venerdì 30 aprile 2010

Prima del post di oggi una piccola chiosa a quello di ieri.
Devo dire che la paura fa novanta... Piuttosto che ai lettori e commentatori del blog (che vanno e vengono, certo con qualche eccezione, poche per la verità) mi riferisco agli amici e colleghi. Persone con cui ho collaborato, di cui ho pubblicato libri, cui ho dato consigli, talvolta "lanciato" e aiutato...
Per carità, mai mescolarsi agli appestati che disturbano i "manovratori", prima la carriera... E poi quando "si tiene famiglia"...
Ovviamente, come ho sempre fatto, tirerò dritto.

Carlo Gambescia

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Personalizzazione della politica 
Di chi è la colpa?



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Se Atene piange, Sparta non ride. Tradotto: se Berlusconi e Fini litigano, gli altri leader non se la passano meglio: Bersani e Franceschini si guardano di traverso, per non parlare di Veltroni e D’Alema, “fratelli coltelli” per antonomasia; Di Pietro non ha sicuramente nelle grazie De Magistris: Ferrero e Vendola quando si incontrano cambiano strada.
Perché? E’ colpa del tradizionale familismo made in Italy? Di un italiano che da secoli non riesce a superare simpatie e interessi personali: la famigerata malattia del “particulare” evidenziata dal Guicciardini cinque secoli fa?
O è colpa della ideologie? Verdastre entità gelatinose che come i mostri di Lovecraft ricicciano sempre? Ad esempio tra Ferrero e Vendola la sfida ha riguardato anche i testi sacri del comunismo italiano, a partire da dotte citazioni incrociate dai “Quaderni del Carcere” di Antonio Gramsci. Ma anche le diatribe, cavalcate dai diversi leader “carismatici”, sul federalismo e sulle riforme sociali rinviano allo zoccolo duro dell’ideologia. Ma fino a che punto?
Oppure la colpa è del bipolarismo? Del fatto che un sistema organizzato su due grandi raggruppamenti o partiti facilita la radicalizzazione delle posizioni politiche proiettando in primo piano la figura del leader? Qui però va subito sottolineato che quando regnava il pluripartitismo e comandava la Democrazia Cristiana, già esistevano i cosiddetti “ cavalli di razza”, come si li chiamava all’epoca (se ricordiamo bene l’espressione risale a Montanelli): Moro, Fanfani, Andreotti, Donat-Cattin e, discendendo le scale, Forlani, Cossiga, De Mita, eccetera. Personaggi che facevano scintille… Non era forse già quella per-so-na-liz-za-zio-ne della politica? E in piena epoca proporzionalista?
Nulla di tutto ciò. La causa delle liti politiche a piatti in faccia è nella “spettacolarizzazione” della politica. Una questione che travalica il problema, per dirla dottamente, della forma quantitativa della rappresentanza: uno, due, tre, quattro, sei, dieci partiti.
E si tratta di una formula che proviene dall’America, dove un candidato politico - soprattutto dopo la scomparsa di Franklin Delano Roosevelt (1945), il mitizzato quattro volte presidente - si deve vendere come una merce. E dunque va spettacolarizzato, come una bottiglietta di “Coca Cola”. Ovviamente un ruolo essenziale è stato giocato dal crescente strapotere dei media e dei poteri più o meno forti che vi speculano sopra. Con una conseguenza: che la “spettacolarizzazione” ha implicato la “personalizzazione” della politica. Di qui i conflitti personali e il raccogliersi di un partito intorno all’uomo (di volta in volta) “della provvidenza”: il personaggio che tanto piace alle televisioni che a loro volta tanto piacciono alla gente comune… E così il cerchio si chiude. Si pensi a Obama, Sarkozy, Zapatero, addirittura assurto a icona gay, Berlusconi. Ma anche ai loro avversari. Dalla repubblicana Palin, dipinta come una come dal grilletto facile, al professor Prodi in Italia, raffigurato come tranquillo curato di campagna… E da ultimo Fini, dipinto da Eugenio Scalfari, come autentico liberaldemocratico. Proprio Fini l’impomatato ex fascista del Duemila…
Insomma uomini e donne politici finiscono per diventare quel che la “pubblipolitica” (pubblicità + politica) vuole che siano Di qui gli scontri in stile Grande Fratello, come ieri l’altro tra Berlusconi e Fini.
Pertanto, in definitiva, l’eccesso di conflitti personali non è il prodotto di “malattie” ereditarie, dell’ideologia o del bipolarismo. Quindi inutile credere nel ritorno del pluripartisimo: la crescita del numero dei partiti moltiplicherebbe solo la quantità ( e non la qualità) dei partecipanti al “Grande Fratello” della politica italiana.
Si dovrebbe invece fare un passo indietro, rifiutando la “spettacolarizzazione” della politica. Ma come? Se ormai The Show Must Go On ?

Carlo Gambescia

giovedì 29 aprile 2010

Il libro della settimana: Esperanza Guillén, Naufragi. Immagini romantiche della disperazione, Bollati Boringhieri, Torino 2009, pp.112., numerose illustrazioni in bianco e nero nel testo, euro 13,00 (*). 





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Nell’immaginario geopolitico dell’Occidente da Erodoto a Carl Schmitt il “mare” rappresenta il discrimine della politica. O se si vuole il punto focale di rottura tra Occidente e Oriente: da un lato la flotta lanciata alla conquista del mondo conosciuto, cara alla civiltà prima ateniese poi angloamericana; dall’altro gli eserciti di terra, marcianti in ordine chiuso, altrettanto affamati di gloria, dal ferrato esercito persiano ai cingoli dell’armata sovietica.

Ovviamente semplifichiamo. Ma a questo abbiamo pensato leggendo il bel libro di Esperanza Guillén, storica dell’arte: Naufragi. Immagini romantiche della disperazione (Bollati Boringhieri, Torino 2009, pp. 112, euro 13,00). Dove, attraverso un excursus nell’arte pittorica, dall’ultimo quarto del XVIII secolo a tutto il XIX, si indaga il rapporto uomo-mare, attraverso l’esperienza del naufragio, come fatto essenzialmente metaforico e di civiltà.

