venerdì 31 gennaio 2020

Coronavirus, mass media e politica
Da Homo Sapiens a Homo Sapiens


Il mondo è globale però gli uomini sono locali…  A questo pensavamo  osservando il diverso comportamento della politica e dei mass  media sulla vicenda del  Coronavirus….  
Globale e locale in che senso?  Globale, intanto, per il fatto che esistono organizzazioni internazionali come l’Onu e   l’Oms, in particolare, che rispondono, a una logica politica, quindi di tipo prudenziale. Applicano, il principio di precauzione, che discende da quello di responsabilità. Siamo davanti a medici-politici. Per capirsi, il ragionamento  istituzionale è questo: “C’è un’epidemia in atto,  non è grave, ma nell’incertezza di prevederne le conseguenze,  agiamo come se  ci si trovasse dinanzi  a un   fenomeno dalle potenziali conseguenze catastrofiche, senza però darlo troppo a vedere”.  Ovviamente, nel caso dell’Oms,  ogni paese poi risponderà, sempre politicamente, pur ufficialmente uniformandosi,  in chiave locale, secondo le proprie tradizioni culturali e organizzative.  Comunque sia - ecco il punto   -   esiste una logica prudenziale ( “del come se”)  che è quella delle istituzioni politiche. 
E i mass media, come istituzioni,  invece a che tipo di logica rispondono?  Alla logica del successo,  che non è sicuramente di tipo prudenziale. I  media trattato la  “notizia-epidemia”  come qualsiasi altra notizia, in base a un serie di indici socio-economici, da quelli di ascolto a quelli pubblicitari, indici che però dettano l’agenda mediatica, fino a scalarne la vetta. Quel che in pratica sta avvenendo con la “notizia-epidemia”, ormai al centro, sul piano mondiale, di ogni notiziario e programma.  
Se l’atteggiamento prudenziale si regge sul “come se”, quello del successo, si fonda sul “come è”, quale corollario della legge di Thomas (se gli uomini giudicano  una situazione reale le sue conseguenze saranno reali).  Per capirsi, il ragionamento è il seguente: “C’è un’epidemia in atto, è sicuramente grave, e per questo motivo  i politici  la nascondono, noi dobbiamo sbugiardarli”.   

Naturalmente, come nel caso dell’istituzione Oms, ogni paese, sotto l’aspetto mediatico, risponderà localmente, secondo le proprie tradizioni culturali e organizzative. Ad esempio, dove i mass media, sono controllati dallo stato, la logica prudenziale, ovviamente corretta localmente, prevarrà su quella del successo. E viceversa, dove il controllo è privato, come nelle società aperte. Naturalmente su questo impasto mondiale di logica prudenziale e del successo, pesano le tradizioni nazionali, che rinviano al tasso di sfiducia o meno, dei cittadini  nei riguardi delle istituzioni, politiche e mediatiche, oggi piuttosto basso a causa delle propaganda populista,   molto attiva nelle società aperte,   
Pertanto, come si può facilmente capire, il mix tra logica prudenziale e logica del successo, con relative correzioni nazionali,  si basa su una contraddizione di fondo, dalle conseguenze imprevedibili.  Ogni atto prudenziale, in qualche misura virtuale,  delle istituzioni politiche (dall'Oms ai governi nazionali)  è inevitabilmente  interpretato dalle istituzioni mediatiche (transnazionali  e nazionali) come un atto reale. Il che però  provoca la progressiva distorsione della percezione collettiva della realtà. Che a sua volta, in particolare nelle società aperte come la nostra,  va a incidere sulle decisioni delle istituzioni politiche, che senza neppure rendersene conto, cominciano a ragionare in termini di logica del successo, massmediatica, quindi non più prudenziale o politica.  Con conseguenze che possono essere disastrose per la libertà dei  cittadini e per gli  scambi  economici e culturali.  Soprattutto quando la distorsione della percezione degli eventi rischia di  assurgere a livelli patologici.

Esistono rimedi?  No. Se non quello estremo del  ferreo controllo delle istituzioni politiche sulle istituzioni mediatiche. Impossibile da attuarsi nella società aperta. E neppure auspicabile. 
Dicevamo all’inizio che il mondo è globale e l’uomo locale. In realtà,  l’uomo più che globale o locale  è antico, antichissimo.  
Nel senso che le sue reazioni basiche sono le stesse da quando è apparso l’Homo Sapiens. Al capire  l' uomo  preferisce il credere (non tutti gli uomini ovviamente, altrimenti il progresso scientifico e sociale  non avrebbe spiegazione, progresso che tuttavia da che mondo è mondo è sempre stato  opera di persone geniali  o comunque di minoranze creative). Diciamo che sul piano dei comportamenti  sociali, del  comportamento medio o collettivo,   se ci passa l’espressione,  l’uomo è un "credulone".  Il che ha fatto la fortuna per migliaia di anni dei politici, “non prudenziali” come oggi  dei mass media.  
Si pensi a quel che accade nell’ universo social, dove non c’è praticamente alcun filtro… Come si comporta  il cosiddetto Homo Sapiens?


Carlo Gambescia                                  

giovedì 30 gennaio 2020

La legge di Thomas, il Coronavirus  e l’ufficio postale
Caccia all’untore

Ieri pomeriggio mi sono recato alla posta sotto casa per pagare alcune bollette. I posti a sedere, una ventina,  erano tutti occupati, meno sei. Perché? Due di quei sedili erano occupati da asiatici, una coppietta di giovani giapponesi (vivo in una zona  frequentata da turisti).  Intorno si era fatto il vuoto.
Non c’ è nulla da fare il vecchio William  Thomas,  sociologo dalla vita burrascosa (almeno per gli Stati Uniti al tempo del ragtime), non sbagliava: se un uomo giudica reale una situazione, le sue conseguenze saranno reali. Tradotto, e veniamo al Coronavirus: non importa che gli esperti ripetano che questa  forma di malattia  parainfluenzale non sia particolarmente pericolosa. Si tratta però  di un  virus, e  solo il termine genera timore, paura, addirittura terrore.  Di qui  il cordone sanitario spontaneo  verso  due ragazzi giapponesi, scambiati per cinesi.  
Del resto, le cronache confermano  che in questi giorni  in Italia (ma probabilmente in tutto il mondo) l’atteggiamento verso chiunque abbia i famigerati  occhi a mandorla  è cambiato. Alla paura di morire, fenomeno altrettanto epidemico, geometricamente epidemico, si è affiancata, con altrettanta forza geometrica,  l’ostilità verso chi sia fisicamente diverso da noi, giustificata, come dichiarano gli intervistati,  dalla paura del contagio.
Che cosa si può fare?  Non molto.  Le rassicurazioni scientifiche non servono più di tanto, anche perché al razzismo, sanitario o meno,  si accompagna sempre il cospirazionismo, tipico residuo magico delle fobie.  Il che riporta, chiudendo il cerchio, alla  paura di morire, che però talvolta  consegue, come detto, da un esame della realtà secondo i criteri irrazionali-razionali individuati da Thomas. Irrazionali, perché frutto del credere piuttosto che del capire,  razionali perché producono conseguenze razionali, come  giustificare razionalmente,  come nelle epidemie autentiche,  misure come l’isolamento delle persone contagiate o portatrici di contagio.

