riconduce nell’alveo della sopraffazione a ogni costo, relativizzando i concetti di uso comune. Hitler ad esempio, negli anni Trenta, a ogni prova di forza sostenuta e vinta, dichiarava che agiva così perché aspirava alla pace, dicendo così qualcosa di vero e falso al tempo stesso: pace per tedeschi ma non pace per tutti gli altri. Relativizzava… Lo stesso si potrebbe dire, di Lenin, a proposito del concetto di libertà, utile per arrivare al potere, ma non per governare. Relativizzava… Ho affrontato questi temi in un libro dedicato alla sociologia del realismo politico. Non credo ci sia altro da aggiungere, almeno sul piano sociologico. Comprendo, ovviamente, che dal punto di vista della storia delle idee o della filosofia politica o morale la mia risposta possa eventualmente essere giudicata insufficiente. Ubi maior minor cessat. (Carlo Gambescia) P.S. Ci scusiamo per la formattazione. Ma purtroppo per il momento meglio di così...

lunedì 20 settembre 2021

Non solo intensive...

Ieri l’ amico Carlo Pompei si è limitato a esporre in modo sintetico, come sa fare molto bene, alcune questioni, invitando alla riflessione. Ecco il testo del suo post: “Chi non ci lavora dice che le terapie intensive sono piene di non vaccinati. Chi ci lavora dice che sono mezze vuote e comunque ci sono anche vaccinati. Sansonetti, ignorando Arcipelago gulag, sbraita. Giordano ci prova. Con un fil di voce”. Subito però si è aperta, anzi scatenata, una discussione da social, che in qualche misura è esemplare. Di che cosa? Delle reazioni della gente comune alla campagna e all’ obbligo (sicuramente di fatto) vaccinale. Ci si concentra sugli aspetti organizzativi e controfattuali (certamente appassionanti, per carità, come la formazione della nazionale): si poteva fare, si poteva non fare, si poteva fare meglio, peggio, così e così, eccetera. Si può serenamente sostenere che al 98 per cento degli italiani sfugga una cosa importantissima: che a prescindere dalla gravità o meno dell’epidemia, pardon pandemia, si è ormai imposto, come importante precedente sociologico e politico, un modello securitario. Ne scrivevamo qualche giorno fa. Cosa significa? Che in futuro il modello di intervento pubblico sarà sempre di tipo punitivo per libertà politiche, civili, economiche. Attenzione: se in autunno la situazione epidemica, pardon pandemica, dovesse precipitare sarebbe ancora peggio… Pertanto il vero punto della questione, non è quante bugie dicano o non dicano, le autorità, gli scienziati, i mass media, eccetera. O comunque non è il solo problema. Il vero problema è che in futuro – ecco quel che è realmente preoccupante – al minimo accenno epidemico gli italiani si ritroveranno di nuovi “rinchiusi” in casa. Il vero sconfitto è il liberalismo. Di cui, cosa interessante, quel 98 per cento che discute di altro, stando alle scelte di voto degli italiani (da Cinque Stelle a Fratelli d’Italia, partiti “moderati” e “riformisti” inclusi), sembra poter fare a meno. Già da molto tempo prima dell’epidemia, pardon pandemia. In realtà, solo una società liberale avrebbe potuto opporsi alla deriva securitaria. Certo, non c’è per il momento riprova (forse l’esperienza svedese?), perché in