Scrive la Guillén:


“La tematica del naufragio è perciò così ampia da estendersi alle più diverse crisi dell’esperienza individuale o collettiva. Il fatto è che il mare, per la sua stessa essenza liquida e per il movimento perpetuo delle sue onde, è l’ ‘agente transitivo e mediatore tra il non formale (aria, gas) e il formale (terra, solido) e, analogamente tra la vita e la morte’. Il dinamismo proprio del mare gli conferisce una condizione germinale come origine della vita, ma al contempo è anche simbolo di morte per via della sua potenza distruttrice. E’ come se i contrari si riunissero nella sua immensità: per questo può essere messo in relazione con qualsiasi aspetto dell’esistenza positivo o negativo che sia”.

Perfetto. Naufragi si legge e si apprezza proprio per il taglio geo-culturale, nonché per la bellezza delle tavole pittoriche: da “Tempesta” (1775) di Claude-Joseph Vernet alla “Nave nella tempesta” (1896) di Henri Rousseau, passando per “La zattera della Medusa” (1818-1819) di Théodore Géricault. Per citarne solo alcune tra quelle, tutte molto belle, della ricchissima iconografia.

Dicevamo all’inizio, le acque marine come discrimine politico. Ora, la Guillén, magari andando oltre il suo libro, permette di ricondurre il mare nell’alveo di una simbolica del potere. Dove il dominio sull’elemento finisce per raffigurare il movente del più ampio atteggiarsi di una civiltà. Una in particolare: quella dell’ Estremo Occidente (angloamericano), quale personificazione di una volontà di dominio delle acque, costi quel che costi.

Sarebbe perciò interessante estendere l’analisi di Naufragi all’Oriente, indagando il rapporto tra l’uomo e l’esperienza del naufragio nell’arte, ma non solo… Perché i risultati potrebbero essere completamente diversi. Forse nel senso di maggior rispetto, se non timore, geopolitico nei riguardi della tempestosa forza del mare? Non sappiamo. Ma varrebbe la pena tentare.

E uno spunto sembra offrirlo la stessa Guillén, dove nota che

“nel corso del XX secolo e gli inizi del successivo, l’emigrazione ha trasformato la morte per mare in uno dei più tragici fenomeni delle storia contemporanea (…). Perché la disperazione che costringe questa gente ad abbandonare il proprio paese supera l’ansia di avventura e soprattutto, e qui sta la differenza maggiore, perché noi viviamo, dall’altra parte del mare ci sentiamo colpevoli per la loro sorte”.

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Insomma, se l’Occidente sfidava il mare per spirito di avventura, l’Oriente, sembra oggi sfidarlo per disperazione. Non più bellicosi eserciti, ma per dirla una tantum con Serge Latouche, soltanto poveri “naufraghi dello sviluppo” .

Carlo Gambescia 


(*)La recensione qui pubblicata (con un altro lungo articolo su Europa e Turchia che apparirà altrove) doveva uscire su "Imperi" rivista diretta da Aldo Di Lello (stretto collaboratore di Gianfranco Fini). Il quale, però, dopo aver letto A destra per caso, libro scritto con Nicola Vacca, mi ha cassato da "Imperi", ritenendo "non compatibile il contenuto dell' opera con la partecipazione alla rivista da lui diretta". In una parola: epurato.
Fini parla - come ieri sera a "Porta a Porta" - di un Pdl dove sia finalmente "possibile dissentire senza essere bollato di tradimento"... E poi permette che i suoi accoliti si comportino come il Cavaliere... E questi sarebbero i liberaldemocratici che chiedono a Berlusconi di essere rispettati... Povera Italia!     (Carlo Gambescia)


mercoledì 28 aprile 2010

Grecia 
Un test di stabilità (per tutti)

 
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La questione greca è interessante come test per misurare la stabilità e la capacità sociologicamente "adattive" dei sistemi politici ed economici contemporanei, in particolare di quello europeo-occidentale.
Ora, stante la serietà della crisi greca e la possibilità "di contagio", quel che stupisce è la fermezza delle riposte politiche ad alto livello. Che può essere così riassunta: “Greci, se volete salvarvi, dovete fare ordini nei vostri conti pubblici e quindi fare sacrifici, tagliando il welfare”.
Ora una scelta di questo tipo, che implica un fallimento in “stile Argentina” della Grecia, può essere spiegata, o con l’assoluta stupidità dell’Europa e delle istituzioni internazionali dedite a una specie di “cupio dissolvi”, o con l’assoluta sicurezza dell’establishment politico ed economico di poter tener sotto controllo la situazione, anche con la forza, o comunque isolando la protesta.
Propendiamo per la seconda ipotesi, ma come si vedrà in modo non rigido. E per una semplice ragione: i governi sanno di non avere davanti alcun movimento organizzato sul “tipo ideale” del partito rivoluzionario. Come sanno della totale assenza di collegamenti tra possibili movimenti rivoluzionari e potenze straniere, come nel caso classico del comunismo sovietizzato. Di conseguenza i governi reagiscono con la stessa fermezza dell ’establishment ottocentesco davanti alle pressioni, altrettanto scomposte, di anarchici e socialisti. In una parola: repressione. Ovviamente modulandone l’intensità in base alla dolciastra retorica politica oggi dominante, alle notevoli tecnologie biopolitiche di cui gli "apparati" dispongono, nonché alla qualità e composizione della protesta sociale.
Anche perché - dato sociologicamente fondamentale - le varie forze sociali (magistratura, polizia, esercito, associazioni economiche, imprenditoriali e sindacali, media, intellettuali) mostrano di non essere divise sull’ idea di fondo di una società fondata sul mercato.
Pertanto lo sbocco finale può essere rappresentato da un capitalismo autoritario e poliziesco. Che magari ritorni a macinare profitti non per sempre, ma per un buon numero decenni. Infatti lo sfaldamento sociale, a fronte della fedeltà al sistema delle principali istituzioni, da solo non può bastare. Perché il cambiamento socioeconomico, di regola, si basa su forze organizzate “socioculturalmente”: parliamo di istituzioni che si oppongano, o conquistandole o cambiandole dall’interno, ad altre istituzioni. Pertanto i processi di decomposizione e riorganizzazione sociale, oltre al possibile sbocco autoritario o regressivo, possono assumere forma e direzione sia rivoluzionaria, sia riformista. Oppure gravitare per decenni tra le varie forme. Va poi detto, che il capitalismo, a differenza di altri sistemi storici, ha mostrato straordinarie capacità di adattamento, reversibilità e trasformazione.
Il che rende difficile prevedere con esattezza quel che accadrà nei prossimi decenni. 

