venerdì 29 aprile 2011


Draghi, il ventriloquo dei mercati?





Prevedibili, ma sempre schierate, e dalla parte dei potenti. Ecco il tenore delle ultime dichiarazioni di Draghi, possibile Presidente della Bce (1). Ora, che l’Italia non cresca non è una novità. Che il pareggio del bilancio sia ancora lontano lo sanno anche i bambini. Che le liberalizzazioni, dopo l’escalation degli anni Novanta, siano ferme al palo, è un altro dato di fatto. Stesso discorso per gli scarsi investimenti nelle infrastrutture, nonché per gli appalti assegnati agli amici degli amici.

Banalità neo-liberiste condite, quanto basta, con un pizzico di moralismo spicciolo da CdA. Draghi è il ventriloquo dei mercati, o meglio della parte peggiore dei mercati: quella che vuole diventare ricca, a scapito dei comuni cittadini che vivono di lavoro e stipendio (2)
Ci spieghiamo meglio.
Se non crescono stipendi e salari, fermi da un decennio, la domanda non può a sua volta crescere. E senza crescita della domanda l’economia non può non rallentare. Le politiche dell’offerta ( privatizzazioni e bilanci all'osso) non possono bastare. Servono investimenti nelle infrastrutture. Qui Draghi ha ragione, ma a metà. Perché il privato, quando compra un bene pubblico, prima taglia i rami i secchi, poi, se trova i soldi (magari graziosamente prestati da qualche cordata bancaria amica...), investe. Ma dove? Nel lavoro flessibile ed esternalizzato (gentilmente favorito dai vari governi di destra e sinistra...). Quindi le liberalizzazioni non producono posti di lavoro e non influiscono sulla crescita della domanda. Servirebbero investimenti pubblici. Ma come favorirli, con una spesa pubblica che non può crescere o che addirittura deve essere tagliata?
Carlo Gambescia

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giovedì 28 aprile 2011

Il libro della settimana: Ernst Friedrich Schumacher, Piccolo è bello, Mursia 2011, pp. 306, euro 16,00. 

http://www.mursia.com/
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Ernst Friedrich Schumacher? Un dilettante, ma di genio. Infatti - suprema perfidia dell’accademia, anche dei controeconomisti - il suo nome non è tra le voci del Biographical Dictionary of Dissenting Economists ( 2000), il Gotha cartaceo dell’ economista non conformista. A dirla tutta, Schumacher, come ricorda Piero Bolchini, nell’ interessante prefazione a Piccolo è bello (Small is Beautiful) da pochi giorni tornato il libreria ( Mursia, pp. 306, euro 16,00), « nato a Bonn nel 1911 da una famiglia di docenti universitari e diplomatici, aveva ottenuto nel 1930 la prestigiosa borsa di studio Cecil Rhodes, che gli aveva consentito di seguire corsi di economia a Oxford e alla Columbia University di New York senza tuttavia conseguire il titolo di studio»(p. 7) . Di qui probabilmente quel perfido silenzio dell’Accademia, cui abbiamo accennato.
Schumacher si sarebbe poi guadagnato la vita, una volta cittadino britannico, come Consigliere economico del National Coal Board, grazie alla nazionalizzazione delle miniere decisa nel dopoguerra dal governo laburista. Incarico dal quale si dimetterà nel 1970 per dedicarsi alla sua missione di scrittore e conferenziere di cose metaeconomiche (sì, metaeconomiche, più avanti spiegheremo perché…). Titoli e riconoscimenti ad honorem verranno dopo la pubblicazione di Piccolo è bello , cui si affiancherà nel 1977, anno della sua morte, A guide for the Perplexed . In Italiano è possibile leggere anche la raccolta Buon lavoro (Red Edizioni).
Ma torniamo a Small is beautful, titolo tra l’altro, come ricorda Bolchini, imposto dall’editore Blond & Briggs. Quello originale recitava così: Homecomers. A Study of Economics as if People Mattered (Quelli che tornano al focolare. Uno studio di economia come se la gente contasse ). Il sottotitolo, come è tuttora ben visibile, rimase invece tale e quale.
Si dirà, perché perdersi in queste minuzie? Una ragione c’è. La metaeconomia di Schumacher parla alla gente comune. Dal momento che a suo avviso l’economia appartiene a tutti, e in particolare ai semplici cittadini. A quelle persone, piccole piccole, che “fanno” realmente l’economia ogni giorno, come lavoratori e consumatori.
Populismo economico? Forse. Ma il discorso di un’economia a misura di uomo è sicuramente giusto. Anche perché, il famoso “piccolo e bello”, non va inteso, come talvolta capita di leggere, in chiave eco-rivoluzionaria. Scrive Schumacher, da buon riformista:


«Ciò che voglio mettere in evidenza è la dicotomia del bisogno umano quando deve affrontare un problema di dimensione: non esiste risposta unica. Per questi diversi scopi l’uomo necessita di molte differenti strutture, piccole e grandi, alcune assolute e altre relative. Ciò nonostante la gente fa molta fatica a tenere a mente allo stesso tempo due esigenze apparentemente opposte. La gente tende sempre a invocare a gran voce una soluzione definitiva, come se nella vita ne esistesse una al di fuori della morte: per operare in modo costruttivo, si deve anzitutto e in ogni caso restaurare un certo equilibrio. Al giorno d’oggi soffriamo di un’idolatria quasi universale per il gigantismo. Perciò è necessario insistere sulle virtù della piccola dimensione, almeno dovunque essa sia applicabile. (se prevalesse un’idolatria del piccolo che non prestasse attenzione ai problemi o agli scopi, si dovrebbe cercare di esercitare un’influenza nella direzione opposta » (p. 70) .


