lunedì 31 agosto 2020

Referendum sul taglio dei parlamentari 
CasaPound  vota No, perché? 

In Italia in principio non era il Verbo, ma l’antiparlamentarismo. Purtroppo, siamo giunti tardi alla democrazia liberale, per questo motivo gli italiani  - come dire? per tardiva e imperfetta interiorizzazione -  non hanno mai  mostrato  di credere nelle istituzioni rappresentative.
L’Italia si  è  addirittura inventata il fascismo, nemico numero uno del liberalismo e padre nobile del nazionalsocialismo.  A dire il vero, anche la sinistra -  comunisti e larga parte dei socialisti -    ha sempre visto nel Parlamento una pura e semplice arma politica in attesa della rivoluzione.  Le Camere come  “roba da signori” e per giunta corrotti, secondo l’ultima vulgata populista di  destra come di sinistra.  Il che spiega  perché quasi tutte le forze politiche italiane, per non scontentare un elettore antipolitico e antiliberale,  abbiano  scelto di votare  Sì.
Quel che però  meraviglia   è che un’ associazione politica come CasaPound Italia, che rivendica, con ammodernamenti, eccetera, l’eredità antiliberale  di Mussolini, abbia deciso di votare per il No.
Lasciamo la parola a  CasaPound.

“Siamo convintamente  contro il taglio dei parlamentari, una riforma tanto inutile quanto demagogica, alla quale i Cinquestelle si attaccano per non perdere anche l’ultimo brandello di identità che gli è rimasto (…). Non è questo il momento storico di ridurre la rappresentanza del popolo italiano in parlamento”, proprio ora che “poteri finanziari e sovranazionali tremendamente forti, grandi e pervasivi mettono sotto attacco quotidianamente la sovranità popolare” (…). Rifiutiamo questa concezione gretta della politica come ‘spreco’ tanto più se nasconde il desiderio di gestire senza problemi il potere, come Conte ci ha dimostrato in questi mesi, prima ancora che con la gestione a colpi di dpcm dell’emergenza coronavirus, riuscendo a fare  due governi successivo con due governi successivi con due opposizione diverse” (*).


Cosa ha spinto  CasaPound   a sposare la causa del No?  
Probabilmente, in prima battuta,  una scelta di mercato elettorale, legata alla diversificazione dall'identico prodotto politico  venduto da quasi tutti gli altri partiti, ossia  il Sì.
In secondo luogo,  come si può leggere, le motivazioni  non si discostano  dal consueto armamentario ideologico della destra radicale imperniato sulla difesa della sovranità nazionale dai tentacoli  dei poteri forti economici internazionali. Quindi nessun ripensamento sulla democrazia liberale, anzi… 
In terzo luogo, siamo davanti alla  tipica difesa, in termini di politica pura,  dei  margini di sopravvivenza minacciati  da un governo autoritario che  non ammette repliche  e  da un’opposizione che tende a fagocitare chiunque si muova alla sua destra. 
Perciò va riconosciuto che per certi aspetti si  tratta di una scelta coraggiosa.  Che alle ragioni del marketing  affianca  il rifiuto di ridurre la politica a pura amministrazione, posizione  in linea con certo misticismo  fascista di natura elitistica.
Si tratta tuttavia,  per metterla in termini di storia dell’idee (alti), di un  elitismo al servizio di un’idea antiliberale. Assai diverso dall’elitismo che permeava  il  liberalismo classico  (pensiamo a Constant e  Guizot, in particolare ),  il  liberalismo sociologico ( ad esempio a   Pareto e Mosca)  ed economico (Einaudi, tra gli altri):  un liberalismo triste, realista, a guardia dei fatti,  che,  come con  Giolitti e Churchill,  ha sempre scorto  nella democrazia parlamentare  il male minore.  

L’elitismo fascista evoca  invece,  fin troppo gaiamente,   il bene  maggiore.  Vuole la Luna Politica, insomma. O se si preferisce, Marte... Un obiettivo che la teoria moschiano-paretiana della circolazione delle élites e la michelsiana   legge ferrea delle oligarchie  hanno designato come utopica, dimostrandolo scientificamente.  Senza per questo - attenzione - rifiutare la mediazione della democrazia parlamentare, vista dalla scuola elitistica italiana (con qualche cedimento cesarista in Michels) come  unica via possibile.  
Di qui per contrasto,  il romantico  veleggiare dei movimenti neofascisti tra tendenze corporativiste  e autoritarismo nazionalista in nome di una terza via che produsse solo disastri.   
Perché?  Il punto fondamentale  è che  alla base dell’elitismo liberale c’è l’individuo, che può decidere  liberamente di  evolvere o meno. Per contro,  alle radici  di quello fascista  c’è lo stato, che si riserva di decidere come deve evolvere l’individuo.          
Tra le due  concezioni,  in definitiva antropologiche,  non c’è ponte. Certo, si può votare No, però  antiliberali si resta.   Cosa di cui, ne siamo sicuri, CasaPound Italia va fiera... 

Carlo Gambescia

                                            
(*)  Per il testo completo si veda qui:  https://www.casapounditalia.org/    

domenica 30 agosto 2020

Perché l' elettore di destra si vergogna di dichiararsi tale?


Nel notevole articolo  di Mario Sechi sulla campagna per le presidenziali americane, viene fuori un’osservazione di  natura generale,   sociologica.  L’elettore di destra, o comunque nei pressi, si vergogna di dire che voterà per Trump: il che, dati alla mano, come mostra Sechi, potrebbe falsare i sondaggi, che ora sono a favore di Biden. Insomma, Trump potrebbe vincere un’altra volta.  Ma lasciamo la parola a Sechi.

«Per quale ragione un repubblicano, un potenziale elettore di Trump teme di dichiarare le proprie intenzioni? Cloudresearch cita un paio di risposte ricorrenti che colpiscono, dipingono un quadro istruttivo dell'immaginario americano e in particolare degli elettori conservatori: pensano che l'informazione non resti confidenziale; che la telefonata possa essere registrata e diventare pubblica; che esprimere idee che non coincidono con la visione liberal possa danneggiarli; che le opinioni politiche possano nuocere al lavoro e alla famiglia (e queste risposte sono significative sul clima generale nel paese, di profonda divisione); che i sondaggi fanno parte della propaganda politica di un partito o dell'altro; che non vogliono essere interrotti continuamente al telefono, bombardati da chiamate e messaggi email» (*).

Al di là della rielezione o meno di Trump, il punto sociologico, o se si vuole politologico, della questione -  cosa che sondaggisti ed esperti non solo americani   ben conoscono -   è costituito dal fatto che l’elettore di destra si vergogna di dichiarasi tale, al contrario di quello di sinistra, che invece sbandiera le sue idee senza problemi.  
In genere, come provano gli studi di psicologia elettorale, a non dichiarare per così dire   la propensione a destra  sono gli indecisi ma soprattutto  gli elettori non militanti, ossia gli elettori   simpatizzanti, sui  quali però  l’antipatia per la sinistra, fa premio sulla simpatia per la destra. Sfumature, ma in sede di voto, sede motivazionale,  molto importanti. Siamo davanti  a un elettore volatile (perché all’ultimo minuto potrebbe cambiare idea o addirittura non votare) che potremmo definire antipatizzante.