Carlo Gambescia

martedì 27 aprile 2010

Crocifisso in classe,  
modesta opinione
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Alla notizia...
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Crocifisso: ricorso a Strasburgo il 30 giugno
Lo ha detto il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta
26 aprile, 12:41 - Ansa
ROMA - L'Italia presenterà il 30 giugno alla Corte europea dei diritti dell'Uomo di Strasburgo il ricorso contro la decisione della Corte che ha imposto all'Italia di togliere il crocifisso dalla scuole. Lo ha detto il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta in una conferenza stampa a Palazzo Chigi. Il 30 aprile, ha precisato Letta, l'Italia presenterà alla Corte di Strasburgo una "memoria illustrativa" delle sue ragioni

A nostro modesto giudizio l’idea di togliere il crocifisso dalle aule scolastiche non è condivisibile. E non per ragioni religiose (le radici cristiane) o politiche (la presenza in Italia del Vaticano). Ma per un motivo di natura simbolica e sociologica. Sì, sociologica. Anche perché la croce non va mai usata come un randello “religioso” per colpire chiunque non la pensi come noi. Di qui la necessità di trovare un punto di contatto con quei laici non ancora fanatizzati. Che, per fortuna, sono tanti.
Il ragionamento è questo.
In primo luogo, il crocifisso rinvia al sacrificio. Ma, attenzione, di un “uomo” che aveva predicato l’eguaglianza tra gli uomini, come mai prima nella storia. Quella croce significa simbolicamente che un “uomo” si è sacrificato per l’eguaglianza dei suoi simili. Non per gli schiavi contro i patrizi. Ma per gli schiavi e i patrizi insieme.
In secondo luogo, il crocifisso, “ci inchioda” tutti alla nostra condizione di uomini immersi in una vita che è sofferenza, anche se la società del divertimento mira a farci vivere in una sorta di gaia e individualistica incoscienza. Quella croce significa sociologicamente che la vita è, quanto meno, una “vicenda” da affrontare con la giusta severità.
Ecco, per queste due ragioni, mai toglieremmo il crocifisso dalle scuole. Dove appunto, oltre che istruire, si deve educare all’eguaglianza tra gli uomini e a una visione severa della vita.

Carlo Gambescia

lunedì 26 aprile 2010

25 Aprile 
Gli “accostamenti” del “Corriere della Sera”



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Si possono mettere sullo stesso piano le contestazioni alla coppia Polverini Moratti e i raduni "repubblichini" ?
Oggi, in effetti, i nostalgici dell’antifascismo corredato di bandiere rosse e di un fascismo inteschiato sono veramente patetici… Tuttavia a Roma e Milano, la contestazione antifascista ha assunto toni violenti, mentre la bambina “repubblichina” di Giulino di Mezzegra ha partecipato a un'innocua riunione di nonni, padri, zii in camicia nera.
Da una parte abbiamo una minoranza violenta che pretende di avere ragione fino al punto di togliere la parola agli altri, dall’altra una specie di setta politica intergenerazionale dedita a lugubri ma inoffensivi riti semiprivati.
Si dirà: i valori nazi-fascisti sono pericolosi, guai a trasmetterli ai bambini. Giusto. Ma anche i valori di un comunismo antifascista, basato sull’odio di classe, non sono meno pericolosi. Nolte ha scritto che se Hitler odiava l’ ”Ebreo”, Lenin, avido lettore di Marx, detestava il “Borghese”. E per ogni "vero" comunista, come si sa, nel petto di un borghese batte sempre un cuore fascista.
Infine -  va detto per onestà - il fascismo, se fu antisemita, lo fu per puro opportunismo di alleato. Quindi ancora peggio. I nazisti “almeno” ci credevano…
Perciò non è uno spettacolo edificante quello della bambina “in camicia nera” in “gita” dalle parti di Salò. Ma non lo è neppure quello delle contestazioni violente a Roma e Milano.
Ma - ecco la domanda per i lettori - è giusto accostarli ? 

Carlo Gambescia

venerdì 23 aprile 2010

Rottura Berlusconi-Fini
Chi vince?   Chi perde?


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Dal punto di vista delle reazioni psicologiche, quel che è avvenuto ieri all’Auditorium di via della Conciliazione rientra nella categoria dello psicodramma. E dunque non riguarda la politica in senso stretto.
E’ invece molto interessante scoprire, sotto il profilo strettamente politico, i possibili vincitori e vinti della giornata di ieri. “Possibili”, perché il quadro è così fluido che, appunto, “tutto è possibile”.
Innanzitutto, ha vinto Berlusconi, perché ha tolto di mezzo un fastidioso concorrente. Non ha vinto invece il PdL, perché gli ex aennini fedeli a Berlusconi, in futuro, potrebbero sollevare nuove questioni politiche. E per quale ragione? Proprio per difendersi dal tiro al bersaglio, che Fini (sia che resti, sia che esca) eserciterà comunque sul PdL. Ha perso sicuramente il Governo: con questa rottura si apre, soprattutto al Senato, un periodo di guerriglia politica da parte della pattuglia finiana. In questo senso il Pdl - una volta sotto attacco - potrebbe rafforzare il suo asse preferenziale con la Lega, che di conseguenza, almeno fino a quando il Governo Berlusconi resterà in carica, avrà tutto da guadagnare dalla frattura tra il Cavaliere e Fini.
L'esatto contrario di quel che auspicava il Presidente della Camera. Il quale, e non solo per quest'ultimo motivo e almeno per ora, ha perduto. Infatti Fini si ritrova con scarse truppe, di qualità ridottissima (penose e infantili le dichiarazioni di Bocchino, Urso, Campi, incomprensibili quelle di Moffa ), in posizione di netta minoranza e con a forte rischio la carica di Presidente della Camera, e dunque la sua personale visibilità.
D’ora in avanti Fini dipenderà dalla benevolenza delle Opposizioni di Centro e di Sinistra. Rischia perciò di trasformarsi in una specie di Madonna Pellegrina - come Montanelli o la D'Addario - da portare in processione alle Feste dell'Unità e ad "Anno Zero", quale "sacrale" retaggio simbolico della cattiveria cosmica di Berlusconi.
Vincono sicuramente le Opposizioni di Centro e di Sinistra che si ritrovano sul loro confuso cammino un Governo che rischia di non avere più i numeri sufficienti per legiferare. Però incombe anche il rischio di nuove elezioni.
Perdono, infine, gli italiani tutti. Perché un Governo, privo dei voti sufficienti “per governare”, in un momento di seria crisi economica, non è certamente quel che serve al Paese. Per non parlare, ripetiamo, di nuove elezioni. Che però potrebbero essere ritardate attraverso l'insediamento di un "governo tecnico"... Nel quale Fini potrebbe giocare un ruolo non secondario. Come a suo tempo Dini.