Chiaro? Quanto di più lontano dal fondamentalismo descrescista. Del resto per definire meglio le idee di Schumacher abbiamo usato il termine metaeconomia: qualcosa che è a monte dell’economia e che concerne la riforma interiore dell’uomo: condizione necessaria, secondo Schumacher, prima di tentare qualsiasi riforma del mondo esteriore. Non per nulla egli parlerà di scienza economica buddista, prendendo spunto dalla grande tradizione orientale:


«Mentre il materialista si interessa principalmente ai beni, il buddista si interessa principalmente alla liberazione. Ma il Buddismo è la “via di mezzo” e perciò niente affatto contrario al benessere fisico. Non è la ricchezza che ostacola la via della liberazione ma l’attaccamento alla ricchezza, non il godimento delle cose piacevole ma la brama di esse (…) . Perché il problema non è la scelta fra crescita moderna e stagnazione tradizionale. Si tratta di trovare il giusto corso dello sviluppo, la Via di Mezzo fra la sventuratezza materialista e l’immobilità tradizionalista: in breve bisogna trovare il “giusto sostentamento” anche in economia (p. 61).

Sviluppo sostenibile? Forse. Diciamo che Schumacher si pone a metà strada tra l’economia mercatista e l’economia di comando: fra neoliberismo e socialismo burocratico. Non vuole superare o abbattere il capitalismo, ma temperarlo, puntando sulla riforma morale, sulla sussidiarietà e, dove possibile, senza forzature dall’alto, sulla piccola impresa cooperativa, privata, pubblica e mista.

In questo senso, un’utile integrazione storica e sociologica alla metaeconomia di Schumacher resta l’opera di Leopold Kohr, Il crollo delle nazioni ( The Breakdown of Nations, 1957). Libro in cui si dimostra che l’eccessiva grandezza-grossezza (“the bigness”) è una patologia sociale (http://carlogambesciametapolitics.blogspot.com/2006/06/riletture-leopold-kohr-1909-1994.html). Kohr è il teorico, per alcuni duro e puro, della piccola comunità, da lui presentata come perfetto esempio di fisiologia sociale. Il che significa che, almeno nei contenuti, il famoso slogan “small is beatiful”, imposto dall’editore, risale invece a Kohr. Per il quale quanto più un gruppo sociale cresce di dimensioni, rispetto ad altri gruppi, tanto più esso tende a dominarli. Nel suo volume tra i tanti esempi negativi citati, Kohr rinvia alla città-stato antica ( Roma), e allo stato-nazione moderno (la Prussia, e poi la Germania).
Un libro, quello di Kohr, non più in commercio da anni, che Mursia - lanciamo un appello - potrebbe riproporre nella stessa bella collana (“Mondo Migliore”), dove è appena uscito Piccolo è bello. Kohr, scomparso nel 1994, gradirebbe. Schumacher anche. E i lettori pure. 

Carlo Gambescia

mercoledì 27 aprile 2011

Riflessioni sulla decrescita


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Oggi proponiamo alcune riflessioni sulla "questione decrescita". Nulla di particolarmente approfondito. Un'esposizione di dubbi, neppure completa.
Il primo punto riguarda il modello culturale. Come cambiarlo pacificamente? Come competere con la gigantesca struttura mediatica e pubblicitaria che impone consumi crescenti? Il consumo, oltre una certa soglia fisiologica, è un fatto culturale e sociale perché si fonda su comportamenti collettivi di tipo mimetico (“Voglio avere anch’io quello che hai tu” ). Come incidere realmente su modelli di comportamento largamente condivisi dalle persone ? E' possibile auspicare un terremoto nella mentalità e nei comportamenti collettivi senza mettere in conto morti e feriti? Detto altrimenti: privo di dure forme di costrizione morale e fisica?

 Il secondo punto concerne il modello economico. Come cambiarlo? Ad esempio, ai consumatori viene sempre spiegato che "la soluzione delle soluzioni" è rappresentata dalla libera concorrenza: il solo meccanismo capace di sciogliere i nodi monopolistici e speculativi che influiscono negativamente sulla libertà di mercato e quindi sui prezzi dei beni così amati dai consumatori. Ma siamo sicuri che le cose stiano così? E che invece speculazione e monopoli non siano il portato di un capitalismo abbandonato a se stesso e privo di regole? Quindi, non si rischia, puntando sulla fuoriuscita decrescista dal sistema, di gettare il "bambino capitalismo" con "l'acqua sporca degli oligopoli"?
 E qui giungiamo al terzo punto che rinvia al modello politico della decrescita. Dal momento che fuoriuscire dal capitalismo “globalizzatore” e oligopolistico implica il ritorno alle produzioni locali; recupero che, a sua volta, richiede la nascita di spazi autocentrati, anche di grandi dimensioni, ( si pensi a quello europeo-occidentale), capaci di gestirsi politicamente ed economicamente in modo autonomo. E così opporsi alle scontate reazioni dei fautori della globalizzazione. Dal momento che una piccola comunità autogestita, non potrebbe resistere, da sola, alle pressioni esterne, soprattutto di tipo economico. Si pensi alla questione della moneta; problema che può essere risolto all’interno, magari abolendo o sostituendo il denaro con altri meccanismi, ma non - attenzione - all’esterno, negli scambi internazionali, dove la richiesta di pagamento in moneta “vera”, di solito quella delle nazioni potenti militarmente, tende a diventare un’arma di ricatto, da parte del più forte. Di qui la necessità, per le piccole comunità di federarsi in grandi spazi economicamente autosufficienti, in grado, secondo le necessità, di rinunciare al commercio internazionale. Ovviamente l’idea federale o confederale, dal momento che risulta impossibile che il denaro possa venire abolito nello stesso momento in tutto il mondo, impone la creazione di strutture politiche e militari comuni, funzionali a scelte rapide e impegnative.
 Alla decrescita, per essere felice, non può non servire la spada. Difficilmente potrà essere estesa anche all'industria militare. 