Occidente, prevaleva, già prima dell’epidemia, pardon pandemia, il modello welfarista, o comunque liberalsocialista, non liberale, anzi nemico del liberalismo. In sintesi: l’unica cosa certa è che oggi siamo meno liberi di venti mesi fa. E che in futuro potrebbe andare peggio. Eppure sarebbe bastato capire, sulle basi di poche regolarità sociologiche, metapolitiche se si vuole, che una politica restrittiva delle libertà rappresenta sempre un pericolo, non solo per il presente ma anche per il futuro. Ovviamente, non possiamo augurarci che la campagna di vaccinazione fallisca, perché lo stato non allenterebbe la presa sul cittadino. Anzi, a fronte di una crescente incertezza, il giro di vite, sarebbe ancora più severo. Pertanto, ed è opinione personale, l’ estremismo No vax non giova alla causa liberale, perché il fallimento della campagna vaccinale, colpirebbe ancora più duramente la libertà individuale. Come non giova, l’estremismo Pro vax, sposato dal governo, che difende la deriva autoritaria come l’unica soluzione possibile, imponendo il modello securitario, come l’unica strada possibile, anche per il futuro. Ciò che non si capisce, a livello di classe dirigente, è che il problema è di tipo sociologico: quanto più si estendono i poteri dello stato tanto più si restringono le libertà dei cittadini. E che le intenzioni della classe dirigente, siano buone o cattive, non sposta di un millimetro la questione. Il potere non si fa mettere volontariamente a dieta. Le cose, soprattutto quando sono in gioco i poteri pubblici – le istituzioni, le burocrazie, tecnici e specialisti vari – non tornano a posto da sole. La mano visibile dello stato non è la mano invisibile del mercato. Perciò non è questione di uomini ma di strutture, che una volta istituite e consolidate, comandano sugli stessi uomini di governo, per non parlare, a livello di massa, della cosiddetta servitù volontaria, o per dirla più modernamente della forza del conformismo sociale. Quindi prima di partire a velocità folle con chiusure e tutto quel che ne è seguito ci si doveva fermare e riflettere sul futuro delle libertà. Ovviamente, la tesi, a dir poco totalitaria, “o tutti chiusi in casa o tutti morti”, per usare un eufemismo, non ha favorito né la prudenza né la discussione, ma solo l’estremismo Pro e No vax, con al centro la passività della stragrande maggioranza degli italiani, tutti paralizzati dalla paura, alimentata da una classe politica, a destra come a sinistra, insensibile alla questione della libertà. Sul punto, qui evidenziato (“non è questione di uomini ma di strutture che una volta istituite, eccetera, eccetera”) convergono teoria sociologica e teoria liberale, scienza e coscienza. Pertanto, “oggettivamente”, funzionino o meno vaccini, si va, anche a velocità piuttosto elevata, verso un futuro modello di società securitaria e autoritaria. Questo è il vero problema, non il numero vero o falso dei ricoverati nella terapie intensive, questione pur giustamente sollevata dall’amico Carlo Pompei. Ma oggi quanti sono i veri amici della libertà in Italia e in Occidente? (Carlo Gambescia) P.S. Ci scusiamo per la formattazione. Ma purtroppo per il momento meglio di così...