Carlo Gambescia

giovedì 22 aprile 2010

Il libro della settimana: Alexandre Del Valle, Verdi, Rossi, Neri. La convergenza degli estremismi antioccidentali: islamismo, comunismo, neonazismo, Lindau, Torino 2009, pp. 488, euro 32,00.

http://www.lindau.it/schedalibro.asp?idLibro=1195




Per quale ragione leggere l’ultima fatica di Alexandre Del Valle: Verdi, Rossi, Neri. La convergenza degli estremismi antioccidentali: islamismo, comunismo, neonazismo (Lindau, Torino 2009, pp. 488, euro 32,00)? Per lo stesso motivo per il quale si deve leggere la letteratura cospirativa, cui il libro appartiene: documentarsi. Capire quel che bolle nel pentolone negli ambienti politicamente radicali in campo antioccidentale o contro, come appunto nel caso del lavoro di Del Valle, politologo e scrittore francese, strenuo difensore dell’ “unione panoccidentale”.
Di regola, il libro cospirativo si rivolge a un pubblico di affezionati lettori. Tutti interessati a scoprire, spesso in chiave paragiudiziaria, collegamenti e motivazioni dei gruppi sociali “ombra”, che tale letteratura presume dediti alla conquista del mondo. Va però riconosciuto che dietro l’interesse, anche morboso, per la letteratura cospirativa si nasconde una questione seria e spesso di carattere generale.

Ad esempio il cospirazionismo per così dire anti-usurocratico, che innerva i libri di Maurizio Blondet, pone il problema del controllo democratico dell’economia e soprattutto della moneta, sinceramente avvertito dalla gente. Per contro, la tesi di Del Valle sulla sistematica convergenza di estremisti islamici, comunisti nostalgici e neonazisti, rivela come la democrazia politica, pur imperfetta dell’Occidente, sia sempre a rischio. E come i suoi nemici spesso provengano da sponde ideologiche opposte.
Ma lasciamo la parola all’autore:

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“Nel presente saggio si sostiene la tesi che l’Occidente giudaico-cristiano, indistintamente associato all’imperialismo americano, al sionismo, all’Europa coloniale o al capitalismo o al mercato economico, non è mai stato così tanto detestato e contestato da una simile pletora di individui che lavorano alla sua catartica distruzione. Tale odio, specchio capovolto dei valori liberali e individuali incarnati dall’Occidente considerato responsabile di tutti i mali della terra, riunisce nella contestazione che lo fomenta le famiglie totalitarie dell’ ’iperantioccidentalismo’, i cui colori si sovrappongono come in un cocomero. Il verde della scorza è il colore dell’islamismo radicale (…). Il rosso della parte interna è il colore del comunismo rivoluzionario e della nuova sinistra terzomondista (…). Il colore nero del centro, o piuttosto dei suoi semi, è quello delle camicie nere della barbarie nazifascista” .

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Resta il fatto però, che una volta superato l’impatto della metafora cucurbitacea, risulta difficile seguire il cammino dell’autore. E in particolare il suo inerpicarsi, più da giudice istruttore che da storico, lungo i tortuosi sentieri dei collegamenti non tanto ideologici quanto fattuali. Del Valle, infatti, procede con passo da bersagliere lungo un percorso in salita che va - solo per fare pochi nomi tra centinaia - dal Grande Muftì di Gerusalemme, Hitler, Mussolini, Degrelle, Guénon a Chavez, Morales Ahmadinejad, Thiriart e Garaudy.
Ad ogni buon conto, per verificare il “Teorema Del Valle” servirebbe un altro libro della stessa lunghezza. Altro che una recensione… Del resto è tipico della letteratura cospirazionista fondarsi prima sull’atto d’accusa ideologico, poi sulla ricerca delle prove.

Diciamo solo che la definizione di Alain de Benoist come “attualmente cronista del quotidiano italiano ‘il Giornale’ “, lascia perplessi: non sembra, infatti che il padre della Nouvelle Droite, “attualmente” faccia il giro dei commissariati e degli ospedali milanesi in cerca di notizie fresche… E’ vero invece che vi pubblica, ogni tanto, colti editoriali.
Certo, se il buongiorno si vede dal mattino, Verdi, Rossi, Neri di sviste del genere, potrebbe contenerne parecchie. Comunque sia, lasciamo agli specialisti il diritto di emettere sul libro di Alexandre Del Valle - è proprio il caso di dirlo - sentenza definitiva.