Al di là di quanto afferma Sechi sulla paura del conservatore di venir danneggiato dalla ufficializzazione del suo voto a destra ( elemento che pure conta, ma non in assoluto), va  ricordato un fattore, staticamente sfuggente, ma importante: quello del complesso di inferiorità dell’elettore di destra, in particolare quello volatile, l’elettore antipatizzante, nei riguardi della sinistra.
A dire il vero l’argomento  finora risulta poco approfondito (**), perché  rinvia al classico e insoluto (probabilmente insolubile) problema sociologico di come determinare in termini di rapporto tra  causa ed effetto e (soprattutto) di teoria della scelta razionale le ragioni della socializzazione politica e delle motivazioni di voto.
Si può dire che quanto più una società è polarizzata politicamente tanto  più le dichiarazione di voto sono vicine alla realtà, quanto più la quota di voti non è volatile tanto più l’elettore (in particolare di destra) non si vergogna di dichiararsi tale. L’aderenza tra voto dichiarato e voto reale attesta, contrariamente a certi luoghi comuni,  tutta  la forza  della polarizzazione politica tra destra e sinistra.
Ma perché l’elettore antipatizzante e volatile teme di ufficializzare il proprio voto?  Come accennato, si tratta di un complesso d’inferiorità, spesso vissuto in modo inconsapevole,  verso la percezione del  senso della storia, percezione  monopolizzata  dalla sinistra, in particolare nell’ultimo dopoguerra. Esiste  il timore  di essere giudicati, rispetto all’universo colto,  egualitario e pacifista condiviso dalla sinistra, come  persone arretrate, ignoranti, classiste e  intolleranti. Il che spiega, ripetiamo, perché l’elettore di sinistra non si vergogni di dichiararsi tale.  Perché vergognarsi di essere dalla parte giusta della storia?   

Va detto,  che  la destra, storicamente parlando, a differenza della sinistra, schierata giustamente, piaccia o meno,  dalla parte dei vincitori, risentì moltissimo sul piano dell’immagine sociale  del tornado nazifascista. Una gigantesca  tempesta politica,  che travolse,  piegandole  ai suoi  voleri, larga parte delle forze politiche moderate, dai liberali ai socialisti e cattolici,   partiti che in precedenza  captavano i voti dei ceti medi.   
Una complicità politica, vissuta in modo virale, come si direbbe oggi,   che  “dopo la caduta”   ha reso la vita  elettorale  dei partiti di destra, tanto più difficile quanto più si spostavano verso l’estrema destra, o comunque si allontanavano dalla mediazione al centro del sistema.  Di qui, per un verso la natura  moderata  delle destre post belliche, e per l’altro  il  complesso di inferiorità dell’elettore antipatizzante.
Il punto, per chi studia queste cose, non è chi abbia (politicamente)  ragione o meno,  ma che il complesso di inferiorità  rende  complicato il lavoro previsionale  dei politologi, come ovviamente dei sondaggisti.
Certo, il dato della polarizzazione ha  una notevole implicazione  di tipo  “crisiologico”. Quanto più diminuisce l’elettore antipatizzante, tanto più il sistema  rischia di sfaldarsi e di favorire per reazione  l’insorgenza di una destra radicale e antisistemica composta di elettori in larga parte militanti e simpatizzanti tout court.  Di qui, in una fase di declino della destra moderata, l’importanza dello sviluppo di  una sinistra intelligente, capace di intercettare il voto dell’elettore antipatizzante, non calcando troppo la mano sul suo essere dalla parte giusta della storia e soprattutto non demonizzando gli avversari: l’elettore antipatizzante può essere conquistato solo spostandosi  al centro. E sia chiaro, non sposando la causa del populismo di sinistra perfettamente complementare, sul piano distruttivo,  a quella  del populismo di destra.          
Per tornare a Trump, vincerà?   Può darsi.  Ma non per questioni di interesse.

Carlo Gambescia

(**) Come esempio al riguardo si veda  ITANES, Sinistra e destra. Le radici psicologiche della differenza politica, a cura di P. Castellani e P. Corbetta,  il Mulino, Bologna 2006.                           

sabato 29 agosto 2020

Covid-19,  il  ponte aereo e navale dalla Sardegna
Fine epidemia mai


Addirittura un ponte aereo e navale dalla Sardegna per il rientro dei positivi? Perché meravigliarsi?
Insistiamo il Covid-19  è la prima epidemia al tempo del populismo. E si rischia che non finisca più. Si rischia, politicamente. Perché? Qui il vero virus è il populismo.  Un’ideologia che  ha  “contagiato”,  dettando o influendo  sull’agenda politica, anche partiti in passato refrattari alla demagogia. Si pensi ad esempio  all’atteggiamento convergente delle forze politiche  italiane dinanzi al referendum populista che scorge  nel parlamento soltanto  un costo. Oppure  alle oziose  polemiche, sempre tra tutti i partiti,  sulla riapertura “sicura” delle scuole,  nel nome di una  utopistica  sicurezza,  che però viene "venduta"  come verosimile, accrescendo aspettative, timori, paure.      
Il populismo, almeno quello contemporaneo, rimanda in alto,  a un atteggiamento protettivo, esageratamente protettivo, delle élite verso il cittadino,  e in basso,  nella ricerca sfrenata da parte del popolo della protezione totale da ogni forma, anche minima, di rischio sociale. Il populismo, in qualche misura, è la malattia terminale del welfarismo, ossia di un’ assistenza sociale estensiva, come si diceva un tempo, “che  va  dalla  culla alla tomba”.   Di qui,  l’odio del “popolo”  verso i partiti, che  vengono visti come  d’intralcio alla distribuzione sociale della ricchezza, e verso la ricchezza perché non vuole farsi espropriare.