Carlo Gambescia

martedì 26 aprile 2011

Co(r)-rispondenze
McLuhan e Pound, 
amici non per caso


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Come scrivevamo a proposito di Cioran, dopo un lungo periodo di silenzio i media sono tornati ad occuparsi anche di Marshall McLuhan (1911-1980). E, più o meno, per la stessa ragione: in luglio, infatti, ricorreranno i cento anni della nascita. E così, con il solito furbo anticipo dei media, già sono iniziate le danze. Dopo la “cioranite”, come ci diceva un amico, prepariamoci, perciò alla “mcluhanite”.
Resta però un peccato che si debba attendere una celebrazione per riparlare del padre, come si dice oggi, della massmediologia. Anche perché McLuhan rimane un pensatore importante, a prescindere. Uno studioso non conformista, forse negli ultimi anni della sua vita un pizzico gigione, ma comunque mai banale. E che, in effetti, può tuttora farci capire l’enorme potere manipolatorio, insito nei media moderni. Per inciso, a coloro che vogliano comprenderlo più a fondo, se non scoprirlo, consigliamo la lettura dell’ottimo studio di W. Terrence Gordon, Marshall McLuhan, Escape into Understanding. A Biography (Gingko Press 2003).
Certo, qualcuno penserà, sì tutto vero, però, come McLuhan, anche altri si sono cimentati, con il misterioso e non sempre limpido potere mediatico. Da ultimo, il celebratissimo, forse troppo, Baudrillard. Vero. Però McLuhan pensava meravigliosamente per archetipi e per forme analogiche. Non bisogna dimenticare che lo studioso canadese proveniva da studi letterari. Era infatti professore di letteratura inglese. Perciò dietro i fenomeni linguistici egli scorgeva un pensiero morfologicamente strutturato, quasi alla Frobenius, e in continuo movimento tra i due poli della creatività e della manipolazione, secondo, almeno apparentemente, la lezione junghiana.
Dietro i media permane in primis, così pensava McLuhan, l’ enorme potere creativo della lingua, capace di influire e spesso condizionare gli uomini, nel bene e nel male, e a qualsiasi livello: popolare, medio e colto.
Piace qui ricordare un suo libro, il primo, molto importante, The Mechanical Bride: Folklore of Industrial Man (1951, trad. it. La sposa meccanica: folclore dell’uomo industriale, Sugarco 1994) , dove McLuhan studia la cultura popolare dell’uomo di oggi, soprattutto attraverso la pubblicità, come potere manipolatorio: un potere, a tratti feroce, frutto di una mescolanza di parole e immagini, veri fenomeni linguistici, dietro cui sembra celarsi una struttura profonda, prodotta dalle forme archetipiche del sesso e tecnologia.
Ma c’è un altro aspetto, poco noto se non ignorato del continente McLuhan: quello del rapporto con Ezra Pound. Persino su Google, quando si cliccano i due nomi insieme vengono fuori circa ventimila files… Pochini in fondo, considerata la statura dei due personaggi, E, soprattutto (curiosità informatica): i due nomi insieme non sono nell’indice Google… Manca - ci dicono - l’adsense.
In lingua italiana però, puntando decisamente sul vecchio cartaceo, si può leggere la Corrispondenza (1931-1979) di Marshall McLuhan, a cura di Corinne McLuhan, Matie Molinaro, Francesca Valente, prefazione di Gianpiero Gamaleri (Sugarco 1990, ed. or. Letters of Marshall McLuhan, Oxford University Press 1987 ). Dove sono per l’appunto pubblicate (tutte?) le sue lettere a Pound (1948-1957).
E che si scopre? Dalle lettere di McLuhan, che abbracciano il delicato periodo dell’internamento al Saint Elisabeth Hospital, emerge la sua grandissima ammirazione nei riguardi di Pound, nonché il comune interesse per il misterioso potere creativo della lingua, ma anche la consapevolezza dei rischi insiti in ogni volgare ed economicistica manipolazione del linguaggio.
Ma leggiamo, quel che scrive McLuhan a Pound del suo Golgota poetico: « I Canti Pisani sono veramente straordinari, e rivelano una gamma di esperienze che sarebbe presuntuoso elogiare. Non si sente forse affine (nell’ambito della poesia inglese) a Ben Jonson? Lo stesso mondo plastico-scultoreo». Di più: «I suoi Cantos, a mio avviso costituiscono il primo e l’unico uso serio delle grandi possibilità tecniche del cinematografo. Ho ragione di ritenerli come il montaggio di personae e di immagini scolpite? Flashback che conferiscono percezioni simultanee? » (16 giugno 1948).
Oppure qui, in chiave di critica sociale, dove McLuhan, parla di se stesso in terza persona: «Caro Pound, McLuhan non ha esaminato a fondo l’usura ma ha notato certe ossessioni dei suoi contemporanei che la rendono endemica. Sempre colpito dalla definizione dell’incesto da parte dell’Aquinate come “cupidigia delle emozioni”. Ciò pone l’usura in una prospettiva universale di paura e di odio. Incesto l’impulso del patriarca minacciato. Usura impulso del cittadini timoroso (…). La seconda guerra ha prodotto la scoperta delle guerra come nuovo modo di vita. Le pagine finanziarie in questi giorni parlano con entusiasmo di una possibile prosperità connessa con la terza guerra. L’uomo della strada ci casca. Guerra totale = sicurezza totale secondo lui. QUESTO è il livello dell’imbecillità imperante ora » (5 gennaio 1951).
Non male…Per un futuro massmediologo, passato però attraverso l’opera eversiva di Pound.
Sarebbe perciò interessante approfondire - e ciò valga come accorato appello agli specialisti - il carteggio tra McLuhan e Pound, magari pubblicandolo integralmente. Facendo cioè uscire insieme alle lettere dello studioso canadese quelle di risposta del grande poeta. Se esistenti e reperibili, ovviamente.
Chissà, quante altre sorprese…

Carlo Gambescia

sabato 23 aprile 2011

Il Tempo di Pasqua può essere il momento più indicato per riflettere sulla Parola: dalla parola umana a quella divina. In questo senso i versi dell'amico Nicola Vacca invitano, chiunque lo desideri veramente, a guardare lontano, e con gli occhi dell'anima.  Buona Pasqua a tutti gli amici lettori.