domenica 19 settembre 2021

Circoncellioni e (soprattutto) altro… Scambio di idee tra Massimo Maraviglia e Carlo Gambescia

Caro Carlo, risposta sociologicamente illuminante, la tua, sullo sviluppo movimento-istituzione e sul regresso movimento-setta (sembra che tu abbia dato un carattere moderatamente valutativo alle due diverse dinamiche). Mi domanderei se le rivoluzioni vengano tradite di più istituzionalizzandosi, e perdendo un po’ di convinzione a favore dell’ordine e della responsabilità; o trasformandosi in sette, cioè radicalizzando la convinzione, ma perdendo totalmente ordine e responsabilità. Osserverei che, mentre della responsabilità esiste un’etica, non ve n’è una della totale irresponsabilità. Anche l’ordine più oppressivo mantiene sempre un residuo etico: il servitore dello Stato, anche di uno Stato infame, può sacrificare se stesso, crederci, e anche, se vogliamo, trovare nell’istanza etica di adeguarsi all’istituzione quello stimolo, parimenti etico, a soffrire la discrepanza tra i fini, generalmente nobili o considerati tali, dell’istituzione stessa (che rimandano alle sue ragioni fondative, cioè alla fase movimento) e la sua prassi degenere. Il settario è invece totalmente deresponsabilizzato e ciò lo disabitua al sacrificio di sé. La verità è funzione della rivoluzione cioè del soggetto rivoluzionario, cioè infine di se stessi in quanto unici e liberi interpreti delle Scritture rivoluzionarie… Questo trasforma la mentalità settaria in una mentalità strutturalmente violenta e omicida perché capace di un mostruoso relativismo e soggettivismo; mentre lo Stato è violento e omicida accidentalmente, cioè fino a che conviene e solo nella misura in cui conviene alla sua durata. Quando il relativismo settario si sposa innaturalmente con la ragion di Stato, si producono gli Stati-setta: nazionalsocialismo, bolscevismo e americanismo. Cioè in sostanza quel Novecento dal quale stentiamo ancora ad uscire. (Massimo Maraviglia) ************************************************************************************************************************************************************************************************************************************************************************************ Caro Massimo, grazie dell’interessante commento. Che, come puoi vedere, ho trasposto sul blog, per rispondere in modo articolato. Una precisazione più per i lettori che per te. Lo schema istituzione, movimento, setta, rinvia, sebbene in forma diversa, a Weber, Simmel,Troeltsch. Schema che però non rimanda, in termini di estensione, al concetto di stato-setta. La setta sociologicamente parlando, rinvia a un microgruppo che si autoisola dal resto della società, per approfondire, e non sempre diffondere, in chiave esclusiva valori non condivisi, spesso invisi, socialmente. Insomma, non è un "macrofenomeno". Esiste, ovviamente lo spirito settario, al quale probabilmente ti riferisci. Il punto è che l’istituzione, rivolgendosi a tutti, non può essere settaria, mentre il movimento o si sviluppa e si trasforma in istituzione o regredisce a setta. Perciò non esiste uno stato-setta, ma esiste uno stato totalitario, con spirito di setta, nel senso dell’esclusivismo ideologico, che però non basta da solo, perché lo stato-totalitario impone una fitta schiera di fedeli esecutori degli ordini, dal partito unico alla burocrazia tentacolare. La discrepanza di cui parli, tra ideali e fatti, tra responsabilità e deresponsabilizzazione, nasce proprio dalla questione dimensionale, che influisce sulla selezione delle élite, diminuendone la qualità, proprio in ragione della massa “immessa”. Di qui, la differenza in termini di effetto di ricaduta della mobilità sociale, burocratico-partitica, tra ciò che tu chiami impropriamente stato-setta e stato totalitario. Il che imporrebbe un riflessione sul concetto di “americanismo”, che, a mio giudizio, rinvia non allo stato totalitario, ma a una forma di nazionalismo, eventualmente, pre-totalitario (perché mancano partito unico e burocrazia tentacolare). Quanto ai Circoncellioni, si potrebbe parlare di un “quasi” movimento socialmente abortito. Per contro, nella storia della Chiesa e del cristianesimo, nelle varie versioni, sono per così dire fiorite e fioriscono istanze movimentiste contestative delle istituzioni, con risultati di inclusione, esclusione, fondazione e rifondazione. Un ultimo punto. Ritengo degno del massimo approfondimento, però dal punto di vista della filosofia morale, quanto affermi qui:“Osserverei che, mentre della responsabilità esiste un’etica, non ve n’è una della totale irresponsabilità. Anche l’ordine più oppressivo mantiene sempre un residuo etico”. Dico questo, improvvisandomi filosofo morale: che l’etica rinvia al conflitto, il conflitto al relativismo (tra valori diversi), il relativismo all’etica della responsabilità (non dei principi), etica che media tra valori diversi, mentre il totalitarismo esclude il conflitto, si pone come assolutismo, e quindi nemico del relativismo come di un’etica della responsabilità, sulla quale impone l’esclusivismo ideologico, quindi non media un bel nulla. Di qui, quell’etica dell’irresponsabilità che rimanda a un’etica dei principi fondata però sull’esclusivismo ideologico. Pertanto, sul piano della filosofia morale (di quello sociologico ho già detto) il veleno è nell’assolutismo non nel relativismo. Ovviamente, se il relativismo da mezzo si tramuta in fine (in versione stato sovra-etico o stato provvidenza), può diventare a sua volta un pericolo per la libertà. (Carlo Gambescia) P.S. Ci scusiamo per la formattazione. Ma purtroppo per il momento meglio di così...