Ormai, qualsiasi politico,  che non si pieghi a questa  visione a dir poco rozza  della dinamica sociale, viene designato come “nemico del popolo”.  E poiché la sua elezione dipende dal voto dei cittadini si determina una continua  corsa al rialzo  tra i partiti a chi prometta maggiore protezione sociale.  
Ovviamente  - e veniamo al punto - in tale clima politico,  un’epidemia non può che diventare  una specie di bomba atomica. Detto in altri termini,  un gigantesco banco di prova  per dimostrare che “nessuno verrà lasciato solo”. Se in altri tempi,  un’epidemia di influenza  era  una questione squisitamente medica e individuale,  con l’avvento del populismo si è invece  tramutata, complice l’atteggiamento di istituzioni sanitarie in larga parte  fanatiche sostenitrici del fantomatico diritto alla salute,  in una pandemia -  quindi  un fatto collettivo -  che minaccia tutti i popoli della terra.
Il che spiega l' organizzazione di un ponte aereo e navale  dalla Sardegna per il rientro dei positivi (quasi tutti asintomatici): i dati sulle intensive sono risibili (*), eppure si continua  “come se”…

Si evoca, da parte delle élite populiste, volenti o nolenti,  il "principio di  precauzione" che non è altro  che  il braccio armato ideologico del welfare state.  Un principio assai elastico che costituisce  la principale  fonte del potere dello stato:  un entità istituzionale che, come qualsiasi gruppo sociale,  ritenendosi preveggente (ossia  di “saperne” più di tutti gli altri), moltiplica i pericoli, anche dove non vi sono, per rafforzarsi, seguendo ovviamente la logica  egemonica  di ogni gruppo sociale.
Il tutto, naturalmente, avviene  in nome del popolo, che tra l’altro sembra ben contento di scambiare la libertà con la sicurezza.  
In questo pesante clima populista, come ripetiamo da tempo, l’emergenza, tramutata in risorsa politica, rischia di non finire più. E con il consenso popolo.

Carlo Gambescia   


(*) 74 ricoverati in intensiva, dati Ministero della Salute, ultimo aggiornamento 28 agosto 2020:   http://www.salute.gov.it/portale/nuovocoronavirus/dettaglioContenutiNuovoCoronavirus.jsp?lingua=italiano&id=5351&area=nuovoCoronavirus&menu=vuoto

venerdì 28 agosto 2020

Prosegue lo scontro sulla riapertura delle scuole
Regionalismo e partitocrazia


In Italia, storicamente parlando, le regioni non sono mai esistite. È vero che  il regionalismo ha radici risorgimentali, ma nel “Risorgimento Altro”, quello per capirsi confederale,  che si  proponeva un’unificazione dimezzata  sulla base di una blanda unione degli stati italiani costituzionalizzati, sotto il potere formale del Papa  per gli uni, o sotto quello  di una assemblea repubblicana per gli altri.
Naturalmente abbiamo semplificato,  ma solo per ragioni di ridotto spazio argomentativo. Crediamo basti  il concetto.  Quale? Che il regionalismo quello della nostra Carta costituzionale,  del titolo V (peggiorato dalla riforma  del 2001, opera della sinistra),  non ha alcun fondamento storico, se non nella bizzarra  zucca  dei  costruttivisti  repubblicani del 1948.
In Italia sono esistiti principati, signorie, regni,  trasversali alle regioni attuali, ma  anche liberi comuni province di confine o marche  (giustamente recepiti dalla Costituzione),  ma non  le regioni come oggi delineate.  L’Italia è la patria del campanile unito al santo, campanile sempre pronto a dividersi in fazioni, e quest’ultime in  conventicole, le une contro le altre armate. E l'ordinamento  regionale, sia detto per inciso, ha moltiplicato questo fenomeno. Se si vuole, accresciuto la litigiosità interna ed esterna, come vedremo, con la complicità dei partiti,  o meglio  della partitocrazia: rivincita, quest'ultima, della patologia sulla fisiologia dei partiti, per dirla con Maranini.     
Un passo indietro. Nel 1848-1849,  biennio che fu l’ultima prova generale, del “Risorgimento altro”,  Milano, Roma e Venezia, si presentarono regolarmente  divise all' interno: i comuni lombardi, laziali e veneti non erano d’accordo su nulla, se non  nel diffidare del Piemonte...  Sicché per gli avversari dell' unificazione  italiana fu facile vincere  e imporre il vecchio ordine. Fortunatamente la lezione fu utile fino al punto di favorire  nel 1859-1861  la vittoria dell’idea unitaria.  Soprattutto  grazie al genio di Cavour e   all’intelligenza politica dei liberali moderati: un'  impresa nobile e difficile aiutata dalla spada di re Vittorio Emanuele II e del generalissimo Garibaldi.      
Da allora fino al 1948  non si parlò più di regionalismo:  un mostro a più teste, reinventato, come detto,  dai costituenti repubblicani, tra i quali vi erano molti nemici storici  dello stato unitario dai cattolici ai  repubblicani, dai socialisti ai comunisti. Mostro che nel 1970, anno delle prime elezioni regionali, rialzò concretamente la testa, anzi le teste: quelle dei partiti...   

Premessa lunga, di cui ci scusiamo, ma che serve a spiegare il caos di questi giorni sulla riapertura delle scuole.  Ogni regione, vuole fare da sola, opponendosi alle altre e al governo. Di qui, uno stato di continua fibrillazione politica che favorisce l' incertezza e la sfiducia dei cittadini nelle istituzioni pubbliche, a livello centrale come periferico.
Qui non si tratta  di stabilire con un tratto di penna una volta per tutte la delimitazione perfetta  delle competenze, ad esempio sulla scuola. Il vero punto è che le regioni, da sempre nelle mani di una prepotente partitocrazia locale, ostacolano in modo sistematico i processi  decisionali di implementazione delle leggi nazionali. 
Per fare solo un esempio, si pensi alla vicenda dei navigator -  per carità, nel merito se ne può, anzi si deve,  parlare male -  ma l’iniziativa è stata sabotata, ufficialmente o meno,  nelle  regioni  dominate dal centro-destra,  diviso al suo  interno ma  unito  nella lotta al governo giallo-verde. O addirittura in regioni controllate  da ras locali del partito democratico, contrari però a Zingaretti...
Insomma,  il regionalismo è il  doppione inutile e pericoloso  della partitocrazia. Altro che referendum costituzionale sulla diminuzione del numero dei parlamentari… Il vero referendum che andrebbe fatto è  sull’abolizione dell’ordinamento regionale:  un sistema  che paralizza l’Italia,  usato da leader politici locali  per pianificare la propria carriera e ricattare politicamente non solo gli avversari politici  ma  gli stessi compagni di partito, seguendo un movimento a spirale che devasta l'intero sistema dei partiti, in alto e in basso.  Un disastro.
Chi scrive è liberale ma unitario. Perché idealmente fedele alla lezione storica  del Risorgimento.  Ciò non significa che  lo  stato  debba per forza diventare una struttura accentrata e autoritaria come durante il fascismo. Il vero nodo da sciogliere è come evitare che l'attuazione delle leggi, una volta discusse in Parlamento e deliberate dal Governo,  non  sia rallentata o sabotata in nome di  interessi localistici  sfruttati dal  cosiddetto doppione partitocratico.
Impresa non facile perché purtroppo partitocrazia e regionalismo vanno  di pari passo, l’una utilizza l’altro e viceversa, a livello centrale e periferico. Ecco il senso del termine "doppione partitocratico".  Ma questa, almeno per oggi,  è un’altra storia.     