Sull’ importanza delle parole
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Se si spegnerà anche il barlume
che cammina sulle ombre
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il vaniloquio
ci dirà che con le parole non si scherza
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forse le abbiamo già finite
ne vorremo almeno una
in questo tempo avaro di raccolti.
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Nicola Vacca




venerdì 22 aprile 2011

È tipico dei giovani, soprattutto se di intelligenza vivace, andare per le spicce nei giudizi, fino al punto di "fare il contropelo" ai soliti noti, anche se giustamente noti. Un metro che si applica perfettamente alla rilettura di Giacomo Gabellini  del comunque notevole testo di Alain de Benoist. Il lettore rilevi la vena leninista del post e in particolare la capacità di andare subito al nocciolo della questione, senza tanti giri di parole. Se son rose...
Buona lettura (C.G.)



Riletture 
Alain de Benoist, Nazismo e comunismo
 di Giacomo Gabellini



Storia e memoria sono due modalità assai differenti di approcciare con il passato. L'approccio storico, infatti, si prefigge di far luce sul passato con l'ausilio di metodi e strumenti imparziali e oggettivi, mentre in quello mnemonico subentra un'inevitabile componente soggettiva da parte di chi ricorda. Alain de Benoist parte da questa fondamentale riflessione per tentare di spiegare il perchè vi sia una radicale e generalizzata opposizione a comparare le due ideologie - nazismo e comunismo - al servizio delle quali sono stati immolati milioni e milioni di esseri umani (Nazismo e comunismo , Controcorrente Edizioni, Napoli 2005, pp. 152, euro 12 - http://www.controcorrentedizioni.it/ ). L'argomento comunemente accettato è di tipo etico-giudiziario: per un verso, si condanna la bruna cappa nazista quale sublimazione delle più infime e animalesche pulsioni umane, mentre, per l'altro, si assolve il solare e fiammeggiante comunismo in quanto presuntivamente portatore della necessità di liberare e nobilitare l'uomo. Senza tirarla per le lunghe, de Benoist recide sinteticamente tale nodo gordiano, affermando che:
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"Fare male in nome del bene non è meglio che fare male in nome del male. Distruggere la libertà in nome della libertà non è meglio che distruggerla in nome della necessità di sopprimerla". 

Una tesi indubbiamente condivisibile, che si occupa di prendere spunto in primo luogo dai fatti e non dalle intenzioni per esprimere un qualsivoglia giudizio di merito. Così inizia una lunga disamina di acute e originali comparazioni tra i due totalitarismi in questione, dalle quali emerge una serie di analogie (il fatto entrambi abbiano individuato un nemico da abbattere, che entrambi abbiano tentato - seppur con esiti diversi - di risollevare le sorti della popolazione ecc.) che portano l'autore a far propria la posizione sostenuta a suo tempo da Ernst Nolte, il quale aveva parlato di "nesso causale" tra comunismo e nazismo, ovvero che la seconda ideologia fosse nata dal timore del concretizzarsi della seconda. Al termine della disamina, de Benoist non si esime dall'esporre il proprio giudizio di merito. Egli pone l'accento sul fatto che il comunismo ha lasciato sul terreno molti più morti del nazismo, e l'efficienza della sua macchina repressiva si è concentrata principalmente all'interno dei confini nei quali esso si è sviluppato, contrariamente al Terzo Reich, che ha scatenato la propria furia per lo più su popolazioni non germaniche. In giurisprudenza costituisce effettivamente un aggravante il commettere reati sui propri familiari piuttosto che su individui estranei.
Altre osservazioni convincono però assai poco, come il tentativo di inquadrare Stalin come la naturale continuazione di Lenin, malgrado quest'ultimo sia deceduto dopo aver espresso nell testamento politico le proprie durissime considerazioni sul conto del primo e ben prima di aver assistito al modus operandi staliniano.
Per concludere, Alain de Benoist è indubbiamente un talento filosofico, capace di penetrare con sbalorditiva abilità all'interno dei più grandi e complessi problemi, e questo libro ne fornisce, di nuovo, la dimostrazione convincente. Ma talvolta - e spiace dirlo - sembra ragionare molto con il senno del poi, sobbarcando, ad esempio, su Lenin responsabilità ascrivibili a Stalin. Egli isola solo alcuni testi e gesta di Lenin dal contesto generale, avvalendosi di ciò di cui ha bisogno per dimostrarne l'oggettiva uguaglianza con Stalin, ignorando di fatto tutto il resto. Lenin era certamente favorevole all'eliminazione fisica di determinati strati di popolazione considerati "nemici della rivoluzione", ma ciò non costituisce un argomento valido per valutare storicamente la sua teoria rivoluzionaria. E' vero che la Rivoluzione Francese produsse un Robespierre, ma i massacri giacobini non invalidano di certo il valore capitale di quello specifico fatto storico.



Giacomo Gabellini si interessa di filosofia, storia, politica e geopolitica. Autore di numerosi articoli che toccano i temi indicati per il blog "Conflitti & Strategie" (www.conlittiestrategie.splinder.com), con il quale collabora attualmente.

giovedì 21 aprile 2011

Il libro della settimana: Gian Enrico Rusconi, Cavour e Bismarck. Due  leader fra liberalismo e cesarismo, il Mulino 2011, pp. 212, euro 15,00.   

www.mulino.it
La politica è arte del possibile o dell’impossibile? Il vero liberalismo è solo economico o anche politico, anzi soprattutto politico? E che differenza c’è tra un realista liberale e un realista tout court? Ecco i tre quesiti che fanno da sottotesto al denso studio di Gian Enrico Rusconi, insigne politologo ed editorialista de "La Stampa", Cavour e Bismarck. Due leader fra liberalismo e cesarismo (il Mulino 2011, pp. 212, euro 15,00). Libro che non può assolutamente essere liquidato come opera di occasione. E ci riferiamo, in particolare, alla massa inarrestabile, di testi più o meno mediocri, che ha invaso le librerie in occasione del Centocinquantenario. Ma entriamo nel merito di un volume sicuramente ricco e interessante.
Al primo quesito, Rusconi risponde così:


«La politica è “reale” nel senso della “politica dei fatti” e quindi del successo di contro alla semplice enunciazione dei grandi principi e delle condizioni filosofiche (o ideologiche), il cui dottrinarismo di carattere prevalentemente moralistico, può portare all’inconcludenza. La politica “reale” invece non è semplice testimonianza “identitaria” che “non negozia” i propri ideali, ma è competenza di governo capace di tenere conto realisticamente degli ideali degli altri» (p.173).