sabato 18 settembre 2021

Sociologia dei Circoncellioni

Ottima, come sempre la provocazione di Massimo Maraviglia, questa volta sui Circoncellioni, monaci africani: una specie di ala sinistra, politicamente parlando, dei donatisti, già noti per il loro estremismo anticattolico. I Circoncellioni, sono altrettanto noti per il loro radicalismo teolologico-politico. Coloro che non capissero di cosa stiamo parlando li rinviamo al film molto discusso e discutibile “Agorà”, su Ipazia, “Filosofa pagana”, vittima, in senso fisico, dell’ottusità culturale dei Parabolani, altri monaci, in qualche misura, compagni di estremismo dei Circoncellioni, attivi però un secolo dopo. Ma tutti insieme nemici, per dirla in sociologhese, di ogni forma di cultura istituzionalizzata, sia che si trattasse della Chiesa di Costantino o di Teodosio. Semplifichiamo, per rendere il discorso più semplice. Sicuri però di scontentare gli storici del cristianesimo- Maraviglia parte da un libro (“Furiosa turba”), sembra molto bello, di Remo Cacitti, storico del cristianesimo antico. Un testo, apparso alcuni anni fa, che permette di approfondire il fenomeno, in modo storiograficamente serio. Le conclusioni del professor Cacitti, dopo una ricca conversazione con Maraviglia, che risale al 2006, sono le seguenti: «I Circoncellioni rappresentano, a mio avviso, uno degli estremi tentativi di segnalare l’irriducibilità della fede alle logiche secolari, in un patente rifiuto del ruolo che il Cristianesimo ha assunto nella nuova societas christiana, quell’impero romano-cristiano che per altro, in Africa, sprofonderà in entrambi le componenti sotto la forza d’urto dell’invasione araba (e si consideri che ciò avviene soltanto in Africa, poiché le comunità d’Oriente sopravviveranno, se non come romane, certo come cristiane). Per una sorta di eterogenesi dei fini, sarà Agostino a far tesoro di questa lezione impartitagli con durezza dagli avversarii, quando, nel De civitate Dei, si guarda bene dall’attribuire alla civitas terrena, ormai pienamente cristiana, le prerogative della civitas celeste. Il Regno di Cesare, insomma, anche se proclamato Vicario del Logos con Costantino o Uguale agli Apostoli con Giustiniano, non può identificarsi con il Regno di Dio». Interessante: rivendicazioni antisecolari (quelle dei Circoncellioni), che consentono, paradossalmente, di favorire, una visione, in seguito via Agostino, in qualche misura, non antisecolare, ma anticlericale, diciamo contro il potere secolare, contro l’identificazione della Città di Dio con quella di Cesare. Identificazione tra Dio e Cesare, che ritroviamo nella visione costantiniana, fertile terreno di sviluppo della ierocrazia, per usare un termine delnociano. Della Chiesa temporale, per così dire. Alla quale nei secoli successivi, si opporrà l’anticlericalismo, nemico del clericalismo ierocratico, condannato, fin dalle prime battute, da Donatisti e Circoncellioni. Insomma, tra zelotismo e anticlericalismo esisterebbe un paradossale filo rosso. In realtà, siamo davanti all’ eterno problema sociologico del passaggio obbligato dal movimento all’istituzione, ed eventualmente, nel caso dell’impossibilità, per varie ragioni, di conformarsi, del regresso del movimento a setta. La sociologia ( e di rimbalzo la metapolitica) insegna invece – è una costante o regolarità – che ogni movimento o si istituzionalizza, quindi in qualche misura si secolarizza, oppure si mummifica, fino a “settizzarsi”, per scomparire del tutto o sopravvivere, ignorato, ai margini della storia. Circoncellioni e Donatisti, sparirono. Non scomparve però lo spirito (sociologico) di setta (quindi un passo indietro rispetto alla logica, sempre sociologica, del movimento), spirito che ritroviamo ancora oggi in movimenti dicontestazione dell’istituzione Chiesa. Ora, non sappiamo se la logica della secolarizzazione sia buona o cattiva, ma come sociologi ci è chiaro che un movimento o si fa istituzione, o si fa setta, con tutto quel che ne consegue. Detto in altri termini: ogni rivoluzione, religiosa, politica, eccetera, sarà sempre inevitabilmente tradita, proprio perché, passata la bufera rivoluzionaria, si ritorna sempre all’ordine, che in quanto tale resta, piaccia o meno, una delle aspirazioni umane più forti. Pertanto, per così dire, era “destino” sociologico che i Circoncellioni perdessero. (Carlo Gambescia) P.S. Ci scusiamo per la formattazione. Ma purtroppo per il momento meglio di così...