Carlo Gambescia

mercoledì 21 aprile 2010

A proposito del fascismo 
di Ezra Pound




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Se vi fosse sfuggita, ecco un’occasione per leggerla tutta d’un fiato. Di cosa parliamo? Ma dell’intervista al “Corriere della Sera” di Mary de Rachewiltz, figlia di Ezra Pound, “l’Omero americano del Novecento”. Lei stessa raffinata traduttrice, studiosa di letteratura e poesia, oltre che appassionata legataria del pensiero e dell’opera paterne. http://www.corriere.it/cultura/10_aprile_01/ezra-pound-breda_6e7fa504-3d54-11df-9bd9-00144f02aabe.shtml ().
All' Ezra Pound ammiratore di Mussolini, come è noto, si richiama apertamente la destra neofascista. Ma secondo la figlia ( stando almeno a quel che riporta l’intervistatore Marzio Breda):

«Questo è un altro modo di mettere Pound in una gabbia, com'era quella del Disciplinary training center di Pisa dove fu segregato, la Guantanamo del 1945. Un danno enorme, perché nasce da una distorsione del significato del suo lavoro e rischia di comprometterne ancora un pieno riconoscimento critico. Un abuso, perché così lo si relega in una dimensione ambigua che va oltre il reazionario, verso una cifra regressiva. E perché lo si indica, a ragazzi dalle menti confuse, come un profeta tanto più affascinante in quanto pericoloso e proibito». Per l'erede del poeta, insomma, «non si può restare sul diplomatico», nel giudicare coloro che pretendono d'essere i «nipotini di Pound». L'hanno elevato a oggetto di un culto a sfondo quasi mistico-esoterico. E l'hanno inserito tra gli antenati ideali rievocando a mo' di slogan alcune sue frasi «più o meno fiammeggianti pescate qua e là senza logica» dalla stagione in cui sostenne Mussolini. Che «per mio padre fu un momento di frattura molto complesso (…). A lui interessava l'etica più che la politica, e di Mussolini diceva che avrebbe voluto educarlo e che era stato distrutto per non aver seguito i dettami di Confucio» (…). Essendo parte in causa, per lei dovrebbero essere gli anglisti che hanno a cuore la memoria di Pound a «battersi contro certe indebite appropriazioni».

Non parleremmo però di “indebite appropriazioni", Pound fu fascista, certo in modo originale, ma lo fu. Inutile negarlo. E un dettaglio, magari folcloristico ma non privo di importanza, resta quello del suo saluto romano all’arrivo in Italia, di ritorno dalla prigionia americana.
Ma Pound fu soprattutto un grande poeta. Probabilmente il massimo del Novecento. Difficile da leggere, ricco di chiavi e cifre che una volta scoperte lasciano il segno, toccando vette metastoriche, in una parola universali. Mutano infatti le generazioni, ma si continua a leggere la sua poesia. E di regola, prescindendo dal suo credo politico.
Il fascismo entre-deux-guerres - sia detto con il massimo rispetto - è un fatto storicamente transeunte, la poesia, soprattutto quella grande, no. Perché evoca l’ eterno insito nell’ uomo. E Pound, ripetiamo, resta un grande poeta che continuerà a parlare al mondo nei secoli futuri. Come Omero e Dante.
Probabilmente perciò ha ragione Mary de Rachewiltz: se Ezra Pound fu fascista - fascista soprattutto mussoliniano - lo fu per caso, incidentalmente. Certo, con la coerenza che gli era caratteriale. Ma la coerenza è la forma assoluta che trascende contenuti, sempre epocalmente "relativizzabili". Figurarsi per un poeta, ripetiamo, capace più di altri di parlare all'eterno racchiuso nell'uomo.
Però, dal momento che la grande poesia parla a tutti, non può non parlare anche ai fascisti. Perché scandalizzarsi? L'importante è non accettare che la lettura neofascista di Pound - o comunque una lettura politicamente militante - sia l'unica degna di questa nome. O addirittura quella autentica. Tutto qui.

Carlo Gambescia 

martedì 20 aprile 2010

L'eruzione dell'Eyjafjöll
Il volere della nube di cenere


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Può un’ eruzione vulcanica bloccare la potente civiltà economica dell’Occidente? Pare proprio di sì. E a cominciare dal trasporto aereo, in crisi da giovedì.
Non tutti forse saranno d’accordo, ma quel che più colpisce è la rassegnazione della gente, nonostante le telecamere puntate a ciclo continuo sulle sale d’aspetto degli aeroporti. I media, di regola sapienti "dosatori", questa volta non hanno fatto nulla per sdrammatizzare.
Tuttavia, nonostante l’isterismo mediatico, la reazione delle persone finora è stata molto civile: prevale, fra la gente comune, l’accettazione del “volere della nube di cenere”.
Differente invece la reazione di compagnie aeree e governi, segnata da (apparente) attivismo. Dal momento che le compagnie sono già da tempo in rosso, mentre i governi non possono restare, “per contratto” con le mani in mano. Come un tempo Dio, oggi è la modernità che "lo vuole".
Sotto quest'ultimo aspetto la reazione della gente comune resta antropologicamente pre-moderna, mentre quella di governi e imprese economiche moderna. C'è però un altro fatto: la natura che circonda l'uomo non è pre-moderna né moderna, ma, più semplicemente, è.

E la gente comune, a differenze delle élite, mostra di non aver dimenticato la lezione.