In Italia,  finora,  non si sono  registrati casi,  eppure ci si comporta come se l’epidemia stesse mietendo milioni di vittime. 
Cosa augurarsi?  Che la vicenda  si sgonfi da sola. Ovviamente,  i tempi sociali,  nel caso del “contagio” psichico sono rapidi mentre la “guarigione”  psichica richiede tempi più lunghi: la paura svolge un ruolo che facilità l' autoconservazione dei comportamenti stessi che l'hanno provocata. 
Sul punto, sia in entrata che in uscita, l’atteggiamento dei   mass media vecchi e nuovi  gioca sempre un ruolo importante sul piano della propagazione.  Di regola però in negativo. Come effettivamente sta accadendo.
Le società, piaccia o meno, godono di poteri autoregolanti, soprattutto sul piano dei comportamenti collettivi (i cosiddetti fenomeni massa  comandati dalle regolarità dell’imitazione sociale). Comportamenti  che però si azionano, per così dire, a prescindere dal contenuto di verità della credenza, e che  assumono  inevitabilmente  potere proprio e autocondizionante. 

Ciò significa, che le società, prese nell’insieme,  ignorano i finalismi morali,. Per usare una metafora:  non distinguono mai  tra il bisturi usato dal chirurgo per operare un paziente e salvarlo, e il bisturi usato dallo stesso chirurgo per uccidere un collega rivale. Sicché, sociologicamente parlando, il meccanismo autodifensivo,  scatta  al solo apparire di  un uomo con il  bisturi in mano,  a prescindere dall’uso che voglia realmente  farne.  Quell’uomo è comunque percepito come un potenziale  assassino. O un untore.  
Ovviamente,   quando  un' epidemia  è  reale   il terrore del contagio  assolve un compito di autoconservazione sociale attraverso la difesa dell' autoperpetuazione dei suoi membri. Ma quando non c'è certezza?  Oppure l'epidemia è  "reale",  ma soltanto secondo i meccanismi della legge di Thomas?    
Carlo Gambescia                                                  

mercoledì 29 gennaio 2020

Antisemitismo e  modernità

Chiunque conosca la storia europea, e ovviamente  sia  intellettualmente onesto, sa bene che l’antisemitismo ha radici profonde. Per secoli  le  comunità ebraiche  sono state discriminate dalla Chiesa cattolica e da una cultura, anche quando apparentemente  laica,  che culturalmente  risentiva della  condanna religiosa.
Del resto stabilire storicamente quando l’antisemitismo si sia laicizzato non è facile. Probabilmente, la legislazione post Rivoluzione francese, che favorì l’integrazione degli ebrei, provocò la reazione dei nemici della società aperta (per dirla con Popper) di destra e di sinistra, che vedevano nell’ebreo un pericoloso  portatore  dello spaventoso  germe  del  modernità.
Sotto questo profilo  l’antisemitismo  catalizza  tuttora quei movimenti politici  che alla società liberale e aperta,  vogliono sostituirne una autoritaria e chiusa.  E qui si pensi al nesso politico profondissimo tra  razzismo e antisemitismo,  il cui trait d’union  novecentesco   è caratterizzato dal tremendo effetto di ricaduta istituzionale della dottrina nazionalsocialista. 
La Shoah, nasce all’interno di una “operazione” ben congegnata (si fa per dire) dal modernismo reazionario. Ossia da un’ideologia contraddistinta  dall' uso  di mezzi moderni rivolti però a fini reazionari. In sintesi:  Camere a gas  +  Società chiusa. 
Modernismo reazionario che ancora oggi affascina  a  livello di massa. Si pensi ad esempio  alla nostalgica vulgata ecologista,  ossia  all’idea  assai diffusa   che la modernità sia pericolosa.  Idea che, nella sua genuinità, risale al tratto bucolico (trasversale sia al cristianesimo delle origini che al paganesimo) del pensiero controrivoluzionario. L’ecologismo, non solo nelle sue correnti estreme, ritiene  di poter cancellare la modernità  utilizzando i suoi stessi mezzi.  Semplificando:  Bicicletta  + Società chiusa.  Ovviamente le due ruote, o le quattro di un'automobile elettrica,  non sono paragonabili alle camere a gas.  Però la forma mentis  è la stessa.  Il che perciò  non esclude, almeno in linea di principio,   che un bel giorno anche i "portatori" del germe capitalistico  possano, secondo gli auspici di una medicina purificatrice dell'ambiente e della razza,  essere messi sui treni...
Parliamo insomma di sentimenti collettivi, segnati da quella ciclica motilità ricondotta  da Geiger nell'alveo del concetto di una pericolosa "democrazia emotiva".  E ciò vale a maggior ragione per l’antisemitismo, vero sedimento emotivo che cova sotto la cenere delle nostre società.  Il che  spiega  perché si teme  giustamente  che  esso   possa  di nuovo  diffondersi. 
Per farla breve, poiché l’antimodernismo è piuttosto diffuso a livello collettivo, nulla esclude che l’antisemitismo, come sua importante componente,  possa un giorno, come per l’ecologismo nostalgico,   fare di nuovo il suo ingresso nell’agenda politica.  
Si pensi all’ impazzimento collettivo in atto sulla “crisi climatica”, recepito però  dai politici  per paura di perdere consensi.  La stessa cosa potrebbe accadere con un fenomeno,   emotivamente coivolgente,  che  viene da ancora più lontano,  come l’antisemitismo.     
Di qui la necessità  di  invigilare, cominciando da se stessi, per dirla con Croce,   per contrastare la velenosa diffusione collettiva  della  menzogna antisemita.   
A tale proposito, quel che  va assolutamente evitato,  soprattutto da chiunque conosca bene la letteratura storica e sociologica in argomento,   è   minimizzare il pericolo  antisemita,   soffermandosi fin troppo sui rischi della  strumentalizzazione politica.
Rischi che ovviamente esistono, ma sono qualcosa che viene dopo: fanno parte della "cosa" ma non sono la cosa".  E qui pensiamo all’intervista di Alessandro Campi in argomento (*).  Dove si parla sì, di complessità della storia,  senza però chiarire in cosa consiste,  per poi attaccare subito  la sinistra, trovando il tempo  di  chiedere persino  monografie critiche su Almirante…  Certo,  queste sono le cose importanti... 
Siamo davanti a un professore, che pur non essendo antisemita, invece di offrire elementi di riflessione, inquadrando  la questione dell’antisemitismo in un contesto più “complesso”,  si presta con leggerezza  all' inutile chiacchiericcio politico.  