Carlo Gambescia       
                      

giovedì 27 agosto 2020

Nello Musumeci e il senso dello stato a  intensità variabile


Nello Musumeci,  “Governatore” della Sicilia,  con un passato missino mai rinnegato,  sembra diventato il nuovo  idolo delle destre. Su "Libero",   Alessandro Giuli, che ricordo bello, giovane e ansioso  ai tempi di “Officina”, parla addirittura della Sicilia come di  un modello pilota. Ma verso che cosa? Il fascismo e il razzismo, come grida la sinistra all’unisono?  Cosa ci si può attendere  da un politico  come Musumeci che parla del regime fascista in termini di “luci e ombre”?  O comunque come di una dittatura che  avrebbe utilmente  favorito la costruzione di infrastrutture economiche  e sociali? Presto detto.  Ci si può aspettare  la  replica  da ore piccole di certo  decisionismo mussoliniano, più leggendario che reale, perché intriso di opportunismo politico: un attivismo psico-politico-motorio che purtroppo ancora ipnotizza gli italiani.
C’è  però  un aspetto di fondo che distingue la destra neofascista alla quale culturalmente  ha attinto e attinge Musumeci. Quale? La pericolosa confusione tra  stato e governo.  Cosa intendiamo dire? Se Musumeci  avesse senso dello stato non  sfiderebbe le istituzioni solo per guadagnare voti.  Come, ad esempio fece  Mussolini,  che dopo la Marcia su Roma, una volta al governo, confondendo stato e  governo, istituzionalizzò lo stipendio sicuro per gli squadristi,  inventandosi la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale.
Se si ha senso dello stato, non  si tratta lo stato  come una volgare  risorsa al servizio delle lotte per il potere:  per conquistarlo come per non perderlo.  
Se c’è una tradizione politica portata  a distinguere tra stato e governo probabilmente si tratta della tradizione liberale,  avversata -  quando si dice il caso -     da fascisti, socialisti, comunisti e cattolici: tutti culturalmente portati a considerare lo stato secondo un furbo doppio registro: 1) come cosa propria quando si è al governo; 2) come realtà da contrastare quando si è all’opposizione, come del resto prova il comportamento politico di Musumeci.  Insomma, lo stato, ripetiamo,  come  triviale  risorsa politica.
Cosa significa invece avere senso dello stato? Due esempi: Cavour  favorì la laicizzazione  del Piemonte,  ponendo le confessioni religiose sullo stesso piano, distinguendo così tra stato e governo, tra uno stato finalmente terzo, e un governo clericale al quale  sarebbe invece convenuto continuare a vivere all’ombra del religione, per rafforzare il proprio potere assoluto.  
Giolitti, a sua volta,  in linea di massima,  non amò mai intervenire  nei conflitti del lavoro tra industriali e sindacati perché riteneva, difendendo la terzietà delle istituzioni pubbliche,  che lo stato non dovesse parteggiare per nessuna delle parti  sociali in conflitto. Si doveva invece permettere che le parti, come le fedi,  trovassero liberamente  la propria  strada,  senza mai  vellicare i particolarismi  distruttivi  delle istituzioni pubbliche.
Musumeci, invece che fa?  Facile previsione.  Ora, stuzzica  il micronazionalismo dei siciliani,  perché   a Roma c’è un governo  di sinistra,  poi una volta diventato  ministro di un governo di destra, si tramuterà  nel persecutore, oltre che  degli immigrati,  delle autonomie, coinvolgendo così di nuovo lo "stato-governo" ma come nemico degli amici di prima, in nome del macronazionalismo, diciamo  formato famiglia italiana.  Salvo poi una volta tornato all'opposizione, tuonare, eccetera, eccetera. Altro che terzietà delle istituzioni... 
Ecco che significa non avere senso dello stato.  O averlo a intensità variabile... E soprattutto, ecco  ciò che distingue un liberale da un fascista.

Carlo Gambescia        

mercoledì 26 agosto 2020

 Marcello Veneziani e l’interpretazione onanistica di Nietzsche

Perché Veneziani non tace?  Quando non si conosce l' argomento o  non si  ha nulla da dire  si deve  tacere.  Si chiama rispetto per i lettori. E per se stessi.  Invece  Veneziani  continua a pubblicare  editoriali e articoli  puro frutto di  combinazioni scrittorie: bolle d’aria spesso neppure in bello stile, O se si preferisce,   divagazioni letterarie su  temi vari  (dalla filosofia alla politica, dal costume alla storia): testi, in realtà,  privi di qualsiasi plusvalore culturale. Non si può essere  Ugo Ojetti senza essere Ugo Ojetti…
Si prenda da  ultimo, uno scritto su Nietzsche. Veneziani lo definisce “biosofo”, perché “scopritore delle sorgenti sanguigne della vita”, senza però  approfondire, se non in modo stiracchiato nella chiusa,  dove si legge:       

“Nietzsche non invoca la distruzione dei valori ma la loro trasvalutazione e aggiunge un’osservazione decisiva: in mancanza di valori tocca a noi essere valorosi, cioè caricarci sulle nostre spalle di tutto il peso della perdita di valori. Titanismo tragico per un soggetto destinato a tramontare. Alla fine non è la storia ad accogliere la sua visione ma la natura, il ritmo del cosmo, l’eterno ritorno dell’universo. L’innocenza tragica e giocosa di Nietzsche, biosofo” (*).

Se Veneziani avesse letto Simmel, che traspose sociologicamente il pensiero di Nietzsche,  si guarderebbe bene dall’ inneggiare  al suo vitalismo.  Perché la biosofia  non è altro che la riproposizione di un invasivo vitalismo  che, come ravvisa Simmel (e dopo di lui Weber),  privilegia lo  stato nascente, il movimento (che può essere politico e sociale),  rispetto all’istituzione (lo stato di diritto ad esempio). Il che significa spalancare le porte della città politica  al movimentismo politico a ogni costo,  alla pancia per non dire di altro:   dai  fascisti ai teorici di Contropiano.     

Certo Veneziani, nel tentativo, non sappiamo se cosciente o meno,  di depotenziare il vitalismo per distaccarlo  dalle  distruttive interpretazioni “politiche” di Nietzsche, insiste sulla necessaria  captazione  individuale del vitalismo (ciò che lui, ripetiamo, denomina “biosofia”), come se le idee  non avessero alcuna ricaduta collettiva.  Detto altrimenti,  Nietzsche “vitalista”, ma per singoli  amatori.