Carlo Gambescia

lunedì 19 aprile 2010

Un nuovo "partitone" cattolico? 
No, grazie


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A ogni crisi politica, nostalgicamente, alcuni editorialisti tirano fuori l'ever green Prima Repubblica della vecchia Democrazia cristiana che "tutto sommato"... Ma si sa la nostalgia è sempre canaglia: deforma la realtà Soprattutto quando si rimpiange la cara vecchia “Balena Bianca”. Perché dietro la “voglia” di Dc fanno capolino tante Democrazie Cristiane immaginarie… Forse troppe, perché - il lettore si tenga forte - l’ unità politica dei cattolici non è mai esistita.
Non è esistita davanti al fascismo: i famosi clerico-moderati si gettarono nelle braccia di Mussolini. Né davanti al comunismo, come mostra la storia della sinistra cristiana e di quella dossettiana; per non dire delle varie correnti sinistrorse politico-parlamentari.
E’ invece esistito un blocco elettorale fondato su interessi assortiti, soprattutto durante la Prima Repubblica. E molto meno sui valori, se non come foglia di fico. Va perciò subito chiarito un grande equivoco: l’anticomunismo democristiano deve essere ricondotto alla natura corporativa della società italiana, così bene assecondata dalla Dc.
Una società rissosa che ha respinto il comunismo nel Primo come nel Secondo dopoguerra, soprattutto per egoismo E che continuerà a rifiutarlo fino a quando non decollerà, negli anni Settanta, anche grazie allo sviluppo delle Regioni, il consociativismo degli interessi con un Pci omologato e socio di minoranza della Spa Italia a guida Dc.
Il fatto che non vi sia mai stata “vera” battaglia sui valori, se non nel 1948, è abbondantemente dimostrato dalle sconfitte referendarie (divorzio e aborto); scontri politici mai sostenuti da “tutta” la democrazia cristiana.
Si dirà: ma come mai la Dc è rimasta al potere per oltre quarant’anni? Presto detto: mondo diviso in blocchi, ma anche governo degli interessi. Ossia capacità democristiana, questa sì, molto chiesastica, di infilare i propri uomini ovunque, cercando di non scontentare le diverse corporazioni: insegnanti, coltivatori, impiegati, imprenditori, eccetera.
Va da sé che l’ideologia interclassista si coniugava benissimo con l’ecumenismo degli interessi: la Dc, in fondo, di necessità faceva virtù. Altro che ricerca dell’ unità politica in nome dei valori cristiani…
Oggi che spazio può esservi per un partito cattolico? E in una società economicamente divisa, dove i valori cattolici - dispiace dirlo - sono in caduta libera?
Prima qualche cifra. L’Udc, partito che si proclama cattolico, alle ultime politiche ha ricevuto oltre 2 milioni di voti alla Camera e 1 milione e 900 mila al Senato. Mentre La “Balena Bianca” alle ultime elezioni cui si presentò unita, quelle del 1992, prese più di 11 milioni di voti alla Camera e 9 milioni al Senato.
La differenza lascia senza parole. Come risalire la china per recuperare un elettore i cui interessi sono ormai difesi da altri?
Del resto se i voti sono finiti in tutti i partiti principali (dal Pdl, Pd, Lega), con soddisfazione degli elettori come attestano risultati elettorali e ricerche, non si capisce perché gli elettori dovrebbero cambiare cavallo e puntare sull’UdC o su un nuovo Rassemblement? Solo perché lo auspicano alcuni onorevoli scontenti delle “nuove case”? E per giunta in nome dei valori cattolici? Ma quali? Se la Dc si reggeva sugli interessi? Lasciamo perdere… Qui si rischia veramente di fare un’operazione verticistica a fondo perduto.
Ma c’è un’altra questione. Un partito politico-confessionale darebbe subito la stura ad altre formazioni simili (a cominciare da quelle islamiche…). Il rischio, in un paese di immigrazione come l’Italia, è quello di ritrovarsi fra qualche anno con un Parlamento non “Repubblicano” ma delle “Confessioni”.
Un ultimo punto. La stessa Chiesa, con i suoi appelli e interventi, oggi si rivolge ai cattolici presenti nei differenti partiti, e non a un partito unico cattolico. Una scelta intelligente: la Chiesa ha compreso che i rapporti di forza si sono spostati altrove e che gli elettori vanno lasciati liberi di scegliere.
Qualcuno lo spieghi a Casini & Co. Evidentemente molto meno saggi del Papa.

Carlo Gambescia

venerdì 16 aprile 2010

Fini(ale) di partita?


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Fini sta sbagliando tutto. E proprio dal punto di vista della lotta politica: quello dei puri rapporti di forza. Ci spieghiamo meglio.
Anche ammesso che Fini voglia dare vita a un' immaginaria destra civile, come sostengono i suoi estimatori interessati a sinistra - che vogliono solo far cadere il Cavaliere - non ha truppe sufficienti: la “materia prima” quando si tentano certe operazioni spericolate… Quella che di solito si getta sul piatto della bilancia.
Certo, Fini potrebbe provocare la crisi di governo. Ma in caso di elezioni anticipate il rischio di non essere seguito da un elettorato di centrodestra, che non ha mai capito il suo remare contro Berlusconi, è pressoché certo. Fini potrebbe ritagliarsi qualche spazio elettorale al Centro-Sud, ma limitatamente ad alcune città (Latina, Napoli, e poche altre). Insomma, rischia veramente di sparire dalla scena politica o di finire ostaggio, pur di essere rieletto, del centrosinistra. Pertanto la “destra civile” resterebbe un’invenzione di Scalfari… Non ci sono truppe, programmi, prospettive.

Sulle truppe parlamentari (scarse), rinviamo a questa nota molto interessante ripresa dal sito dell’Ansa:
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“Italo Bocchino, Carmelo Briguglio, Andrea Ronchi, Flavia Perina, Roberto Menia, Giulia Bongiorno, Enzo Raisi, Amedeo Laboccetta, Adolfo Urso, Pasquale Viespoli, Alessandro Ruben. Sono alcuni dei 'finiani' di stretta osservanza che, immediatamente dopo il teso vertice tra Berlusconi e Fini negli appartamenti del presidente della Camera a Montecitorio, si sono riuniti nello studio di Fini. Si e' ad un punto di non ritorno, dopo che il presidente della Camera ha annunciato al premier di essere pronto a costituire gruppi autonomi alla Camera? ''Di fronte a risposte negative ai problemi politici posti da Fini si''', spiega Italo Bocchino. I numeri minimi per costituire gruppo sono di venti deputati alla Camera e dieci senatori a Palazzo Madama. E stando alla 'conta' che in queste ore i finiani vanno svolgendo, si puo' toccare la soglia. Difficile non definire finiani 'icto oculi' esponenti della vecchia Alleanza Nazionale come Donato Lamorte, Francesco Proietti, Angela Napoli, Silvano Moffa, Riccardo Migliori, Mirko Tremaglia, Basilio Catanoso, Giuseppe Scalia, Antonino Lo Presti. O nuovi 'finiani' come Gianfranco Paglia o Fabio Granata. Alla Camera gia' cosi' si supera il numero di venti. Al Senato, per fare gruppo servono dieci senatori. E come 'finiani' possono essere reclutati Pasquale Viespoli, Filippo Berselli, Luigi Ramponi, Pierfrancesco Gamba, Laura Allegrini, Antonino Caruso, Giuseppe Valentino, Mario Baldassarri, Domenico Gramazio, Domenico Benedetti Valentini, Vincenzo Nespoli. Anche al Senato la soglia dei dieci e' superata.”
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Come si può notare i finiani non sono molti: alcuni di quei "nomi" all'ultimo momento potrebbero tirarsi indietro. Ci sono dubbi addirittura sulla possibilità di formare gruppi alla Camera e al Senato. Ecco perché non è facile formulare previsioni. Fini potrebbe fare marcia indietro come andare avanti.
Tuttavia ipotizziamo la rottura. E per due ragioni: a) il rapporto con Berlusconi è da tempo logoro; b) la nota spregiudicatezza dell’entourage finiano. Di qui la possibile scelta di giocare la carta, molto azzardata, della scissione. In certo senso potrebbe essere un'operazione "democrazia nazionale", con "uscita" a sinistra... Ma probabilmente con risultati non dissimili.