venerdì 17 settembre 2021

La “vera svolta epocale”: il modello securitario

Molti osservatori, come del resto la gente comune, non si rendono conto che la “vera svolta epocale” nella crisi epidemica, pardon pandemica, diciamo tra il prima e il dopo, è nel colpo inferto alle nostre libertà. Che non è qualcosa che scomparirà con la cessazione dell’emergenza, quando le dure misure prese saranno attenuate e forse in alcuni casi revocate. La legislazione antiepidemica resterà una minaccia sempre incombente sulle nostre teste. Come si dice, una spada di Damocle. Perché, ecco il punto fondamentale: resterà in piedi, vivo e vegeto, il modello culturale securitario che ne è alla base. Che al minimo accenno reale o virtuale di nuove crisi epidemiche (non da Covid, ma in generale) verrà rispolverato per essere di nuovo esteso alla vita sociale ed economica. Un passo indietro. Il termine “securitario” - di origine francese "sécuritaire" da "sécurité publique" - indica, sotto il profilo sociologico, un insieme di provvedimenti politico-sociali tesi al mantenimento della sicurezza e dell’ordine pubblico, misure che ovviamente includono anche l’ambito delle salute pubblica, soprattutto in chiave di interventi preventivi. Si ricordi, qui, come esempio, l’antico principio di polizia, applicato da Fouché, ministro napoleonico, del prevenire invece di reprimere, nel senso di privilegiare, con arresti mirati, prima, invece di reprimere, dopo, con il sangue. Soluzione più economica, sicura, e in fondo popolare. Oggi, più modernamente si parla di principio di precauzione sociale mirato ad alcune questioni, terrorismo, ambiente, welfare, eccetera. In realtà, il concetto di voler prevenire ogni rischio, anche il più lieve, oltre a deresponsabilizzare i cittadini, trasformandoli in ometti impauriti, rappresenta la quintessenza dell’ ideologia securitaria. Un’ideologia apparentemente soft, rispetto ad esempio alle esperienze hard dei socialismi, perché si richiama alla dolciastra figura sociale del welfare state. Un’ideologia tesa a giustificare, nei campi più svariati, l’intervento dello stato per difendere o accrescere, come si proclama, il benessere dei cittadini. Attenzione però: benessere secondo lo stato, non secondo i singoli. Ora, sorvolando su questo aspetto, peraltro grave (se lo stato dice A e il cittadino dice B, il primo in nome dei principi A renderà la vita di B un inferno), va ricordato che lo stato, non è un’idea etica, ma una macchina amministrativa, piuttosto ingombrante, che una volta messa in moto, in nome del prevenire meglio che reprimere, può sospendere, in automatico, le libertà con la giustificazione, sempre in automatico, di preservarle. E tra le forme di prevenzione, specie in campo sanitario, soprattutto se la gestione è pubblica, c’è quella - se ci si consente l’espressione - di “portarsi avanti nel lavoro “, ossia di prevenire futuri ed elevati costi economici e sociali, intervenendo prima, rendendo però, da subito, la vita del cittadino un inferno. Sempre per il suo bene come si dice. Però, concettualmente parlando, dal punto di vista istituzionale, come per Fouché, si tratta della soluzione più economica, sicura, e in fondo popolare. Cosa accaduta negli ultimi venti mesi, che hanno visto il trionfo del modello securitario. Presentato come un successo politico, quindi un modello di nome di fatto. Tra gli applausi dei tanti, forse troppi. Il che, come dicevamo, rappresenta un grave precedente dal punto di vista della perdita della libertà. Qualcosa, che, nonostante ciò, alla prima occasione, virtuale o reale, verrà riproposto, perché, come si ripeterà, ha sconfitto il Covid. Ora, non è che si doveva e deve fare il tifo per il Covid. Ci mancherebbe altro. Ma neppure andavano amplificati. come accaduto, i pericoli di un’epidemia, pardon pandemia, sulla quale la scienza, fin dall’inizio si è divisa, come giustamente doveva e deve essere, altrimenti la scienza sarebbe un puro e semplice prolungamento della teologia. Ma questa è un’altra storia. Sicché, resta il fatto, piaccia o meno, che, socialmente parlando “è passata”, soprattutto dopo l’ultima grave misura sul Green pass, di fatto obbligatorio, l’idea del modello securitario. Tra l’altro nella passività generale. Questa sì, di tipo sovietico. Perciò sarà molto difficile fare un passo indietro. (Carlo Gambescia) P.S. Ci scusiamo per la formattazione. Ma purtroppo per il momento meglio di così...