Carlo Gambescia                


martedì 28 gennaio 2020

L’ignoranza politica della sinistra
Non solo flussi elettorali…

L’andamento  dei  flussi elettorali spiega qualcosa ma non tutto.  E sicuramente l'approfondimento dei dati  non è aiutato dal  grossolano uso che ne  fanno  partiti, mass media e social.   
Tutto ciò  indica l’enorme distanza tra una politica colta, fondata sulla  mediazione intelligente e una politica urlata, ignorante, che vuole vincere a ogni costo puntando  su slogan irriflessivi.
Un esempio? Appena  l’Istituto Cattaneo -  attendibilissimo, per carità  -  ha osservato  che in Emilia il voto di  due elettori su tre di Cinque Stelle  è  andato  al  Partito democratico,  Prodi, che pure appartiene per età alla vecchia scuola della politica,  ha subito parlato  sconsideratamente  di Alleanze di centro-sinistra e di nuovo Ulivo… 
Ora,  il  blocco  riproposto da Prodi,  vent’anni dopo (come nel romanzo di Dumas),  non è  assolutamente   di centro-sinistra  ma di sinistra sinistra-centro.   E per una semplice ragione: per recepire i desiderata dell’elettore di Cinque stelle, statalista e giustizialista al cento per cento  - cosa che tra l’altro sta già accadendo - il Pd  non potrà non  spostarsi a sinistra, e di molto.  Sicché  le  forze di  centro (tra l'altro al momento ridotte a poca cosa),  rischiano, una volta imbarcate a sinistra, di  fare solo sì con la testa, come quei  cagnolini finti, un tempo in bella vista sui lunotti delle auto.
Esiste pure la questione della legge elettorale che, al di là della caccia al voto grillino,  riguarda in particolare la governabilità.  Una legge maggioritaria (anche mista) punirebbe il Movimento Cinque Stelle oggi in caduta libera, trasformandolo in socio, seppure aggressivo, di minoranza. Se proporzionale, invece lo premierebbe, tramutandolo in partitino rissoso e arrogante, trasformando  così l’auspicato governo di sinistra in  una gabbia di matti.

Al fondo della questione  - il problema dei problemi -   resta però  l’ introvabile  identità riformista del Partito Democratico.  Cosa vuole fare da grande?  Tenere conto responsabilmente delle regole dell’economia di mercato?  Oppure, continuare a puntare  sull’assistenzialismo  spendaccione?
Certo, un partito di sinistra, in economia,  non può dire cose di destra, figurarsi in Italia, dove addirittura la destra, pur di non perdere elettori, dice  - sempre in economia -  cose di sinistra.   
Qui però si   tratta di sciogliere un nodo importante  che la sinistra in particolare  si è sempre guardata bene  dall’ affrontare:  il rifiuto storico dell’economia di mercato  che risale ai tempi del socialismo rivoluzionario e poi del frontismo social-comunista  e persino del primo centrosinistra, quello degli anni Sessanta.   
Si tratta del rfiuto, per dirla ancora più precisamente con l’economista  Giuseppe Palomba,  dell’espansione capitalistica e soprattutto delle sue regole, in particolare di una regola, fondamentale: che lo stato, per un elementare principio di bilancio, matematico-economico diciamo,  non può e non deve socializzare le perdite e privatizzare i profitti.
Qualche esempio? I casi Alitalia, i cui dipendenti ormai sono stipendiati  con decreti governativi; dell’ Ilva, dove si è veramente  fatto il peggio per far  scappare la cordata privata guidata da imprenditori indiani.  E da ultimo,  la buffonata, che però potrebbe costare cara ai contribuenti, del passaggio allo stato, via Cassa Depositi e Prestiti,  della gestione della rete autostradale.
Su questi punti una sinistra occidentale, socialdemocratica, non pseudo-riformista,  dovrebbe dire la sua.  Chiarire insomma che senza espansione, come diceva Turati ai comunisti di Gramsci abbacinati dal leninismo, si rischia di  dividere solo la triplice fame e la triplice miseria.   
Lo strabiliante  progresso italiano degli anni Cinquanta  fu favorito  dagli alti tassi di sviluppo e  dall’apertura dei mercati, meravigliosamente seguita alla tremenda autarchia fascista. Insomma, la torta “collettiva” (al netto dei tributi, ma questa è un’altra brutta storia…), se proprio ci si tiene, deve crescere, deve essere sempre più grande,  altrimenti gli utili sociali da redistribuire  si riducono a loro volta.


Zingaretti su questo tace,  addirittura si atteggia a ecologista presentando  la  “transizione ecologica”  -  ammesso e non concesso  che il parolone  abbia un senso scientifico  -  come  qualcosa di  indolore  per il  contribuente, una cosetta così insomma…   
Qual è il lato tragico ( e per alcuni anche comico) della questione?  Che Zingaretti, che  ha il diploma di odontotecnico, e Prodi, che invece è accademico, dicono la stessa cosa.  
Si chiama, come dicevano all’inizio,  ignoranza politica.  Che prescinde dagli studi.   

Carlo Gambescia            

lunedì 27 gennaio 2020

Elezioni regionali 2020
Muro rosso?  No,  muro welfarista

La  sinistra esulta, Salvini ha perso.  Il  “muro rosso” come ha  scritto  “ Il Tempo” di Roma, ha retto.  
In realtà, il vero "muro" italiano che ha vinto è quello rappresentato da un blocco sociale, assistenzialista e parassitario che attraversa il Paese  da Nord   a Sud, diviso, e grettamente, sulla decisione di estendere  o meno il welfare agli immigrati. La vera lotta è sulla spartizione del  bottino welfarista. 
Certo, esistono anche ragioni ideali, l’Europa, l’antisemitismo, l’antifascismo, ma in realtà  sulla  “ciccia”  assistenzialista destra e sinistra non divergono mai.
Esageriamo?. Come ha vinto  la destra in Calabria? Con un programma tipicamente  welfarista: “Vi aiuteremo, vi staremo vicini, eccetera, eccetera”.  Il che significa finanziamenti pubblici a gogò.  Come ha vinto la sinistra in Emilia Romagna?  Sardine o meno, ha battuto la destra, rivendicando  i meriti  di quel regime welfarista che è al potere da sempre nella “Regione rossa”,  addirittura in tanti comuni  fin dai tempi di Giolitti.
Certo, Salvini, ora  dovrà darsi una regolata sulla richiesta di elezioni; i Cinque stelle dovranno  prendere definitivamente atto che l’elettorato  assistenzialista, alla sbiadita  copia  preferisce l’originale, ossia il Partito democratico.  
Certo,  tutto questo può essere interessante  per la salute del governo, della legislatura, insomma per la tattica politica di corto respiro che oggi, tra l’altro riempie le pagine dei giornali.  Ma i calcoli  con  il  bilancino elettorale, sganciato dai  veri contenuti,  non possono assolutamente incidere sulle strategie di lungo respiro. Dal momento che il dato elettorale, deve essere letto nei termini di una nuova vittoria  al Nord come al Sud  di un blocco sociale parassitario che vede schierati  statali e parapubblici,  pensionati e aspiranti tali, nonché  imprenditori e  dipendenti di imprese assistite.
Un blocco sociale - questo sì,   né di destra né di sinistra -  che rappresenta il vero muro trasversale o meglio la palla al piede dell’economia italiana. E che destra e sinistra, invece di rivendicare la propria originalità politica ( in particolare la destra, che pure qualche tradizione liberale avrebbe),  a ogni elezione unitamente coccolano, promettendo, pur con accenti diversi,  pensioni più alte e meno tasse...
Il problema non è solo italiano. Si pensi in Francia alle proteste corporative sulle pensioni, davanti alle quali Macron ha dovuto alzare le braccia, ma anche al  paternalismo  di  Orbán e  al rozzo welfarismo  di Sánchez.
Esiste purtroppo  un tacito  patto sociale corporativo tra destra e  sinistra  -  la grande coalizione tedesca ne è un esempio classico -  per non perdere i voti di un elettorato cresciuto a dosi massicce di assistenzialismo.
Un elettorato, socialmente  conservatore,  che non vuole cambiare, disposto a votare persino il diavolo pur di  mantenere  i costosi privilegi welfaristi.  Anzi, che aspira  addirittura a  moltiplicarli.  Una vita in vacanza, insomma.
E come? Con una crescita del Pil vicina allo zero?   Ecco il  vero  muro. 