Comunque sia, i prossimi giorni saranno decisivi.

Carlo Gambescia

giovedì 15 aprile 2010

Il libro della settimana: Robert Spaemann, Rousseau cittadino senza patria. Dalla "polis" alla natura, Edizioni Ares, Milano 2009, pp. 160, euro 14,00.


www-ares.mi.it

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La filosofia di Robert Spaemann, importante filosofo tedesco cattolico, oggi ottantenne, può essere così condensata: l’uomo è interiorità. Il filosofo parla di una plasticità spirituale capace di manifestarsi in una vita sociale densa di significato ultramondano. Dove l’uomo sia finalmente capace di ritrovare il senso del suo vivere pratico, collegando esistenza e provvidenza. Ciò che non avviene oggi.
Piaccia o meno, non siamo davanti a un pensiero debole. Spaemann, molto letto anche in Italia, ha pubblicato numerosi libri. Qualche titolo: Concetti morali fondamentali (Piemme 1993), Per la critica dell’utopia politica (Franco Angeli 1994), Le origini della sociologia dallo spirito della restaurazione, Laterza 2002), Natura e ragione. Saggi Antropologia (Edizioni Università della Santa Croce 2006).
La sua opera è un corpo a corpo intellettuale con il pensiero illuminista. Da Spaemann “sezionato” in modo instancabile. Ma con cuore puro: alla luce del tentativo di ritrovare nelle aporie di una ragione, che spesso si vuole o trionfante o decadente, gli spiragli di una filosofia della pratica rispettosa dell’argomentazione razionale come della fede.
Per moderni e postmoderni il cammino di Spaemann può essere giudicato inutile. Mentre, in realtà, si tratta di un pensiero profondo che si muove con grande perizia intorno ai sottili confini della modernità. Di qui l’importanza di leggerlo. Magari partendo proprio dal suo Rousseau cittadino senza patria ( Edizioni Ares, Milano 2009, pp. 160, euro 14,00). Volume, fresco di stampa, che si avvale di un’ottima prefazione di Sergio Belardinelli cui fa pendant l’eccellente postfazione di Leonardo Allodi, al quale si deve anche la fedelissima traduzione.
Rousseau per Spaemann non è la soluzione ma il problema. Perché “il problema del rapporto tra emancipazione e integrazione è ciò che Rousseau ha lasciato in eredità alle generazioni successive”.
Infatti, per un verso il filosofo ginevrino ha contrapposto la natura buona dell’uomo alla società cattiva, per l’altro ha avanzato, senza sciogliere i dubbi, la possibilità di creare un uomo nuovo, “ipersocializzandolo”.
Due obiettivi, contrastanti ma paralleli, che i filosofi e i politici dei secoli successivi perseguiranno, puntando sia sulla costruzione dell’uomo nuovo nella società senza classi (la società comunista), sia sull’edificazione del cittadino nuovo nella società con le classi (la società borghese).
Secondo Spaemann, Rousseau invece guardava altrove, perché auspicava il superamento delle contraddizioni umane per altri vie: quelle di un’interiorità capace di apprezzare il sacro, rifiutando però il trascendente. Qui il suo limite implicito e dunque insuperabile.
Tuttavia “ mentre la teoria rousseauiana, con il suo pathos della liberazione, diventa determinante per i movimenti rivoluzionari fino al marxismo, la sua teoria sociale e il suo concetto di ‘natura della cosa’ attraverso Bonald, diventa determinante per la teoria positivistica della società”.
E la “natura della cosa”, per essere chiari, non rinvia altro che alle cose come sono: alla realtà fisica come appare all’uomo. Realtà che se non può essere modificata “socialmente” dal rivoluzionario, può però essere manipolata “meccanicamente” dallo scienziato. Attività, quella scientifica, che diventa così norma universale fino al punto di trasformare gli scienziati nei membri di una nuova casta.
Mentre per Spaemann, come nota Allodi, “il modo” in cui l’uomo vive la natura delle cose, non è rivoluzionario né scientifico o peggio scientista, bensì determinato dal fatto “che egli non coincide mai” con la propria natura “ma la possiede” tenendosi a distanza.
Ed è proprio la capacità di “distanziarsi” che fa essere l’uomo persona. Capacità che si chiama interiorità. E che acquisisce senso e significato solo grazie a un disegno che trascende il mondo, non umano ma divino.

Carlo Gambescia

mercoledì 14 aprile 2010


Destra e sinistra, piano con i necrologi...

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Ma la “dicotomia” destra/sinistra che fine ha fatto? E’ scomparsa o vive e lotta insieme a noi? In realtà, dopo due secoli di “coccodrilli” chiusi nei cassetti di storici, ideologi e giornalisti (evitando di tirare in ballo i fissati che tuttora collocano gli Indoeuropei a destra e tutti gli altri sinistra…), sembra invece godere discreta salute, nonostante qualche piccolo acciacco.
Ma quel che dà più fastidio è la superficialità di giudizio. Ci spieghiamo subito.

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Sogni e realtà
Capita spesso di leggere che le categorie di destra e sinistra “vanno” superate. Oppure che “sono” in fase di superamento.
Al tempo, delle due l’una. Perché le due tesi (“vanno” e “sono”) indicano approcci completamente diversi. Intanto, asserire che le categorie di destra e sinistra “vanno” superate significa esprimere una posizione morale: come una certa realtà deve essere. Semplificando: significa attribuire a un desiderio morale (che destra e sinistra spariscano…) un valore di verità in cui tutti “devono” credere… Mentre sostenere che la dicotomia “è” in fase di superamento, vuol dire che i fatti confermano fotograficamente: come una certa realtà è .