giovedì 16 settembre 2021

Vaccini, ipocrisia, coraggio, libertà,la lezione di Solženicyn

La sensazione è che il tasso di ipocrisia politica del governo Draghi, appoggiato da un parte della destra, sia elevatissimo. Si confida nel vaccino, però al tempo stesso non si ha il coraggio di introdurre l’obbligo per i lavoratori pubblici e privati. Allora che si fa? Si procede per vie traverse. Perché, formalmente, si è liberi di non vaccinarsi, però si rischia di essere licenziatio comunque di la sospensione dello stipendio. Al vaccino si affianca il tampone, che tuttavia, quando si dice il caso, non sarà gratuito. Perché i famosi “ristori”, quando vanno in direzione contraria rispetto ai desideri del governo, non sono mai presi in considerazione? Insomma, si ingannano gli italiani. Li si tratta da stupidi. Si simula una libertà che invece rischia di sparire. In realtà sotto c’è dell’altro. Sul punto richiamiamo l’attenzione sulla stretta relazione che esiste tra coraggio è libertà. Si rileggano le bellissime pagine dedicate da Solženicyn in “Arcipelago Gulag”, all’atteggiamento passivo del popolo sovietico nei riguardi del regime comunista. Gli oppositori venivano arrestati di giorno e di notte senza che nessuno, un vicino, un passante, un conoscente, addirittura un familiare alzasse un dito. Il regime viveva di due cose: la menzogna di un avvenire radioso e la vigliaccheria quotidiana del popolo russo. Del resto come cadde il comunismo russo? Con una rivoluzione dall’alto, iniziata dal segretario dal partito. Il popolo rimase passivo fino all’ultimo. Come del resto oggi con Putin, a parte qualche rara eccezione. Ma questa è un’altra storia. Si dirà che stiamo esagerando. Che qui è in gioco la salute, e che con la salute non si può scherzare. Basta con le chiacchiere, insomma. Si dia la parola alla scienza. In realtà, al sociologo non può sfuggire una cosa: che, come in Unione Sovietica si magnificavano, paralizzando la reazione del persone, le conquiste del socialismo scientifico (definizione di Marx, ripresa da Lenin, Stalin e successori), così oggi in Italia si magnificano le conquiste della scienza, presentando un vaccino, a dire il vero poco sperimentato, come la soluzione di tutti i problemi. La logica sociale del meccanismo è la stessa; gli addendi sono gli stessi: radioso futuro + scienza, come del resto la somma o totale: = obbedienza passiva. L’unica differenza è rappresentata dal ben diverso sviluppo civile e politico della Russia comunista e dell’Italia repubblicana. Tuttavia, il garantismo italiano, spesso claudicante, spiega, almeno per ora, l’assenza di arresti notturni e diurni degli oppositori (pochissimi tra l’altro). Il che però spiega pure il tentativo governativo di aggirare l’ostacolo, puntando sull’ipocrita obbligo indiretto di vaccinazione, prendendo per stupidi i cittadini. In realtà, i cittadini non sono stupidi ma passivi. Un passo indietro. Si dirà, che i quattro gatti dei No vax, sono del tutto inaffidabili: complottisti, populisti, fascisti, insomma, tutta gente così, che anche prima viveva ai margini del sistema politico. Frange lunatiche. Giustissimo. Il che però, di rimbalzo, spiega la passività delle persone normali, che non sono poche, se è vero come è vero, che 14 milioni di lavoratori si sono vaccinati, e “solo” 4 milioni hanno invece preferito passare la mano… In realtà, ripetiamo, non sono pochi. Ma dove sono? A fronte delle poche centinaia di No vax? E qui torniamo a Solženicyn… La libertà necessita di coraggio. Il potere di ipocrisia. La gente comune di sicurezza. Che sia il lettore a trarre le conseguenze sociologiche del caso. (Carlo Gambescia) P.S. Ci scusiamo per la formattazione. Ma purtroppo per il momento meglio di così...