L’interpretazione  di  Veneziani è onanistica due volte. La prima perché  tipica di certa destra neofascista che si atteggia ad aristocrazia del pensiero, manipolando  comunque  ciò che è sotto l’ombelico sociale.  La seconda perché ipocritamente si rimanda alla  scelta individuale:  al Nietzsche a inserto sigillato per  uomini soli, come certe rivistine pornosoft di un tempo.   
In realtà il vitalismo  è una specie di bomba (sociale) a  orologeria  che  ha origini romantiche. Un certificato di nascita che rinvia  alla ottocentesca  rivolta contro la “forma”  della  ragione in nome  dei "contenuti"  post-ombelicali della vita.  Come dicevamo, del movimento contro l' istituzione.  
Un clima torbido quindi,  che precede e supera Nietzsche.  Di qui l’inevitabile rischio di  implosioni politiche e sociali. Siamo davanti a una devastante dinamica  vitalistica che  appesta il clima intellettuale dell’Occidente da almeno un secolo e mezzo: da  De Gobineau a Tarantino. Una questione che non può essere compresa né affrontata cavalcando individualmente, in chiave onanistica,  il vitalismo nietzschiano.  
Sicché  il problema non è Nietzsche ma il vitalismo.  Ciò che Veneziani, credendo di aver fatto chissà quale scoperta, chiama biosofia. 
Concludendo, sarebbe buona  regola,  parlare e scrivere solo di quel che si conosce.  O altrimenti tacere.

Carlo Gambescia          


martedì 25 agosto 2020

Il senso “civico” degli italiani
La lupa in metro


Ieri un amico, in privato, al telefono, mi accusava di essere eccessivamente  duro  con gli italiani. “Non esistono popoli perfetti”, tutti  i  popoli, chi più, chi meno, hanno  pregi e difetti”, questa la sua  tesi.  
Probabilmente,  è così.  Non esiste il determinismo razziale.  Però è altrettanto vero che la questione esiste, anche se di tipo culturale:  per usare un parolone di “antropologia civica”. 
Chiunque abbia viaggiato nell’Europa del Nord non può  non  aver  notato l’altro grado di civismo di inglesi, tedeschi,  olandesi danesi,  svedesi, norvegesi.  Può sembrare una banalità, ma in quei paesi  si fanno le file e si rispettano le regole civiche. A maggior ragione nelle emergenze.  
Da noi invece è tutta un’altra cosa. In Italia, manca il rispetto verso l’altro, che nasce dal rispetto verso se stessi.  Giorni fa ero in metropolitana, avevamo  tutti  la mascherina ("calzata"),  eccetto  una bambina, a occhio di età superiore a sei anni,  che seduta  accanto alla mamma,  starnutiva rumorosamente, creando intorno a sé  l’inevitabile  vuoto.   Naturalmente -  ecco  il latitante senso civico degli italiani -  tutti   zitti e chini sugli smartphone, come se niente fosse.   L’unico che ha osato fare un commento -  il sottoscritto -  si è sentito rispondere che la bambina  "portava"  la  mascherina, che io me la prendevo con una piccola innocente  e che se avevo di questi problemi potevo anche prendere un taxi.

Questa donna  - la  madre -  ha mentito  nella piena consapevolezza  di mentire,  insomma spudoratamente, mostrando così di non aver alcun rispetto per se stessa, per la figlia e per  i presenti.  Inoltre,  il silenzio degli altri passeggeri ha evidenziato un’estesa  mancanza collettiva di senso civico.  
Ovviamente, un piccolo episodio, ma significativo. Purtroppo  l’ Italia non è  una nazione,  ma una  federazione di famiglie, dotate di forti istinti animali.  Probabilmente  gli italiani sono  vittime di un istinto  culturale atavico,  che gli antropologi chiamano familismo: quella  madre  ha semplicemente difeso come una lupa la sua lupacchiotta. Una cosa normale...
Detto altrimenti, la nascita della società implica  il contratto, ossia l’accordo sul rispetto da parte di tutti di alcune regole, di qui il  civismo di cui sopra. Per dirla con Hobbes, la società italiana   non ha mai assimilato culturalmente  il contrattualismo: nonostante l'alto numero di smartphone posseduti,   ampie sacche di italiani  vivono tuttora   in una specie di stato animale, pre-contrattualistico, dove alla prima occasione l’uomo si fa lupo all'uomo. 

Il civismo deriva  dal contrattualismo, un'idea teorizzata modernamente  in Gran Bretagna ,  poi diffusasi nel resto dell’Europa e del mondo. Le idee hobbesiane furono migliorate e perfezionate da Locke, padre senza saperlo del liberalismo moderno.Ovviamente l’idea liberale del contratto  non ha conquistato tutti  gli uomini  con la stessa intensità.  Il che perciò  spiega a grandi linee le differenze "civiche" tra nazioni nordiche e mediterranee.
Uscendo dalla metro, in pieno centro di Roma,  non ho potuto non osservare un  tappeto di mascherine verdastre, lasciate cadere  distrattamente  in terra da  altri  familisti  nostrani.  
Certo, le strade della  città non  sono pari ai salotti domestici…  Quindi che si fa? Si getta tutto per  la via.  Normalissimo, no?    



Carlo Gambescia                  

lunedì 24 agosto 2020

Rileggere  Renzo De Felice per capire l’Italia al tempo del Covid
Il popolo di Pulcinella (o di Arlecchino)

Il fascismo crollò come un castello di carte, e Mussolini morì politicamente il 25 Luglio,  per sua stessa ammissione, sotto il peso della guerra.
Un conflitto, certamente dalla parte sbagliata, che tuttavia  gli italiani, a differenza della "Grande Guerra",  non riuscirono a sostenere moralmente fino in fondo. E questo a prescindere dal carattere fascista del conflitto.  
Mancanza di dirittura?  A riprova di ciò va ricordato che  gli italiani, non furono poi  in grado di  battersi in massa nella successiva guerra civile.   Il novantacinque per cento di essi rimase alla finestra, in tremebonda  attesa che finisse tutto:  il "popolo"  non   si schierò con gli uni  né con gli altri…  Però,  quasi tutti gli italiani  rimpiangevano i beati tempi della pace, "quando l'Italia era rispettata nel mondo". Senza però soffermarsi più di tanto sull’assenza di libertà.
Nella colossale biografia mussoliniana (purtroppo incompiuta), Renzo De Felice, probabilmente il  più grande storico italiano della seconda metà del Novecento,  ha descritto con maestria  l’abulia degli italiani di allora.  De Felice ha ben colto  quel  nichilismo  morale  che però a  nostro avviso  viene  da più lontano, probabilmente dai primi secoli dell'età moderna.  Un nullismo culturale  che vede l'italiano  teso  al proprio  particolare,  pronto a servire qualsiasi padrone  pur di servire se stesso, soprattutto nei passaggi storici più complicati: si sposano tutte le cause,  per pura convenienza, senza mai realmente credere in nessuna di esse.