Ciò significa che Cavour e Bismarck, pur dotati di culture politiche diverse, vanno considerati realisti. Perché « hanno un senso acuto per la contingenza degli accadimenti che fa della politica “l’arte del possibile” » (pp.173-174). E in un senso preciso. Quale?


«Che, prosegue Rusconi, questa espressione [arte del possibile, ndr] non vuole affatto dire che “tutto è possibile”, o che si procede a casaccio: al contrario l’arte del possibile tiene fermi i propri obiettivi ideali in condizioni di incertezza e/o complessità che vanno affrontate cogliendo le opportunità che si presentano, senza attendere che si creino situazioni ottimali. È proprio in situazioni d’incertezza che diventano necessari “fatti compiuti” come riduttori di complessità » (p.174).

Il che implica, e veniamo al secondo quesito, che il liberalismo, quello autentico, secondo Rusconi rimane essenzialmente politico. Perché, pur restando all’interno di un quadro di libertà costituzionali ed economiche, in cui crede, il leader liberale assume politicamente « rischi che non escludono l’azzardo, cioè l’agire al di là del calcolo delle probabilità di fronte a fattori imprevisti, appunto non calcolabili» ( Ibid.). Quindi Cavour e Bismarck furono simili, ma non troppo… Infatti, agli occhi dei liberali tedeschi del tempo, Cavour era un vero liberale politico, di cui veniva apprezzata la « capacità di governare, di decidere, di guidare, addomesticandola la rivoluzione democratica, sentita come radicalismo o estremismo». In una parola, Cavour, incarnava un « liberalismo che sa[peva] decidere» (p. 82), garantendo un quadro di libertà. Mentre Bismarck, sempre secondo il liberalismo tedesco dell’epoca, restava un puro e semplice realista politico che sfruttava le istituzioni parlamentari, senza però credervi, a differenza di ogni vero liberale. In seguito l’ala nazionalista del liberalismo tedesco, avrebbe cambiato idea, cooptando, obtorto collo, Bismarck, Ma questa è un’altra storia.  E qui giungiamo al terzo quesito:

«Bismarck - rileva Rusconi - realizza l’unificazione tedesca riconfermando, anzi rifondando il sistema costituzionale monarchico prussiano, costruito su basi illiberali, e arricchito ora di una gestione cesarista per le sue componenti demopopuliste (…), Cavour invece unifica l’Italia mettendo alla prova e collaudando, con esito ragionevolmente positivo, il sistema monarchico costituzionale parlamentare liberale piemontese quale era concepito e praticato alla metà dell’Ottocento. Operando in questo modo vengono alla luce alcuni atteggiamenti personali che nel linguaggio del tempo sono qualificati dittatoriali o (in Germania) cesaristi. Ma a ben vedere dal momento che mancano esplicite componenti plebiscitarie, che sono invece essenziali per il cesarismo vero e proprio, quella di Cavour si presenta come una originale forte leadership parlamentare , ovviamente con tutti i pesantissimi limiti di una rappresentanza popolare che erano tipici del tempo»(pp. 194-195).



Ma c’è un altro punto del libro dove si cerca di spiegare, e in base ai risultati storici, la differenza tra liberalismo politico e realismo politico tout court.
Osserva Rusconi:


« Sin dall’inizio di questo saggio abbiamo insistito sulla dinamica europea, senza la quale non si spiegano le due unificazioni nazionali, italiana e tedesca. Ma se uno degli scopi dell’azione cavouriana è “ricondurre l’Italia all’Europa”, lo scopo bismarckiano è l’autoaffermazione della Prussia/Germania come potenza europea. Si tratta di due significati diversi di occidentalizzazione: quella italiana è avvicinamento, imitazione delle nazioni occidentali; quella tedesca è competizione oscillante tra il sentirsi l’anti-Occidente e l’altro Occidente. Sono così poste le premesse di quello che poi si sarebbe chiamato il Sonderweg tedesco [nel significato di una storia nazionale dal percorso particolare, ndr], destinato alla fine a degenerale in catastrofe» (199).


 Si può però sostenere, diversamente da Rusconi, che pure in Italia, il liberalismo politico subirà un identico, o quasi, percorso degenerativo, da Cavour a Giolitti. Non va infatti dimenticato, che in nome del realismo politico, Giolitti, per altri rispetti leader liberale capacissimo, ritenne, almeno all’inizio, Mussolini e i fascisti dei liberali un po’ maneschi ma capaci di difendere le libertà costituzionali. Facilitandone così la conquista del potere.
Certo, se per un verso va riconosciuto che in quella «situazione di incertezza » (1919-1922), il liberalismo politico italiano fece la scelta sbagliata, per l’altro va ammesso che il liberalismo, come ogni altro realismo politico, per usare la terminologia di Rusconi, «azzardò e perse»: i «fatti compiuti» lo smentirono, e duramente.
Purtroppo, nessuna ideologia politica è perfetta. A partire dal realismo liberale. 