Carlo Gambescia                     

                     

domenica 26 gennaio 2020

Sociologia e  questione del male nel mondo
Uno scambio di idee tra Carlo Pompei, Aldo La Fata e Carlo Gambescia





Carlo Carlo,  
a proposito del tuo articolo (*), cosa dire?  Che si gioca tutto su attacco e difesa e se la miglior difesa sia l'attacco, ma ciò è in funzioneanche delle intenzioni del nemico, reale o presunto.
Non può non essere un approccio relativistico, data la variabilità di attori e, appunto, delle relative motivazioni.
Insomma, la "non belligeranza" potrebbe non bastare, come non bastò nello scriteriato approccio tentennante di Mussolini nei confronti dei desiderata di Hitler, per fare nomi non contemporanei.
Un caro saluto,
Carlo  Pompei (**)


***

Caro Carlo,
Ho letto (*).
Esistono problemi che fuoriescono dalla competenza della sociologia: il problema del male ad esempio è uno di questi. Perché mai un sociologo dovrebbe preoccuparsi di definire il male o di definire il bene? Nel suo lessico tali parole o concetti dovrebbero proprio essere banditi. Quindi, chiedere ad un sociologo cosa sia per lui il male nel mondo non mi sembra avere molto senso. Ma comprendo che è tipico di chi ha una visione totalitaria della realtà cercare di trascinarvi dentro, magari senza tanti riguardi per la logica e per il pensiero coerente, tutto lo scibile umano. Ugualmente credo che non abbia molto senso accusare il sociologo di “relativismo” se accettiamo il fatto acquisito che tutte le scienza particolari sono “relativiste” per definizione. Ma perché mai occuparsi e preoccuparsi del relativismo delle scienze? Probabilmente perché molti scienziati hanno la tendenza a fare delle loro scienze particolari degli assoluti e a mettersi su un terreno di competizione e di scontro con altri assoluti magari ideologici o religiosi. E possono nascerne duelli all’ultimo sangue o all’ultimo concetto. Personalmente non ho mai capito perché  la Religione dovrebbe mettersi a dialogare con la Scienza e viceversa. Sono dialoghi infruttuosi, che non portano a nulla e che anzi generano solo confusione. Meglio tenere i due ambiti ben distinti e separati, se non altro per evitare sciocchezze del tipo “la particella di Dio” e simili.
Sto divagando, chiedo scusa. Il vero problema, caro Carlo, è che la Scienza oggi ha preso il posto della Religione e che il suo linguaggio si è fatto linguaggio prevalente. C’è da temere la sociologia quando scade nel sociologismo, come c’è da temere la scienza quando scade nello scientismo. Accetto che il “male” venga definito da un sociologo una “di-sfunzione”, ma non accetto né l’intercambiabilità dei termini, né l’integrazione dell’uno nell’altro, né la prevaricazione dell’uno sull’altro. Ma ovviamente non è il tuo caso. 
Un grande abbraccio,
Aldo La Fata

(*) http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2020/01/la-sociologia-e-la-questione-del.html
(**) Ricercatore di storia delle idee, studioso del pensiero tradizionalista, direttore della rivista " Il Corriere Metapolitico". 
   

***


Cari amici,  Cosa aggiungere?   Che avete  ragione  tutti e due.
Il neutralismo affettivo, o se si vuole il relativismo, se gioca un ruolo importante sul piano analitico, su quello politico, inevitabilmente rischia di condurre alla paralisi.  La “non belligeranza”,  come tu, caro Carlo, asserisci  giustamente, non esiste. O comunque resta legata, quanto all’effettività politica,  alle dimensioni degli attori.  Più sono ridotte, più l’influenza si riduce. Serve dunque realismo e capacità di saper affrontare il male inevitabile  che può provenire dalle decisione. Prudenza politica consiglia di soppesare sempre male minore e maggiore.
Sotto questo aspetto,  come tu, caro Aldo,  altrettanto  giustamente, sottolinei, il sociologo non può, anzi  non deve pronunciarsi moralmente sulla natura del bene e del male, ma può,  sembra di capire, parlare correttamente di disfunzionalità sistemiche. Sarà poi compito dell’interlocutore fare le valutazioni del  caso,  morali, religiose, culturali, eccetera.  E comunque sia  - anche su questo  punto concordo -   mai  mettere in imbarazzo sociologo,  ponendo  domande  che egli  non può (e non deve) dare.
Quanto alle valutazioni del teologo, del moralista, eccetera,  esse, come impone norma prudenziale, non possono eludere soprattutto sul piano organizzativo, le costanti della politica, anzi della metapolitica.  Se non a rischio   - attenzione -  di sprofondare  in  pericolose utopie.
So benissimo che per voi cari amici  esistono forze superiori  -  dal disegno imperscrutabile  (la sulfurea dinamica  delle volontà umane  per Carlo; il  misterioso governo divino per Aldo) -   al puro e semplice piano sociologico  o meglio ancora,  metapolitico delle regolarità (per intendersi),
Ne prendo atto, laicamente. Anche perché, per parte mia,   non sono assolutamente nella condizione,  in primis come sociologo, in secundis come uomo, di formulare alcuna  teoria definitiva  sulla storia e sulla società. 
Vi abbraccio,
Carlo Gambescia 