Ora l’epidemia di Covid non è pareggiabile a una guerra mondiale, ma il comportamento degli italiani, pur più pasciuti e viziati, ricorda quello degli italiani di allora. 
Qualche esempio. Si seguono le normative ma appena possibile si tende ad aggirarle. Si sfruttano tutte le possibilità economiche offerte dal “sistema”, ma al tempo stesso se ne parla malissimo.  Si  mostra apparentemente fiducia nel “Capo del Governo” ma si è prontissimi a girare le spalle alle prime esitazioni. Si implora protezione, ma si vuole continuare a  fare i propri comodi. E soprattutto, inizia  a  farsi largo l’idea che la guerra al Covid debba finire  a qualsiasi costo, anche spezzettando l’Italia  in tanti comuni, province, regioni, armati e chiusi gli  contro gli altri.  Si pensi ad esempio al comportamento del siciliano Musumeci,  tra l’altro vecchio unitarista e statalista neofascista…  E' come se egli votasse di nuovo l'ordine del giorno Grandi...
Chi scrive, come i lettori ben sanno, da mesi auspica il ritorno alla normalità. Il punto è che gli italiani, si pensi solo alla questione dello smart working, vogliono tornare alla normalità, ma conservando i  privilegi sociali e lavorativi introdotti  dal Governo giallo-rosso. In sintesi, la gente vuole che resti l’economia di guerra, senza la guerra.  Del Covid, agli italiani  piacciono troppo le misure sociali. Un passo indietro:  la guerra del 1940  prima rallentò  poi  impedì la costruzione dello stato corporativo -  il nonno del moderno welfare state -   che tutto sommato piaceva agli italiani, che,  mai dimenticarlo, alla libertà hanno sempre preferito la sicurezza, anche perché  "culturalmente" certi di aggirare, come anguille,  tutti  gli ostacoli,  a prescindere dal regime politico,  democratico o dittatoriale.   

Sicché, per il Governo Conte  il 25 Luglio e il successivo  8  Settembre  potrebbero  scaturire proprio dalla questione sociale, o meglio dall'implosione fiscale dell’assistenzialismo sociale, detto altrimenti, dalla crisi finale  del welfarismo:  un mix  di debito pubblico, sprechi, privilegi e iniqui tributi.
Insomma, gli italiani  continuano a sognare i fascisti senza il fascismo, gli  americani senza gli americani, i democratici senza la democrazia,  il capitalismo senza il capitalismo,  il welfare senza i tributi del welfare,  l’epidemia di  Covid senza i malati di Covid.     
Cosa osserva   De Felice,  parlando del disonorevole fuggi fuggi di ufficiali e soldati l'8 Settembre? Che dominava  tra gli italiani  "un desiderio di uscire dall’incubo della guerra (…) che si accompagnava però a un sentimento diffuso  di paura e incertezza, che non poteva non  accrescere la tendenza alla passività, ad estraniarsi dalle vicende politiche e a preoccuparsi solo di se stessi" (*). 
Niente di più  facile che accada di nuovo. Parliamo di  un popolo portato da secoli  a identificarsi con la maschera di Pulcinella ( o di Arlecchino). 

Carlo Gambescia

(*) Renzo  De Felice,  Mussolini l’alleato. La guerra civile (1943-1945),  Einaudi, Torino 1998, pp.  76-77.

sabato 22 agosto 2020

Massimo Boldi, il complottismo e l’anticomplottismo
La lezione della sociologia


Che c’entra Massimo Boldi, un attore simpatico e brillante  con l’ analisi  sociologica?  Con la barbosità dei sociologici?
Il punto è che “ Max Cipollino” ha postato un commento sulla sua pagina Fb che si presta ad alcune riflessioni  più generali sul ruolo della sociologia e sulla comprensione di  un  fenomeno di rilevanza sociale, come il complottismo, oggi in crescita anche grazie al  ruolo giocato dai social.
L’argomentazione di Boldi parte dall’uso delle mascherine per arrivare a conclusioni che si possono definire complottiste. Ma leggiamo da Adnkronos  quel che  è successo.

«Polemiche social dopo il messaggio pubblicato da Massimo Boldi  che su Facebook si scaglia contro ''i potenti del pianeta'' che, secondo l'attore ''vogliono terrorizzare il mondo'' e contro le ''mascherine da Pecos Bill'' con cui, secondo l'attore, ''i potenti'' vogliono tappare la bocca al popolo. ''Stiamo vivendo un mondo che non va per niente bene. I potenti padroni del pianeta hanno dichiarato guerra a se stessi, non importa cosa è accaduto, non basta, vogliono terrorizzare il mondo ancor di più mari, monti, regioni, stati. Il popolo ha paura, teme la fine di un mondo a loro perfetto così come l’hanno conosciuto, non vogliono tapparsi la bocca con mascherine da Pecos Bill'', scrive l'attore.  ''Forse è tempo che ritorni il salvatore dei mondi, si Lui...il supremo, nostro Signore - prosegue Boldi - che si manifesti in qualsiasi forma atta a combattere là malasorte è l’indifferenza dei Governi di ogni Stato, i padroni del mondo, cacciandoli per sempre dal paradiso terrestre. Lo dico e lo ripeto ci vuole pazienza e coraggio ma vinceremo ancora dopo 2.000 anni''. Il messaggio non è passato inosservato creando diverse reazioni tra i fan: c'è chi lo sostiene e chi invece lo critica ironizzando sul post. "Cipollino tranquillo, adesso restituisci il telefono alla badante, prendi le pastiglie che ti ha consigliato il tuo geriatra, metti su un bel filmone dei tuoi e poi vedrai che tutto questo ti sembrerà solo un brutto sogno. Un abbraccio'', scrive uno dei suoi follower. ''Purtroppo, in una certa maniera, hai perfettamente ragione. Non sono più di 30, sono i trenta poteri forti che da sempre dominano sul nostro Globo. Questo cambiamento epocale, è opera loro. Ma non è una novità, né una sorpresa. E' solo un evolversi di eventi degli ultimi cinquant'anni'', scrive un altro fan in difesa dell'attore». (*).