Carlo Gambescia

mercoledì 20 aprile 2011

Divagazioni su un must dell’individualismo moderno (e postmoderno)
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Caro diario…



Un post ( o quasi) in argomento, letto in giro e tra l’altro ben scritto, oggi ci spinge a riflettere, anzi a divagare, sul diario e dintorni. Perché si tiene un diario? Si scrive per se stessi? Si scrive perché un giorno qualcuno leggerà? Dipende. E da cosa? Dall' autorevolezza e dall' egocentrismo di chi vi si cimenti, incrociando la spada con il proprio Io, come impone la gabbia d’acciaio dei moderni, ancorché decorata di fiori di plastica.
Sotto quest’ultimo aspetto il diario rispecchia la parabola del moderno, con un’ultima fermata, non a richiesta, dalle parti delle narcisistiche periferie post-moderne popolate di blog e social network. Si potrebbe addirittura tracciare un grafico, con due curve sovrapponibili, e in crescita: da un lato l’ascesa dell’individualismo dall’altro il galoppante sviluppo della diaristica, letteraria e non, oggi addirittura viva e palpitante sulla Rete, punto di arrivo prediletto, tuttavia metastatico, di quel pervasivo narcisismo che ci invita tutti a regnare solitari nei nostri piccoli orticelli.
Secondo Aron Gurevič, eccellente medievalista polacco, il diario medievale era una cronaca storica di e per quei tempi: l’individuo restava sullo sfondo. A meno che non si trattasse di santi, re, e papi, tutti in luminosa interazione con i decreti di Dio.
È con l’età moderna, lungo una linea solipsistica, per alcuni discendente, da Peyps a Gombrowciz, che il diario prende sicurezza autobiografica per contrapporsi a storia e società; ma nel farlo, perde smalto si mondanizza e intimizza. Ai decreti di Dio sostituisce quelli del caso o le necessità del nulla.
In genere, oggi, non si scrive un diario solo per se stessi, ma, se si è scrittori, perché si pregusta in silenzio il piacere che qualcuno leggerà… se si è sconosciuti, perché non si sa mai… E, in tal senso, la post-modernissima forma-diario-blog riunisce le due necessità, frutto amarognolo di un un individualismo, che, per contrappasso, sembra perdere vigore e diluirsi in facezie, proprio nel momento in cui si democratizza. Nulla di nuovo, almeno secondo Tocqueville, profeta dimenticato.
Il diario, insomma, resta intimo nei propositi immediati, ma non nelle finalità ultime. Ne coglie bene il senso profondo Oscar Wilde, maestro, s’intende, di auto…ironia: “ Non viaggio mai senza il mio diario: bisogna sempre avere qualcosa di sensazionale da leggere in treno” .
Ovviamente, anche il cinema se n’è impossessato. E in particolare del diario come invenzione letteraria: un diario per interposta persona, frutto talvolta di onanistiche ed egocentriche oppressioni letterarie. Tensioni interiori via via convertite in pavloviani riflessi venali, lungo una strada periclitante che va dal robusto Diario di un curato di Campagna all’esile Diario di Bridget Jones.
Come dire, dal problema del male al problema della dieta punti.

Carlo Gambescia

martedì 19 aprile 2011

A proposito dei manifesti milanesi contro la Procura
L'intervento di Napolitano non convince



Che la situazione politica sia al muro contro muro è un dato di fatto. E la vicinanza delle amministrative non contribuirà sicuramente a calmare le acque. Pertanto - lo diciamo subito - non convince l’intervento del Presidente Napolitano sugli stupidi manifesti di Milano. “Pronunciamento” che in sé può anche essere motivato. Benché, si debba ricordare, che il Pci, di cui Napolitano era deputato, verso la Magistratura, fin quando i terroristi non iniziarono a sparare sulle toghe vicine a Botteghe Oscure, mantenne una posizione ambigua. In argomento si rileggano i servizi de l’Unità in occasione dell’assassinio del giudice Francesco Coco, primo magistrato italiano a cadere per mano dei terroristi delle Brigate Rosse, dove, tra l'altro, si evidenziava la posizione politicamente conservatrice dei giudice.
Pertanto, sì, un intervento a tutela ma di fatto sbilanciato, non tanto verso la Magistratura in quanto tale, quanto verso i giudici di Milano. Perché sbilanciato? Per due ragioni.
Uno, perché ormai è chiaro, anche a un bimbo di cinque anni, che lo scontro tra la Procura di Milano e il Cavaliere è tutto politico. Inutile qui cercare di scoprire chi abbia iniziato per primo: la sfida è politica e concerne la caduta di Berlusconi con il marchio dell’infamia, la successiva disgregazione e diaspora del centrodestra, con conseguente ritorno al potere, come alcuni fortemente sperano, del centrosinistra. Pertanto Napolitano, anche se ufficialmente ha asserito di voler difendere la magistratura, come istituzione, ufficiosamente, se si vuole di fatto, intervenendo, ha spezzato una lancia - e che lancia, quella dei magistrati morti per mano del terrorismo... - in favore di una fazione contro l’altra.
Due, perché Napolitano non è intervenuto a proposito dell’aberrante articolo di Asor Rosa? Vera punta di un iceberg politico che culturalmente è alle origini dell’assassinio del giudice Coco. E che, a quanto pare, è tuttora vivo e vegeto? Come mai è rimasto zitto? Parliamo di un Presidente di solito molto attento al rispetto della Costituzione Repubblicana.
L’atteggiamento di Napolitano perciò non giova al raffreddamento della situazione politica. E il semplice fatto che la sinistra lo difenda e la destra lo attacchi, se non è una prova resta almeno indizio di certo suo strabismo politico a sinistra. Secondo qualcuno, facendo così, Napolitano difenderebbe le istituzioni dagli artigli di Berlusconi. Può darsi. Ma a che prezzo? Quello di spaccare ancora di più un Paese già diviso? Siamo veramente perplessi e preoccupati. 

Carlo Gambescia

lunedì 18 aprile 2011

Può essere una semplice impressione, e per giunta sbagliata, ma crediamo che destra e sinistra, nelle varie e complesse anime che le distinguono, non abbiamo prestato sufficiente attenzione alle gravissime affermazioni di Asor Rosa. Probabilmente, anche questo, è un segno della difficile situazione muro contro muro in cui sembra essersi infilata l’Italia. Venerdì scorso abbiamo affrontato la questione in termini sociologici, oggi proponiamo invece una riflessione giuridica e politica dell’amico Teodoro Klitsche de la Grange, particolarmente interessante e condivisibile nei suoi robusti aspetti giuridici, mai disgiunti da un sano realismo politico, nonché da quella giusta ironia che ne rende piacevole la lettura. (C.G.)