sabato 25 gennaio 2020

Guaidó, Sánchez, Sassoli e il riflesso condizionato della sinistra

Juan Guaidó, il presidente eletto dall’opposizione democratica,  rischia la vita.  Il suo rientro in patria, dopo il breve viaggio europeo potrebbe essere molto rischioso.  
Che dire?  In Europa si scende in piazza per andare in pensione a sessant’anni,  mentre in Venezuela  chi osa protestare,  muore per mano degli squadroni della morte  di Nicólas Maduro, il dittatore  nazional-comunista.
Semplifichiamo? Diciamo che a semplificare per prima  è la sinistra europea.  In particolare quella  populista e radicale che  in modo più o meno aperto sta dalla parte di Maduro. 
Esemplare il caso spagnolo, dove Pedro Sánchez, a capo di un governo neofrontista e per un quarto repubblicano (la Spagna è una monarchia), non  ha voluto ricevere Guaidó, riconosciuto da sessanta paesi,  delegando all’incontro il Ministro degli esteri.
Stesso discorso per il Parlamento europeo. Guaidó si è incontrato con il precedente Presidente Antonio Tajani ma non con quello  attuale, David Sassoli.   
Parliamo di un ex  giornalista di “Telekabul” (soprannome del famigerato telegiornale pubblico di osservanza comunista), oggi  uomo di punta del Partito democratico in Europa. Tra l’altro a differenza della stampa spagnola, meno servile verso la sinistra,  quella italiana ha ignorato l'imboscamento di Sassoli.   

Si rifletta, però più in generale, su questo atteggiamento politico della sinistra europea, tipicamente illiberale, sempre  indulgente con i dittatori correligionari. E che - quando si dice il caso -   mostra di non  stimare un  politico liberale come Macron,  che invece ha ricevuto con tutti gli onori Guaidó.
Purtroppo, e non è questione di semplificazioni o meno, larga parte della sinistra, soprattutto quella postcomunista (in realtà, criptocomunista, neppure tanto cripto, quanto a statalismo), continua ad applicare due pesi due misure come durante la Guerra Fredda.  Vecchie etichette che non sembrano morire mai:  Guaidó è un mostro perché di destra e filoamericano, Maduro, un santo, perché socialista  e antiamericano.  
Sánchez e Sassoli, punte di iceberg di un retro pensiero politico diffuso, riconoscono ai dittatori di sinistra un surplus di innocenza e idealismo:  se “sbagliano”, sbagliano a fin di bene, perché "difendono" presuntivamente  l'uguaglianza.  Mentre un dittatore di destra è  presuntivamente colpevole, perché  nemico dei "lavoratori", senza alcuna attenuante.
In realtà, nell’Occidente liberale  tutti i dittatori,  rossi o neri,  non dovrebbero  godere di alcun passaporto di rispettabilità politica. E invece perdura un brutale doppio registro politico, come ai tempi di Stalin. 
Anzi oggi  le cose  vanno  addirittura peggio. Perché  ciò che è più grave  è che il comportamento di Sánchez e Sassoli  non è neppure dettato dalla realpolitik che caratterizzava il vecchio "Koba" (soprannome di Stalin). Ma come sottolineato, è il portato storico di quell’accozzaglia  di  relitti ideologici  rappresentata dal comunismo.   
O meglio ancora:  portato riflessologico.  Perché siamo dinanzi a un specie di riflesso condizionato Come il famoso cane dell'esperimento pavloviano,  appena si accende il lumicino  del comunismo,  Sánchez e Sassoli cominciano a  salivare…  E non c'è più ragionamento che tenga.  Purtroppo. 

Carlo Gambescia 

venerdì 24 gennaio 2020

La sociologia e la questione del male nel mondo
Chiamale se vuoi disfunzionalità…

La sociologia non mette voti
Ogni tanto capita che durante un incontro tra amici, ma talvolta anche pubblico, ultimamente nel corso di un confronto con alcuni religiosi, di sentirmi chiedere  che cosa sia il male nel mondo per un sociologo. 
Domanda a dir poco imbarazzante, perché la sociologia, nonostante le avventurose e romantiche origini storiche ( De Maistre, De Bonald, Comte e Sansimoniani),  non è assolutamente una scienza morale,  non mette voti  ai comportamenti sociali.  Può però valutare la disfunzionalità di un sistema sociale dal punto di vista dei suoi valori prescrittivi:  di ciò che si deve fare perché un sistema sia coerente con le sue scelte e motivazioni socialmente approvate.

Il male disfunzionale
Ad esempio, un sistema liberale non può mettere in prigione le persone per le loro idee. La  punizione della libertà di parola e pensiero è disfunzionale rispetto ai valori prescritti.  Il che però vale in linea principio, perché  esistono correnti  di pensiero contrarie alla libertà di parola, che, qualora  diventassero dominanti,  snaturerebbero, proscrivendoli, i valori della società aperta.  Pertanto i nemici della libertà di parola e pensiero sono disfunzionali alla società liberale.  Rappresentano il male, male disfunzionale, ovviamente. Insomma, anche  la società liberale non può non difendersi dai suoi nemici, pena la sua stessa esistenza.
Dal punto di vista sociologico  vale però anche  il contrario:  in un sistema sociale  dominato, semplificando, da valori illiberali,  il fattore disfunzionale  - il male, se si vuole -  è rappresentato dalla diffusione di valori liberali. Di qui, la necessaria attività difensiva della società chiusa verso tutto ciò che può metterla in pericolo.  

 La questione del relativismo
Ripeto, si tratta naturalmente di una interpretazione sistemica del male, che non guarda ai suoi contenuti assoluti, ma agli aspetti funzionali e disfunzionali.
Può essere sufficiente? Di solito  i miei interlocutori, una volta ascoltate queste  tesi, mi accusano di relativismo. E in effetti è così. Ragionare di disfunzionalità, ammesso e non concesso  che tutti i comportamenti sociali siano improntati alla funzionalità sistemica, recide alle origini qualsiasi opzione valoriale, cioè  di un valore superiore a tutti gli  altri.  


La moralità come un lusso…
Il punto è che la società, nella sua concretezza, resta  un coacervo di valori e interessi, spesso opposti, valori e interessi che gli individui perseguono liberamente, senza porsi troppi problemi di coerenza prescrittiva rispetto ai valori dominanti.
Soprattutto le questioni morali per la maggioranza delle persone sono un lusso,  o comunque qualcosa, che se non condensato nel diritto positivo, penale e civile, si trasforma in quello che una volta era l’abito buono da indossare nelle grandi occasioni.  Sicché il male e il bene a livello microsociale non sono  meno afferrabili del male e bene  a livello macrosociale, se non, come sottolineato, quale fattore disfunzionale sistemico, entro certi limiti microsociologici, come appena ricordato.