Invitiamo il lettore  a focalizzare l’attenzione  non solo sulla tesi di  Boldi, ma anche  sui due commenti riassuntivi del pensiero dei fans ( e non).  Siamo dinanzi a  una perfetta sintesi delle reazioni tipiche dei commentatori social. Ma non solo. In realtà, sono reazioni, abbastanza diffuse, che vanno  dall’irrisione alla credulità.
Quel che è  interessante  rilevare  dal punto di vista sociologico   è la tesi  complottista sul ruolo dei potenti:  poteri forti che imporrebbero,eccetera, eccetera.
Ora, che la gente comune creda in certe storie, non è una scoperta del momento:  siamo dinanzi a un' antichissima forma  di animismo che spiega il male del mondo  riconducendolo  allo spirito cattivo che albergherebbe  in alcuni uomini.  Una forma di sbrigativa razionalizzazione cognitiva, rozza se si vuole, che però  conferisce in qualche modo  un ordine al disordine sociale. 
Però non bisogna mai  farsi trarre in inganno e deridere, come spesso accade all’anticomplottismo volgare, un  atteggiamento ben  esemplificato  dalle parole  del  secondo commentatore  quando  invita Boldi a ingerire “le pastiglie prescritte dal geriatra”. E qui veniamo al ruolo  fondamentale che può essere svolto dalla  sociologia, quella seria,  non quella  carceraria che agisce da braccio armato del welfare state.   
La sociologia  insegna che esistono meccanismi sociali, veri e propri determinismi,  che una volta messi in moto, come ad esempio una serie di misure pubbliche  restrittive della libertà per fronteggiare un’epidemia (ma la stessa regola vale anche per le guerre, le rivoluzioni e altre catastrofi, politiche, sociali e naturali), tendono ad assumere forza propria. Determinismi  dinanzi ai quali perfino i cosiddetti “potenti del pianeta”, non possono fare nulla, se non assecondarli fin quando possibile.
Perché, in realtà,  quanto più il potere politico si comporta da apprendista stregone, scatenando forze incontrollabili,  tanto più per reazione dilagano  le teorie complottiste, innescando alla lunga un  contro-movimento sociale, che porta con sé nuovi disordini, nuovi determinismi, eccetera, eccetera. 
L’emergenza, reale o meno,  è un potente fattore di sconvolgimento degli equilibri sociali: si pensi, per usare un' immagine,  alle onde del mare in tempesta,  sempre più alte, prive di qualsiasi moralità, al di là del bene e del male. Inarrestabili,  fino  a quando,  per una serie di cause che conosciamo ma che non riusciamo a controllare, i venti si placano,  le onde si addolciscono  fino a incresparsi superficialmente,  in attesa di una  bonaccia, non sempre ben vista dai navigatori. E così via.  
Pertanto, dal punto di vista dell’anticomplottismo, deridere il complottista  non serve a nulla. Anzi è stupido. Sarebbe invece utile,  dal momento che la sociologia insegna la difficoltà di controllare gli effetti di ricaduta delle emergenze, evitare di innescare, senza alcun reale motivo, dinamiche di tipo emergenziale. Perché poi le conseguenze sono le stesse delle emergenze vere. Le onde si scatenano comunque...
La risposta dell’anticomplottista   non può essere  quella titanico-statalista di costruire navi sempre più grandi per fronteggiare il mare in tempesta, bensì quella di non sfidare  le onde gigantesche, attendendo  in porto  che i venti tornino amici.  Fuor di metafora: prima di varare lo stato di emergenza si deve riflettere non una ma un milione di volte. Perché  tornare indietro è molto difficile, se non impossibile. Le società sono meccanismi fluidi e mutevoli. A differenza di quanto  asserisce l'antiliberale Bauman,  le società, tutte le società, sono liquide per definizione. Altrimenti non sarebbero società ma caserme o collegi  militari. Perciò,   meno il potere politico interferisce meglio è.     
L’esatto contrario di ciò che è accaduto in Italia (e purtroppo sta ancora accadendo). Si è trasformata  in modo irresponsabile un’epidemia in pandemia,  introducendo gravissime  e inutili misure restrittive della libertà.  E ora, poiché l’epidemia si è inevitabilmente tramutata  in risorsa politica,  in qualcosa che rinvia a  un riflesso  carnivoro, al di là bene e del  male, non si può più  farne a meno. Anche se le onde non sono più alte come prima,  si continua a presentarle come gigantesche, perché così impongono deterministici riflessi sociali. Sicché si facilitano le inevitabili reazioni dei complottisti.
La menzogna richiama sempre  altre menzogne.  Ma questa è un'altra storia. Di competenza non del sociologo ma del filosofo morale.

Carlo Gambescia                                     






venerdì 21 agosto 2020

Liberalismo e letteratura
Romanzi in uscita: grande autunno italiano?  Bah…


Che c’è di liberale nella letteratura italiana contemporanea?  Poco, molto poco. La nostra  asserzione  può lasciare perplessi, perché  suona come apodittica:  una tesi del genere impone alcuni esempi  di  “liberalismo letterario” . Altrimenti, come detto,  si rischia di cadere nel puro sofisma.
Ad esempio, esiste, oggi come oggi, un Voltaire italiano?  Un autore con la capacità al tempo stesso di illuminare la grandezza dell’individuo ma anche  la necessità del realismo politico. A Voltaire si rimprovera la vicinanza al potere. Ma la sua fede nel monarca illuminati  era apprezzamento  dell’individuo creatore, posto al più alto livello, ma anche  condivisione  di  un  realismo politico  capace di confermare i limiti di ogni riformismo, soprattutto se utopico.
Probabilmente, l’ultimo liberale volterriano della letteratura italiana, resta Leonardo  Sciascia. Dopo di lui il diluvio, anzi un diluvio di autori  minimalisti, nichilisti, utopisti nostalgici, mediocri epigoni, spesso senza addirittura saperlo  di  Liala,  Tomasi di Lampedusa,  Simenon. E così via.
Detto questo, per trovare conferma,  si dia un’occhiata alle novità letterarie  autunnali (*). Per carità chi scrive potrebbe anche essere smentito da un lettore presuntivamente  annoiato dalle ideologie. Un lettore però -  mai dimenticarlo -   che crede che  il liberalismo sia il marxismo dei ricchi…          
Annusiamo allora le novità autunnali.
Susanna Tamaro (Una grande storia d’amore, Solferino) pare continuare  a muoversi nella  sfera  minimalista, che le è propria,  nella quale l’individuo  vive, anzi sopravvive,  condannato a una specie di determinismo del cuore, estraneo a ogni logica politica, o meglio metapolitica. 

Claudio Magris (Croce del Sud. Tre vite vere e improbabili, Mondadori), da par suo  non  si mostra stanco di analizzare i meccanismi  dell’utopia,  viziati  però  da una coazione a ripetere che rende l’individuo il primo nemico di se stesso: la creazione come distruzione,  non come distruzione creatrice. Amen.
Antonio Pennacchi, autore di un  romanzo incentrato sulle Paludi Pontine  degli Anni Cinquanta (La strada del mare, Mondadori),  come  del resto Antonio Scurati nel suo (Mussolini. L’uomo della provvidenza (Bompiani), secondo volume della trilogia letteraria sul duce, sembrano  dividersi, da fratelli coltelli,  tra postfascismo e fascismo: in pratica non riescono a parlare di altro, se non dell’avventura totalitaria italiana (prima e dopo) e delle sue conseguenze sugli individui, visti però come  vittime di un determinismo dei ricordi, utopico e nostalgico al tempo stesso. Si guarda al futuro senza però staccarsi dal passato nel bene come nel male (per gli autori, ovviamente).  L’individuo non crea, ricorda. L’utopia si tramuta in una specie di   impolitico patetismo letterario, imprigionato nei determinismi della memoria.
Il resto della novità autunnali, come anticipato,  rimanda a rimasticature novecentesche (della bassa come dell’alta letteratura)  intorno  a  un  individuo che non sa più  come ingannare il  tempo. Letteratura dell’ozio, da parole incrociate, letteratura  che evoca, tradendo, nell’ordine:   Liala (Andrea De Carlo, Il teatro dei sogni, La nave di Teseo; Valeria Parrella, Quel tipo di donna, HarperCollins);  Tomasi di Lampedusa (Simonetta Agnello Hornby, Piano Nobile, Feltrinelli); Simenon ( Maurizio De Giovanni, Troppo freddo a settembre, Einaudi Stile Libero; Mauro Covacich, Colpo di lama, La nave di Teseo).