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Il golpe, quando e se fa comodo…

di Teodoro Klitsche de la Grange






Ci sono molte cose che colpiscono nell’articolo di Asor Rosa in cui invoca misure d’emergenza a tutela della democrazia. Precisiamo: non meraviglia l’invocazione di golpe contro governi e istituzioni confortati dal consenso popolare, perché rientra nel DNA bolscevico, da quando Lenin fece sciogliere la costituente per l’ottima ragione che i bolscevichi vi erano in minoranza.
 In primo luogo la tesi di Asor Rosa dev’essere distinta in due giudizi, di “diritto” e di “fatto”. Quanto al primo, ovvero se sia legittimo ricorrere a misure di emergenza quando le istituzioni democratiche sono minacciate, non esito a dichiararmi d’accordo con Asor Rosa. È legittimo: tutti gli Stati in cui non vi sia una norma o una decisione esplicita che lo prevede sono condannati a “ruinare”, come scriveva Machiavelli, e se non vogliono “ruinare” devono rompere i loro ordini (cioè la loro costituzione anche materiale e le loro leggi). E questo è stato ripetuto tante volte nel pensiero politico e giuridico occidentale da Jhering a Santi Romano, da Bonald a Carl Schmitt che sarebbe inutile insistervi. Certo il problema di Asor Rosa sarebbe di convincere a tanto i suoi compagni di strada tra cui abbondano le vestali del normativismo (ossia delle “regole da forzare”) le prefiche del diritto mite e di altri idola a metà strada tra utopia ed irrealtà.
 L’altro è il giudizio di fatto, ovvero: questa situazione concreta è contraria alla democrazia, e suscettibile di abbatterla? Qui bisogna valutare se le escort di Berlusconi sono adatte a fare delle Camere un “bivacco di manipoli”, come le camicie nere; se le guepiéres possono essere usate come labari; se Emilio Fede può ricoprire il ruolo del dr. Göbbels, e i triumviri del PDL quello dei quadrumviri della marcia su Roma. E qua non siamo d’accordo: sarà ma il cavaliere di comune con Mussolini ha solo il titolo e con Hitler neppure quello, e le differenze tra i seguaci dell’uno – che somigliano molto spesso al personaggio del “Pomata” in un noto film – e degli altri, così maneschi e spesso sanguinari, sono ancor più divaricate.
 Il giorno dopo, intervistato, Asor Rosa ha un po’ rettificato il tiro, rientrando – in parte – nel conformismo di sinistra. Ha spiegato che non sarebbe eversivo chiedere a Carabinieri e Polizia di fare il golpe perché “sono organi dello Stato. Sarei eversivo se invocassi la rivolta popolare”; dopo questa tranquillizzante precisazione ha spiegato in che consisterebbe l’eversione: “c’è un obiettiva frantumazione delle regole ed è opera del Capo del governo”.
 Ora vogliamo analizzare queste affermazioni partendo dall’ultima: non ci risulta né che Berlusconi legiferi, né che abbia preso misure d’emergenza del tipo di quelle di Hitler dopo l’incendio del Reichstag. Ci sembra che legifera un Parlamento, e, se ricorrono i casi di cui agli artt. 76 e 77 della Cost., il governo. Che non ha gettato in carcere gli oppositori, aperto campi di concentramento o luoghi similari. Quanto all’altra affermazione occorre valutarla: se a giustificare un golpe fosse la “frantumazione delle regole” l’intera classe dirigente – e non solo politica, ma anche burocratica e imprenditoriale – dovrebb’essere in galera da tempo, giacché quello della “frantumazione delle regole” ne è il trastullo preferito.
 No: Asor Rosa qua sbaglia: è apprezzabile il suo allontanamento dal pensiero unico buonista, nonché da Kelsen o da Bobbio, e il suo civettare con la teoria dell’arcinemico “nazista” Schmitt e del nemico (dimenticato) Santi Romano. Ma la distanza che ha preso da un pensiero giuridico-politico realista (e istituzionalista) è ancora grande. Perché Schmitt ammetteva – perché connaturale alla difesa dello Stato – le misure d’emergenza, ma per difendere la Costituzione, intesa come decisione fondamentale sulla forma e specie dell’unità politica, e non per intendersi, al fine di impedire la “prescrizione breve”. Per salvare quella cioè le istituzioni pubbliche fondamentali o i presupposti della vita politica è consentito, anzi è doveroso proclamare lo stato d’emergenza e procedere a rotture costituzionali. Per Santi Romano la necessità “implica un’esigenza esplicita ed impellente di bisogni sociali, che impone una determinata condotta in difesa delle istituzioni vigenti… Talvolta, le leggi scritte accordano, in casi di necessità, al potere esecutivo la facoltà di emanare decreti e ordinanze… Ma anche quando tali leggi scritte mancano, o sono inadeguate alla situazione che si è formata, e persino quando espressamente vietano che si faccia uso di poteri eccezionali e straordinari, questi potranno essere assunti ed esercitati in forza della necessità”; richiede cioè “un’esigenza non puramente razionale, ma istituzionale… In ogni caso salus rei publicae suprema lex”.
 L’importante è distinguere quando la res publica è in pericolo e quando lo sono le aspirazione al potere di partiti e corporazioni. Cosa che la sinistra (e forse non da sola) non ha imparato a fare. Asor Rosa ce ne dà un’altra conferma.