Macro,  micro e  guerra
C’è però un aspetto del male, che a livello micro e macrosociologico, se  aiutato dal giudizio storico,  può essere preso in considerazione.  Quello del rapporto tra decisioni politiche e mutamento storico.  
Esistono, storicamente parlando, personaggi (monarchi, uomini di stato, condottieri e generali) che assumendo macrodecisioni  hanno inciso sulle microdecisioni di milioni di individui, generando un semplice mutamento di  contesto,  come ad esempio il passaggio dalla pace alla guerra.
Cambiare, e in peggio, anche temporaneamente,  la vita delle persone,  ad esempio dichiarando guerra,  può essere giudicato un male. Che gli uomini di solito temperano con la promessa di una vita migliore dopo la guerra. Il che  rinvia alla prudente logica del male minore: “Facciamo questa guerra, per impedire un male maggiore, poi però staremo tutti meglio”.

La filosofia della guerra
In realtà, la differenza tra il male minore e maggiore  è rappresentata dalla filosofia di fondo che si cela dietro la decisione di fare la guerra. Se sullo sfondo c’è una dichiarata filosofia bellicista, che punta a costruire le proprie fortune sulla conquista militare, siamo in presenza del male. Come dire? Del male strutturato.
Certo, storicamente parlando, non è facile  attribuire una filosofia militarista, quindi una “struttura” del (e al) male:  la storia è un groviglio di guerre difensive, preventive, aggressive. Alcune unità politiche però, per tradizioni interne, sono più predisposte di altre. Potrei fare dei nomi. Preferisco però  siano i lettori a pronunciarsi.

L’ipotesi conflittualista
Resta infine  l'ipotesi, formulata  dalla scuola sociologica conflittualista,  che  alla  base di ogni ordinamento  politico  e in particolare dello stato, vi sia  la conquista militare e l’assoggettamento dei vinti. Pertanto il male  sarebbe alle origini di ogni società politica. 
Insomma,  come si può capire, il male nel mondo esiste,  tocca aspetti macro e soprattutto micro sociologici, ma è difficile individuare, soprattutto dal punto di vista delle colpe  morali.  i suoi  agenti sociali. Ho accennato al fattore bellicista.  Ma, come detto,  preferisco  non fare nomi… Per oggi.

Carlo Gambescia      
                     

giovedì 23 gennaio 2020

Il pattuglione di Salvini
I funerali dello stato di diritto


La notizia più importante  di oggi  non è il passo indietro dell’ineffabile Di Maio o l’isteria protezionista di Trump,  due  politici  mediocri che hanno afferrato il potere sull’onda di un sordo risentimento sociale, bensì  i funerali dello stato di diritto,  ben condensato in due principi, tra l'altro costituzionalizzati: l'inviolabilità del domicilio e la  presunzione di innocenza. 
Principi che devono valere per tutti. Altrimenti, che uguaglianza dinanzi alla legge è? Si ritorna al longobardico diritto personale, o peggio ancora al diritto razziale.
Principi proditoriamente violati.  E da chi? Dal pattuglione di  benpensanti (si fa per dire) capeggiato da  Matteo Salvini.  Cosa è successo? Che tutti insieme appassionamente sono andati  a suonare in favore di telecamere  il campanello di un presunto "spacciatore tunisino"…  
Non si può ridere di Salvini, né buttarla sul cabaret televisivo.  Una risata non lo sconfiggerà. La letteratura satirica degli anni Venti e Trenta non impedì l’ascesa di Hitler, ridicolizzato dalla stampa umoristica tedesca.  Anzi, non "li" sconfiggerà.  
Purtroppo  si fa leva  -  media e politici -   sul fatto che la  stragrande maggioranza della gente  sembra non mostrare  sufficiente  autonomia di pensiero per capire la Costituzione, il diritto, l’importanza della tolleranza:  tutti principi violati da Salvini, che, tra l'altro,  come politico dovrebbe conoscerli.   
Si tratta di una questione di fondo che in Italia  ha assunto, almeno dai primi anni Novanta, le dimensioni di una pericolosa deriva. Già di per sé, le persone comuni, e quel che  è peggio anche con  titoli accademici,  tendono sempre, in ultima istanza,  alle soluzioni spicce: un cazzotto e via. E chi si oppone, come nel caso, si sente subito accusare  " di stare dalla parte degli spacciatori".  La prima manichea scemenza, in bianco e nero,  facile facile, che passa per la testa...  
Pertanto il turpe richiamo al  Cesare che "raddrizzerà tutti i torti"  è sempre pericolosamente dietro l’angolo.  L’uomo alla libertà preferirà sempre la sicurezza; al capire il credere;  al ragionamento, in ultima istanza, il pugno. Purtroppo, piaccia o meno,  personaggi come Salvini, sempre pronti a eccitare il "popolo sovrano" ( ma non dei propri istinti gregari e violenti),  sono sempre in agguato tra le quinte della storia.

Che fare allora?  Senza un patto tacito  tra i politici  sulla prudente  necessità di non violare le regole dello stato di diritto e del discorso pubblico, patto  imperniato  sul rifiuto di comportamenti estremi come quelli che costituiscono  il normale agire politico di Salvini, si rischia veramente un’involuzione autoritaria, se  non di peggio.
Il pericolo principale  è rappresentato da una retromarcia popolar-poliziesca che in prospettiva può  andare a colpire tutti, non solo il presunto "spacciatore tunisino”.  E quel che peggio, tra gli applausi della gente comune.
Come dicevamo,  in Italia  - la stessa Italia ipocrita che oggi vuole fare di Craxi un eroe -  gli argini dello stato di diritto furono infranti negli anni di Tangentopoli.  Emerse allora una cultura giustizialista, populista  parafascista (anche se Almirante mai avrebbe suonato campanelli: troppo, e giustamente, borghese), veicolata da quasi tutti partiti, dalla destra alla sinistra.  Poi coagulatasi, per manifesta incapacità di Berlusconi e Prodi,  intorno al Movimento Cinque Stelle e alla Lega.  

Sicché, oggi, Salvini da vero squadrista mediatico -  altro che il Cavaliere… -  va a dare la caccia all’immigrato con telecamere al seguito. Salvo poi, a danno fatto, scusarsi, per poi  reiterare alla prima occasione. E così via.
Ripetiamo ( anche  se  il cittadino del cazzotto continuerà a  non capire...):  il punto  non è la colpevolezza  o meno, del “signore” disturbato al citofono, ma il concetto di giustizia popolare che mostra il suo brutto e pericoloso grugno dietro il pattuglione salviniano.
Riassumendo, una volta su questa strada,   basterà la denuncia di un cittadino, “presuntivamente onesto”,  per mettere alla gogna, non solo "un tunisino" ma chiunque, a prescindere dalla nazionalità, sia ritenuto socialmente a rischio  e quindi  “presuntivamente colpevole”. 
Altro che presunzione di innocenza…  Che dice  Salvini nel video? “Circolano spiacevoli  voci su di lei signore, vuole smentire?”.  Capito?  Voce di popolo, voce di dio… A che serve lo stato di diritto?