Salveremmo solo Raffaele La Capria (La vita salvata. Conversazioni con Giovanna Stanzione, Mondadori). Ma  per ragioni utilitaristiche: di assoluta esemplarità rispetto a ciò che abbiamo fin  qui argomentato.
Infatti, la sua condizione di naufrago egotista  novecentesco,  sembra ben spiegata e rappresentata  nel libro-intervista curato dalla Stanzione.  Il che  aiuta a   capire perché, anche in letteratura,  i figli finiscano sempre per  pagare le colpe dei padri.
Per non parlare dei lettori...   

Carlo Gambescia                        

giovedì 20 agosto 2020

Discoteche e giustizia amministrativa
Una sentenza scontata…

Lo studio sociologico  della giustizia amministrativa può sembrare un argomento barboso, da addetti ai lavori,  invece non è così.   Si pensi alla sentenza  del Tar  che  ha recepito la decisione politica - perché di questo si tratta, come vedremo - di chiudere le discoteche.  Diciamo che era scontata.  
Sotto questo aspetto il verdetto  torna utile per capire, diremmo in modo  esemplare, come all’espansione  del  diritto amministrativo  (e dei suoi aspetti giurisdizionali)  corrisponda sempre, per così dire,  la progressiva  riduzione  del  tasso di liberalismo  di  un sistema sociale, addirittura  fino al suo azzeramento.  
Che cos’è la giustizia amministrativa? I lettori che hanno fretta possono andare  su Wiki  per apprendere che

«l’esistenza di un sistema di giustizia amministrativa è una delle caratteristiche essenziali dello stato di diritto poiché, in questo modo, si rende effettiva la sottoposizione della pubblica amministrazione alla legge, secondo il principio di legalità » (*).

Ovviamente le cose sono  più complesse (**), però la citazione serve a capire, in due battute, come, sociologicamente parlando,  la giustizia amministrativa non sia parte integrante dello stato di diritto liberale, come talvolta si ripete, ma  rappresenti, sociologicamente,  una specie  di longa manus  (anche qui semplificando) del potere politico.
 Si legga la sentenza sulle discoteche.  Cosa dice?

« Nelle premesse del provvedimento impugnato si richiama la “comune volontà della Conferenza dei presidenti delle Regioni e del Ministero dello sviluppo economico di aprire con immediatezza un tavolo di confronto con le Associazioni di categoria, al fine di individuare interventi economici di sostegno nazionale al settore interessato”. E' quanto si legge nel decreto del Tar in merito alla ricorso - respinto dal Tribunale Amministrativo - dei gestori contro la chiusura delle discoteche per l'emergenza Covid. […] Per il Tar, “nel bilanciamento degli interessi proprio della presente fase del giudizio, la posizione di parte ricorrente risulta recessiva rispetto all'interesse pubblico alla tutela della salute nel contesto della grave epidemia in atto” e “tale interesse costituisce l'oggetto primario delle valutazioni dell'Amministrazione, caratterizzate dall'esercizio di un potere connotato da un elevato livello di discrezionalità tecnica e amministrativa in relazione alla pluralità di interessi pubblici e privati coinvolti e all'esigenza di una modulazione anche temporale delle misure di sanità pubblica nella prospettiva del massimo contenimento del rischio” » (***).

Altro che principio di legalità… Principio che afferma, sintetizzando, che ogni attività dei poteri pubblici non debba  trovare altro  fondamento che  nelle leggi approvate dal parlamento, in quanto espressione della sovranità popolare.  Detto altrimenti, i giudici amministrativi,  ben trincerati dietro una gerarchia politico-sociologica degli interessi,  hanno glissato  sulle reiterate  violazioni  del principio di legalità  racchiuse negli ormai famigerati  decreti antiCovid-19 del governo giallo-rosso, ribadendo  l’idea  che l’interesse pubblico  debba  sempre prevalere su quello dei privati cittadini.   E chi decide   - ecco il punto -  se un  interesse sia pubblico o meno?   Il governo.  Perciò  i giudici amministrativi non fanno che adeguarsi politicamente, comportandosi, ripetiamo da longa manus dell’esecutivo.  Altro che stato diritto…
Naturalmente abbiamo semplificato, con l’occhio del sociologo,  per facilitare la comprensione politologica di complicati concetti giuridici   Tuttavia la sostanza del discorso non cambia:  quando   si priva il diritto amministrativo del principio di legalità, sostituendovi la priorità degli interessi (la dottrina italiana parla di “interessi legittimi”)  si spalancano inevitabilmente le porte dello stato di diritto al potere extralegale  dello statalismo più devastante e ottuso. E, cosa più grave,  con il consenso dei giudici.  
In linea di principio,  attraverso lo  stesso criterio della prevalenza dell’interesse pubblico,  gestito ad esempio da un governo antisemita, si potrebbero reintrodurre normative  rivolte a non consentire ai cittadini di  religione ebraica, in nome di  un interesse pubblico superiore, il possesso di  beni e l'esercizio di determinate  professioni. Come  purtroppo è già accaduto.
Certo, in Italia, esistono  anche la giustizia ordinaria e costituzionale, sfere  che  non  si occupano principalmente di interessi legittimi ma soprattutto di diritti soggettivi. Di conseguenza,  il tasso di liberalismo interno al sistema sociale italiano non è pari a zero. Ma il forte  rischio di  un deperimento non può essere negato.  Sotto questo aspetto  entra  in gioco  l’indipendenza non solo formale ma ideologica dei giudici ordinari e costituzionali. Dal  momento che un giudice statalista, ragionerà come un giudice amministrativo…  E quanti sono i giudici statalisti nell’ordinamento italiano ?
Risponderemo alla domanda un’altra volta. Una pena al giorno, diciamo così…
Carlo Gambescia

(*) Qui: https://it.wikipedia.org/wiki/Giustizia_amministrativa .

(**)  Come esempio di maggiore complessità si veda qui: http://www.treccani.it/enciclopedia/giustizia-amministrativa/ . Voce, la cui comprensione, presuppone alcune conoscenze  preventive in materia.

(***) Qui: https://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2020/08/19/il-tar-no-alla-riapertura-delle-discoteche-respinte-le-richieste-dei-gestori-_63271e1a-193c-4fa3-97fb-60cbefe60760.html  . Il grassetto è nel testo.