mercoledì 15 settembre 2021

Brutti tempi per le relazioni umane. E i titoli Ansa non aiutano…

Non è un periodo facile per le relazioni umane. Non mi riferisco solo agli effetti dell’epidemia, pardon pandemia, ma alla difficoltà di rapporti con amici e conoscenti, anche di vecchia data, che hanno sposato l’ideologia pandemista. Senza mai essere stato No vax, soprattutto in tempi non sospetti, perché, da sempre, conosco la storia della medicina e apprezzo il progresso rappresentato dalle vaccinazioni, mi sono ritrovato etichettato come tale, e retrocesso sul campo a nemico della salute pubblica. Messo all’ “angoletto”, tra l’altro, in bruttissima compagnia di fascisti, comunisti, populisti. Purtroppo, certe titolazioni, come quella Ansa, indicano che la pressione su giornalisti, pubblica opinione, intellettuali, gente comune, è fortissima. Non è facile resistere all’onda d’urto mediatica. Un titolo come quello Ansa, su quota 130 mila, è praticamente inventato, perché la progressione dei decessi non è così strabiliante, da peste manzoniana, come si vuole far credere: 126.221 (1 giugno), 109.847 (1 aprile), 74.721 (1 gennaio). Il titolo, dispiace dirlo, ma è concepito per intimorire. Tra l’altro la cifra di 130 mila decessi, in poco meno di due anni, non è spaventosa, come si vuole far credere. Si consideri, infatti che nel quinquennio precedente, 2105-2019 (1), i decessi annuali per varie cause (incluso il suicidio), ammontavamo a circa 600 mila unità, e che prima dell’epidemia, le morti per malattie di tipo polmonare erano intorno alle 50 mila unità annue (2). Insomma, in un paese normale il 25 per cento in più di decessi (74.159 vs 50.000 ), in un anno (2020), per malattie prodotte da affezioni alle vie respiratorie, per quanto da non ignorare, non può determinare, anzi non deve, gravi decisioni lesive della libertà. Prese di posizione, sbandierate come un successo, che tuttora impediscono il ritorno a una vita normale. I miei, lo ammetto, sono calcoli macabri, persino di cattivo gusto, che però rinviano ai bollettini giornalieri del Ministero della Salute (3) , quindi di pubblico dominio. Eppure si continua a giocare con i numeri, per non parlare dei vari tassi di letalità, mortalità, eccetera, basati su campioni concettualmente inesistenti. I dati sono lì, sotto gli occhi di tutti. Eppure ci si divide, fino a insultare e offendere. E qui torno ai contatti umani, alla difficoltà di confrontarsi addirittura con amici e persone, degne delle massima stima. Che purtroppo hanno sposato la causa della paura. Perché si insiste così tanto? Perché si instilla la paura nella gente? Giocando in modo vergognoso con i numeri? La spiegazione può apparire