 Teodoro Klitsche de la Grange



Avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica“Behemoth" ( http://www.behemoth.it/ ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009). 

venerdì 15 aprile 2011

Asor Rosa  e lo "stato d' emergenza"
Un leninista dilettante


Asor Rosa, su il Manifesto, ha chiesto l’instaurazione dello “stato d'emergenza” per togliere di mezzo Berlusconi e i suoi. In pratica, un colpo di stato. Ecco un passo, particolarmente significativo, del suo editoriale:

«Ciò cui io penso è invece una prova di forza che, con l'autorevolezza e le ragioni inconfutabili che promanano dalla difesa dei capisaldi irrinunciabili del sistema repubblicano, scenda dall'alto, instaura quello che io definirei un normale «stato d'emergenza», si avvale, più che di manifestanti generosi, dei Carabinieri e della Polizia di Stato congela le Camere, sospende tutte le immunità parlamentari, restituisce alla magistratura le sue possibilità e capacità di azione, stabilisce d'autorità nuove regole elettorali, rimuove, risolvendo per sempre il conflitto d'interessi, le cause di affermazione e di sopravvivenza della lobby affaristico-delinquenziale, e avvalendosi anche del prevedibile, anzi prevedibilissimo appoggio europeo, restituisce l'Italia alla sua più profonda vocazione democratica, facendo approdare il paese ad una grande, seria, onesta e, soprattutto, alla pari consultazione elettorale.» (il Manifesto 13 aprile 2o11)

Cosa dire? Innanzitutto, che sono subito emerse, sul piano dei giudizi, due scuole di pensiero, ovviamente opposte. Riassumiamole così.
A Destra: “Ma come difendete così tanto la Costituzione, per poi violarla pur di abbattere Berlusconi? Allora è proprio vero che siete comunisti…”.
 A Sinistra: “Asor Rosa, pur esagerando, ha detto qualcosa che tutti i cittadini onesti pensano, cioè che Berlusconi è un pericolo e che quindi deve essere eliminato con qualsiasi mezzo”. Naturalmente, va ricordata anche una terza posizione, quella dei minimalisti di destra e sinistra: “Asor Rosa, e un intellettuale, uno che vive tra e nuvole o nel passato, e perciò le sue parole lasciano il tempo che trovano”.
 Diciamo che quello di Asor Rosa è un esercizio di realismo politico in tinta leninista. In tinta, perché c’è leninismo e leninismo. E quello del professore ricorda da vicino il leninismo posticcio delle brigate rosse, strategicamente e tatticamente fuori bersaglio. Per quale ragione? Perché Berlusconi, nonostante tutto, gode di un forte consenso nel Paese, consenso che gli permette - e permetterà - di tenere sotto controllo la situazione. Inoltre gli italiani, come altre volte nella storia della Repubblica, non vogliono sentir parlare di violenza e di sospensione delle libertà. Proprio quello, a cui condurrebbe, se attuata con la forza, l’ idea di “stato d' emergenza”.
 Infine, la pura violenza, di regola, funziona, solo se usata per la spallata finale. E deve godere della complicità, o quantomeno della parziale connivenza delle istituzioni amministrative, militari e di polizia. Per conquistare il potere, un pugno di magistrati di sinistra, per giunta abbastanza isolati, quattro sfascisti viola e alcuni giornali più o meno legati alle procure, non sono assolutamente sufficienti.
 Perciò, concludendo, Asor Rosa è un leninista, ma dilettante. 

Carlo Gambescia

giovedì 14 aprile 2011

Il libro della settimana: Georg Simmel, El pobre, Introducción de Jerónimo Molina Cano, Sequitur, Madrid 2011, pp. 94.  
www.sequitur.es
Questa settimana mettiamo alla prova la pazienza dei lettori. Perché recensire e proporre Georg Simmel in lingua spagnola , dal momento che esistono ottime traduzioni italiane de Il povero (El pobre)? Ad esempio nella simmeliana Sociologia ( Edizioni di Comunità, Milano 1998, pp. 393-426). La ragione è presto detta. Perché merita di essere letta l’ Introducción di Jerónimo Molina, professore di Politica sociale presso l’Università della Murcia, notissimo studioso dell’ opera di Julien Freund, nonché erede, forse tra i più vivaci, di una tradizione scientifica tipicamente spagnola, ma con ascendenze germaniche legate al "socialismo della cattedra". Quale? Quella del Derecho político, disciplina oggi ricondotta nell'alveo della sociologia della politica sociale, quale premessa disciplinare a una gestione razionale dei diritti e dei servizi sociali. Chi ne voglia saperne di più, può compulsare, come si diceva un tempo, La política sociale en la historia (Ediciones Isabor, Murcia 2004), volume scritto sempre da Molina, un piccolo e prezioso gioiello di sapere e intelligenza sociali.
Ma per quale ragione è importante la Introducción? Perché approfondisce la geniale distinzione operata da Simmel tra il povero in quanto tale, come entità soggettiva, e il povero, come categoria oggettiva, pubblicamente riconosciuta e assistita per le motivazioni più varie ( religiose, etiche, politiche, economiche). Ciò significa che el pobre, rischia, a un tempo, di essere fuori e dentro la società: fuori, come singolo individuo, dentro come attore collettivo, oggetto di misure politico-sociali.
 Simmel - si fa per dire - si limitava alla dialettica sociologica fuori-dentro, Molina invece, seguendo le orme di Julien Freund, la prolunga in quella politologica dell’esclusione-inclusione a comando, ossia dal punto di vista dell'attribuzione dei diritti sociali. Attribuzione non sempre facile e lineare... Perché nella società di welfare, se per un verso c'è accordo quantitativo sulla delimitazione della povertà (in base al reddito), per l'altro non esiste una condivisione sulle sue cause qualitative (legate all'individuazione della natura della povertà)… Di qui, crediamo - andando oltre Molina - la necessità di recuperare un “diritto politico” capace di tagliare il nodo gordiano qualità-quantità.
 Ma come riuscire a reciderlo in una società, come la nostra, dove si tende a considerare il povero o una vittima del capitalismo ( a sinistra) o un inetto, o peggio ancora un pigro (a destra)? Ecco il vero problema: sfiorato da Simmel, accostato da Freund e, per l'appunto, ben articolato da Molina. 

Carlo Gambescia