Carlo Gambescia                            

      

mercoledì 22 gennaio 2020

La scomparsa di Roger Scruton
Fu vera gloria?

Ho fatto passare una decina di giorni prima di ricordare  Roger Scruton (1944-2020), scomparso il 12 gennaio, portato via in quattro e quattr’otto dal cancro. Come capita nella società  âgée...
Perché ho preso tempo?  Per contare fino a dieci… giorni. Scruton, che pure ho letto, non mi ha mai convinto. E parlare male o non bene di un morto è sempre disdicevole. Ora però desidero scrivere qualcosa. Comunque.
A chi voglia comprendere subito il personaggio, l’uomo diciamo, prima ancora di valutare l’intellettuale, consiglio di leggere un breve testo (*), dove Scruton ripercorre il suo 2019, prima con il compiacimento del professore arrivato e conteso dai frastornati ambienti conservatori di tutto il mondo,  poi una volta scoperta la grave malattia,  con lo sconcerto del britannico che ritiene gli sia tutto dovuto,  seguito però  dalla rassegnata grazia del filosofo romano-imperiale. Il dolore prima o poi scolpisce. In genere, sempre poi.
Ripensando ai suoi lavori si scopre infatti un Seneca d'Oltremanica,  in conflitto con i neroniani postmoderni di mezzo mondo.  L’uno e gli altri però in sedicesimo. Intellettuali pubblici con tutti i limiti di un  termine oggi così di moda.  Senza più riflettere sul fatto che un tempo  “donna pubblica” non era certo un complimento.
Un pensiero, quello di Scruton, con tante deboli supponenze e rarissimi punti di vera forza.  Forse solo quando  sale sulle spalle dei suoi Antichi, Hume e Burke (così diversi, così vicini).

Si legge nell’articolo citato: “Avvicinandosi alla morte si inizia a capire cosa significhino vita e gratitudine”. Un bel pensiero degno di Seneca. Ma dopo Seneca…
Si affianchi una pagina di Scruton a una pagina di Burke e si coglierà subito la differenza:  tra chi ha capito la rivoluzione (Burke) e chi la teme e basta (Scruton).  Ne ha paura, insomma.  E si arrangia, anche con se con mestiere, come intellettuale pubblico. Viaggia, gira il mondo, parlando di declino, vino, tabacchi. Per poi tornare, compiaciuto,  ai suoi scogli, non solo nel senso dell’insularità britannica.
Il suo conservatorismo pessimista, in un mondo liberal, dove c’è poco da conservare, appare in contrasto con le ricerca della libertà, inseguita da tutti, afferrata da pochi. Eppure sempre ricercatissima.
Un mito   - certamente -  al quale egli però ne oppone un altro: secondo Scruton la felicità non esiste se non come l’ abito  intellettuale cucito dalle tradizioni: dio, patria e famiglia, per sintetizzare. Ecco i suoi scogli!  

Un trittico miracoloso che però finisce sempre per legare o meglio imprigionare l’uomo al non miracoloso: alla Brexit, al populismo, a Meghan e Harry.  L’abracadabra  di certi conservatori che si occupano del coniglio, del cilindro  e della sala piena di spettatori plaudenti. Mentre fuori pulsa la vita.   Nulla di nuovo sotto il sole.
Certo  tre  istituti,  reintepretati in chiave di moderni costrutti antropologici e sociali. Scruton ha sempre saputo maneggiare le scienze sociali. Talvolta,  giocando fin troppo sul micro-macro, ricorda il tanto criticato, proprio da lui, Foucault. Però assiso sull’altro lato della barricata.  O meglio  aggrappato agli  scogli.
Scruton, stoffa di saggista, piuttosto che di teorico. Ha scritto una cinquantina di libri. Forse troppi. Abbondantemente tradotti anche in Italia, dove il conservatorismo  ha sposato prima la chiesa poi il fascismo e infine Berlusconi e Salvini. E ovviamente anche Scruton… Mai però, o comunque fino il fondo,  il liberalismo.    
Fu vera gloria? Decideranno i futuri lettori. 
Carlo Gambescia

(*) Qui: https://blogs.spectator.co.uk/2020/01/roger-scruton-1944-2020/  Il testo uscito in dicembre è riapparso, sempre su “The Specatator”,  in occasione della scomparsa di Scruton .        
 


martedì 21 gennaio 2020

Reddito, intelligenza, disuguaglianza
Altro che complotti


Un mondo di disuguaglianze? Bah… A tale proposito consigliamo la lettura del  libro di Hans Rosling,  Factfuless. Dieci ragioni per cui non capiamo il mondo e perché le cose vanno meglio di come pensiamo (2018). Infatti, come prova Rosling (nella foto), la povertà e la disuguaglianza  non sono  mai state in remissione come oggi. 
Sul  pianeta Terra  rispetto a cinquant’anni fa si vive meglio e  di più. Non solo:  si guadagna anche più.   Si pensi soltanto a come  si vive, e splendidamente, in un’  Europa uscita semidistrutta dalla  Seconda Guerra mondiale. Un conflitto provocato   -  attenzione -.  dagli stessi  nemici del capitalismo,  a destra come a sinistra, che oggi  con grande faccia tosta  agitano il bugiardo  vessillo della disuguaglianza crescente. 
I ricchi, i veri ricchi, come insegna la curva (storica) dei redditi di Pareto,  sono sempre stati pochi. E soprattutto oggi,  come prova Rosling,  non  a  sfavore dei  poveri. Che non sono pochi, ma assai  meno che in passato.
Purtroppo l’odio dei nemici del capitalismo si addensa sui ricchi, perché pochi.  In realtà, la curva normale  della  distribuzione dei redditi, che  collima con la curva normale del quoziente di intelligenza umano,  riflette una curva a campana:  la cosiddetta gaussiana che  è definita normale,  non perché  sia giusta o sbagliata moralmente,   ma perché  ha  natura probabilistica, dal momento che rimanda a una distribuzione che rappresenta la  "norma"  per qualsiasi distribuzione statistica di valori sociologici o meno. Tradotto: i ricchi sono pochi perché non possono essere che pochi. Così è nella "natura"  delle cose, "fotografata" dalla statistica.  Come del resto  asserisce  anche  la distribuzione "naturale", in senso statistico,  dell'intelligenza.   