semplicistica. Ma la riposta è proprio nei numeri, in particolare, quelli delle intensive. Il numero dei ricoverati nei reparti di terapia intensiva ha raggiunto punte massime, diciamo poco al di sotto dei 4000, nei mesi di marzo 2020, novembre 2020, marzo 2021. Attualmente (ieri) i degenti sono 558. Da mesi si ripete, che la capienza massima, delle intensive, prima dell’epidemia intorno alle 5000 unità, poi portata a circa 8000. rischia il collasso (4). Però, i “tachimetri” della sanità, ad esempio di ieri, indicano un numero ricoveri, assolutamente non preoccupante (5). Eppure si continua “a martellare” mediaticamente. Perché? Per una ragione semplicissima: si teme che le strutture pubbliche, quindi le intensive, non riescano a far fronte ai propri doveri, in caso di un’ impennata epidemica, pardon pandemica, in novembre. Si chiama insicurezza. Paradossale per uno stato edificato sulla sicurezza sociale… E, anche se non si ammette, si tratta di sfiducia delle stesse istituzioni persino nelle vaccinazioni. Di qui però, come dicevamo, il martellamento e i titoli compiacenti, come quello Ansa: titolo ( e non è il primo) che in fondo riflette tristemente l’andamento massmediatico generale. In sintesi, per non mettere a rischio la credibilità del welfare state si terrorizzano le persone. Naturalmente i difensori della sanità pubblica, in primis il governo (ma anche le opposizioni non scherzano), sostengono che le politiche limitative del libertà, sono temporanee e soprattutto per il bene dei cittadini. Sostengo invece che il discrimine fra interessi politici e interessi burocratici da una parte, e sincero interessamento per le vite dei cittadini dall’altra, sia molto sottile e non facilmente individuabile. Inoltre ritengo che si sia si prodotto un micidiale mix di interessi e valori, per così dire, politico-burocratici, difficilmente controllabile nei suoi pericolosi effetti di ricaduta. Anche perché – ammesso e non concesso, eccetera, eccetera – le buoni intenzioni non bastano. Esistono dinamiche sociologiche, di inglobamento, spesso totale, dell’individuo da parte delle istituzioni, che una volta avviate, non è facile fermare o tenere sotto controllo Una cosa invece è certa. Quale? Che si va consolidando una tendenza a tramutare in traditore chiunque osi sollevare obiezioni e dubbi. Ovviamente, il clima di intimidazione, favorisce gli opposti estremismi dei Pro vax come de No vax. Il che spiega gli insulti e le incomprensioni, anche verso chi scrive. Insomma, le difficoltà relazionali, cui accennavo all’inizio. Quando si tornerà alla normalità? Difficile dire. (Carlo Gambescia) P.S. Ci scusiamo per la formattazione. Ma purtroppo per il momento meglio di così...