Per farla breve: significa assegnare alla realtà ( che destra e sinistra stanno sparendo…) un valore di prova del desiderio di cui sopra. Il punto è che non tutti sono d’accordo sul valore di quella prova, o meglio di quella fotografia: per alcuni è un fotomontaggio, per altri è stata scattata dalla distanza sbagliata, eccetera…
Di più: spesso i due approcci - che per comodità definiamo, “moralistico” (come la realtà deve essere) e “fotografico” (come la realtà è, o meglio come si presuppone che sia) - vengono mescolati insieme, generando così altra confusione. Ma allora come stanno le cose?

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La "fotografia totalitaria"
Storicamente, la tesi “moralista” del superamento della dicotomia destra/sinistra resta il cavallo di battaglia delle correnti anti-democratiche ma anche di quelle democratiche, soprattutto se critiche della democrazia rappresentativa e favorevoli alla democrazia diretta. Nel Novecento però hanno avuto la meglio i “fotografi” del manganello: ossia i fascismi, che sulla base della soppressione di fatto di ogni distinzione tra destra e sinistra, hanno imposto una “fotografia” di ordine totalitario. Il che significa che finora la tesi del superamento destra/sinistra è sfociata nell’anti-democrazia.
Ovviamente, oggi, quella “fotografia totalitaria” viene utilizzata dai sostenitori della democrazia rappresentativa, come argomento difensivo contro chiunque provi a rilanciare il “né destra né sinistra”. E in particolare contro i movimenti neo-populisti che spesso inveiscono contro tutto e tutti. Ma i fatti sociali confermano che sia comunque in corso un qualche superamento della dicotomia destra/sinistra?E’ molto difficile rispondere.

In genere, e da posizioni tipo "né destra né sinistra", si cerca di comprovare la tesi del superamento in atto, puntando sull’avvenuto passaggio degli elettori di estrazione operaia da sinistra a destra... Il che poteva essere valido fino agli anni Ottanta del Novecento ( si pensi ai famigerati operai comunisti francesi che votarono nel 1984-1988 per Le Pen…). Ma oggi? A tanti anni dalla caduta del Muro? Si può parlare ancora di passaggio dalla sinistra comunista alla destra neo-fascista? O viceversa? Dove sono gli schieramenti contrapposti e ideologizzati? In Europa neo-comunisti e neo-fascisti hanno una rappresentanza elettorale così ridotta da rendere improbabile una prospettiva sociologica del genere.
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I veri desideri della gente
Temiamo invece che il sempre annunciato superamento destra/sinistra abbia preso un’altra direzione. Quale? Quella della conferma dell’ordine esistente. Infatti, i programmi politici, dei partiti conservatori e progressisti sono praticamente identici. Si tratta perciò di un processo di “omogeneizzazione” che rendendo la politica più light , consolida l’attuale sistema socio-economico. Del resto l’ “elettore medio” - che in genere appartiene al già numeroso e “pacioccone” ceto medio - chiede non voli pindarici ma sicurezza e consumi. E i partiti tradizionali, pur di rimanere al potere, si adeguano. Certo, restano sempre le questioni del crescente astensionismo e del neo-populismo. Ma possono essere viste come prova di una seria e diffusa volontà sociale di andare oltre la destra e la sinistra? No.
L’astensionismo indica un fenomeno a metà strada tra l’indifferenza e la protesta. Quindi si tratta di un atteggiamento difficilmente valutabile. Al quale però non ne corrisponde uno analogo anche nel campo dei consumi. Cosa vogliamo dire? Che chi non vota esprime il suo consenso in altro modo. E come? Vota sì al sistema ogni volta che entra in un ipermercato. Altro che fare le barricate…
Quanto al neo-populismo, che in alcune frange politiche rivela una volontà di andare oltre gli schieramenti esistenti, va detto che resta un fenomeno piuttosto ridotto in termini quantitativi. Inoltre non va dimenticato che il termine neo-populismo è stato creato ad arte dagli avversari di sinistra per screditare questi movimenti. I quali, di riflesso, tendono a “perbenizzarsi” alleandosi con i partiti di centrodestra. E qui si pensi alla sorte della Lega, rifluita nell’alveo della normale dialettica politica destra/sinistra.

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Tra il dire e il fare...
Pertanto la tesi del superamento in corso non sembra comprovata. Anche perché certo linguaggio neo-populista che spesso viene indicato come prova di abbandono della dicotomia, non è altro che un atteggiamento di tipo romantico ad uso più dei militanti che degli elettori. Perciò come fenomeno politico di massa il superamento “rivoluzionario” della dicotomia destra/sinistra non si è ancora materializzato. E qui basti ricordare come invece fascismo e nazionalsocialismo, che intendevano davvero andare “oltre” , non si limitarono a giocare solo con le parole.
Altra cosa invece è discutere, sul piano “morale”, della auspicabilità o meno del superamento della dicotomia destra/sinistra. Si tratta di un atteggiamento perfettamente lecito. Ma che implica non l’uso di slogan ma il serio confronto su alcuni problemi. Ad esempio, come organizzare democraticamente la rappresentanza delle opinioni e delle scelte politiche in un quadro istituzionale privo dei partiti tradizionali? E l’economia? Come gestirla, visto il nesso esistente tra libero mercato e democrazia rappresentativa? E la libertà di pensiero e parola? Che fare, su questo piano, di quelle posizioni esistenziali, morali e filosofiche che rinviano al tradizionalismo e al modernismo?
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Conclusioni
In realtà, benché alcuni ritengano “moralmente” sorpassata la dicotomia destra/sinistra nei termini di quel “deve” cui accennavamo all’inizio, resta un fatto importante. Quale? Che all’interno di qualsiasi gruppo sociale tendono sempre a riproporsi “psicologicamente” le divisioni tra coloro che difendono lo status quo e quelli che vogliono cambiarlo. E infine tra questi ultimi e quelli che aspirano al ritorno allo status quo ante… Nell’ ordine: conservatori, progressisti e reazionari. Quindi discutiamo pure di fine della dicotomia, ma "con juicio"…
Invece quel che va evitato è proiettare i nostri desideri su una realtà sociale non ancora pronta.  O addirittura  su posizioni quietiste o “centriste”: composta di gente che vuole il cambiamento senza però perdere i vantaggi e le opportunità offerte dal sistema; persone, come notò Leo Longanesi, che vogliono fare la rivoluzione col permesso dei carabinieri.
E quante ce ne sono ancora in giro.

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Carlo Gambescia