A quest'ultimo proposito consigliamo la lettura del magnifico libro di Richard J. Herrnstein e Charles Murray, The Bell Curve. Intelligence and Class Structure in American Life (1994), dove si mostra chiaramente, sviluppando la relazione tra curva del redditi e curva del QI. che Pareto  “tenía razón” .   
Di più:  vi si  evidenzia, la pericolosa truffa, non solo dei moderni Gracchi, (che, a differenza degli antichi tra l’altro puntano alla soppressione e non alla redistribuzione della proprietà),  ma delle politiche pubbliche  in sé.
Infatti, la promozione sociale dei meni dotati -  frutto di un’istruzione di massa assai indulgente -  ma non per questo meno furbi,  favorisce purtroppo l’infiltrazione  in alto  delle cosiddette volpi, per dirla sempre con Pareto.
Fenomeni come il populismo, la speculazione finanziaria, il conformismo pietista diffusi tra i più abbienti, sono purtroppo legati al cattivo funzionamento del "setaccio" sociale, ad opera del welfare, anche nell’ambito dell’istruzione.
Il pessimo  funzionamento del filtro sociale spinge verso  l'alto persone non  solo  indegne del proprio ruolo, ma addirittura traditrici del proprio ceto.
I ricchi, per ora non tutti fortunatamente,  a causa delle interferenze welfariste  e dell' imperversante  clima culturale, così  appiccicoso e dolciastro, mancano di  quel che oggi in termini giornalistici si chiama “pride”.
Probabilmente, la diminuzione della disuguaglianza, in atto, che favorisce, e giustamente, l’avvicinamento di popoli e nazioni, determina però  all’interno della stratificazione sociale mondiale del reddito e dell’intelligenza, una diminuzione della qualità delle élite dirigenti, sia sul piano politico sia su quello economico. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Siamo davanti a un altro caso di effetto perverso, negativo (o comunque almeno in parte) delle azioni sociali positive:  quelle  a fin di bene, come si dice.
Il vero problema, insomma, è rappresentato dalla sempre più ridotta consapevolezza del proprio ruolo di comando  nella classe dirigente mondiale.  Si assiste, ripetiamo, all'effetto indesiderato  della  progressiva  prevalenza  tra i ricchi  delle volpi rispetto ai leoni.
Altro che complotti…
                                                                                                                          Carlo Gambescia                                                                                                                                                      

lunedì 20 gennaio 2020

Sul populismo
Tempi della politica e logica tribale

I tempi della politica  non sono i tempi dei nuovi e vecchi  media. Nel senso che l’implementazione delle decisioni politiche,  soprattutto nei sistemi liberal-democratici (ad esempio l’Europa occidentale è liberal-democratica, Cina e Russia no), non sono mai immediate.  Esistono procedure da rispettare, spesso  però  usate come risorse  da tutte le forze politiche.  Il che non facilita...   
Sicché  i tempi si allungano e  il cittadino  finisce per non ricordare e  metabolizzare.  Anche perché sommerso dalla veloce  tempistica delle notizie e dei commenti. Un vero bombardamento mediatico incalza la gente comune   fornendo scenari previsionali il più delle volte catastrofici, però romantici e avvincenti per i più. Sicché il serpentone informativo si morde la coda dell'audience. Più ha successo, più cresce l'inorientamento collettivo della percezione distorta della realtà.         
Infatti,  in un clima del genere le reazioni collettive non possono che andare dallo scetticismo al pessimismo per sfociare inevitabilmente nel disprezzo verso le procedure e la tempistica  della liberal-democrazia.  Di qui,  la domanda, sempre più diffusa, di leader  decisionisti capaci di ignorare regole, oppure abili, fino addirittura a vantarsene, di sfruttare le procedure  a proprio vantaggio.  Il populismo, che oggi sta travolgendo psichicamente la destra come la sinistra,  si muove in questa direzione.   

Purtroppo  non esistono rimedi, o ricette sicure per combattere una deriva del genere.  Anche perché l’implementazione delle decisioni risente della complessità dei quadri sociali. Cioè  - semplificando - della quantità di persone, con status, ruoli e codici differenti coinvolte nel processo, prima di discussione, poi di decisione e infine, come dicevamo, di implementazione.  Insomma, che oggi  le comunicazioni, in senso fisico, siano rapidissime, non significa che in senso sociologico sia mutato qualcosa. Anzi la moltiplicazione delle specializzazioni, non presente in altre epoche,  rende tutto più  difficile sul piano sociale.  

C'è però dell'altro.  Se in passato la decisione di un imperatore aveva effetto immediato, la sua realizzazione, risentiva dei tempi lunghi del  sistema comunicativo e organizzativo arcaico. Oggi invece la decisione di un governo parlamentare, in fase ideativa,  risente   dei tempi lunghi  di discussione e approvazione.  Quindi primo stop, per così dire.  Dopo di che - ecco il secondo stop -   nella fase applicativa, nonostante la modernità dei sistemi comunicativi e organizzativi, la decisione  risente  del giudizio degli specialisti sul campo  e di un' opinione pubblica  oggi  legata  alla tempistica istantanea dei mass media e dei  social. 
Da questa discrasia tra decisione e implementazione, che pur per ragioni differenti,  persiste in contesti storici diversi,  nasce  quel senso di impotenza, che pur con coloriture ideologiche differenti, ha caratterizzato e caratterizza l’atteggiamento  ieri del suddito oggi del cittadino.
Quindi siamo dinanzi a una dinamica organizzativa e ideologica che attraversa la storia umana. Ovviamente, quanto più la catena di comando è ridotta  e le strutture organizzative limitate, tanto più i tempi tra decisione e implementazione tendono a ridursi.  

Una tribù ha un potere di effettività delle sue decisioni di gran lunga superiore a quello di una civiltà complessa. Storicamente parlando,  fu questo il segreto, a livello di antropologia sociale, dei Goti che premevano sul limes di Roma, degli Arabi fermati a Poitiers, dei Mongoli che si spinsero fino alle frontiere moscovite d’Europa, dei Turchi nella prima età moderna. Si chiama tribalismo.
Probabilmente però, al di là della tribù in quanto tale, sussiste una logica tribale transtorica ( o meglio metapolitica nella sua ricorrente opposizione all'universalismo). Quale?  Quella dell’obbedienza al capo che si presume dotato di superpoteri.  Logica che implica, per effetto di ricaduta,  una specie di crescente frenesia mobilitante, che possiamo ritrovare in forme politiche moderne come il  nazionalismo, incarnatosi nel razzismo dichiarato di un capo mitizzato come Hitler. Logica che vive in simbiosi con il culto del superuomo. Ma che ha forza sociologica propria. Si pensi alla Grande Armée napoleonica -  ma si potrebbe risalire fino alle imprese di  Cesare e Alessandro Magno -   che procedendo  di vittoria in vittoria,  moltiplicò, a livello di  gruppo sociale, il  potere  mobilitante dei soldati francesi e quello  dell’effettività decisionale, incarnata dal capo mitizzato, Napoleone.  effettività rafforzata dall'onda lunga dei rapidi successi. Fino a Mosca.     
Concludendo, dietro  l’invito a  “fare presto”  e la retorica del  “tutto e subito”,  due finestre sociali che oggi distinguono  la domanda politica populista,  si affaccia lo sguardo maligno della logica tribale. Che poi, per parafrasare  Montesquieu, è quella  del selvaggio che per raccogliere la  mela taglia l’albero. 

 Carlo Gambescia