sabato 29 aprile 2017

La polemica sulle  Ong e lo stato (pessimo) del discorso pubblico
“Signora mia, è tutto un  magna magna…”


Osservazione sociologica diciamo di base, molto terra terra. I lettori desiderano sapere quale può essere la reazione delle gente comune all’ultima polemica  tra  magistratura e partiti sulle Ong?  Presto detto. Qualunquismo a ruota libera: “Signora mia, è tutto un magna magna…” , “Sono tutti uguali!”,  “Troppi partiti!”. Oppure radicalizzazione: “  Magistrati irresponsabili complici della destra…”,  “Sinistra e Ong contro l’Italia”. E così via. 
Ecco lo stato attuale del discorso o dibattito pubblico in Italia: lanciare e  rilanciarsi  palle di merda (pardon), di regola imbottite di mezze verità e/o falsità, che finiscono per sporcare tutto e tutti, nonché  ignorare i problemi fondamentali, per farsi belli agli occhi del popolo e captarne la volubile benevolenza. Come, ad esempio, nel caso della polemica sulle Ong: dove invece di recuperare il controllo militare della Libia, per impedire che continuino a partire  dalle  sue  coste i famigerati  barconi dei disperati, si discute sul chi o sul come recuperarli in mare.          
È sempre stato così? Qui l'argomentazione non può non farsi teorica, più affilata. Quindi attenzione.
Il discorso pubblico è  il farmaco  della democrazia liberale che però può trasformarsi  nel  veleno delle democrazia di massa. Per usare una metafora, l’idea di sovranità del popolo, è un dono dei moderni, che come per l’uso di certe miracolose medicine,  può uccidere o salvare il paziente in ragione del dosaggio.
Quanto più le democrazie, in termini di suffragio,  da censitarie, chiuse, si sono trasformate in universali,  aperte,  tanto più è diventato difficile filtrare non tanto i contenuti, come tali, quanto le reazioni ai contenuti, via via sempre più di natura  emozionale  a causa della diffusione  di un  linguaggio politico, sempre più semplificato,  che si imponeva (e impone) di conquistare il voto di strati di popolazione sempre più larghi ed emotivamente labili.  E qui la psicologia delle folle di Tarde e Le Bon  aveva visto lungo.
Pertanto, per venire all' oggi,  i  Social  facilitano, ma solo  tecnicamente, dall'esterno,  il suicidio della democrazia liberale, perché contribuiscono  alla inevitabile  banalizzazione del discorso pubblico. Ciò significa, tra l’altro,   che divieti e regolamentazioni  non servirebbero a nulla, perché la logica dissolutiva è interna al processo di semplificazione del messaggio,  racchiuso nella logica sociologicamente espansiva della democrazia di massa. 
Ciò non implica da parte nostra l’ idealizzazione dei sistemi politici pre-democratici, dove, la logica espansiva di cui sopra, riguardava,  al contrario,  l’intensificazione dell’oscurità del linguaggio politico,  appannaggio di élites  separate dal resto della società,  che grazie alla auto-sacralizzazione, fortemente simbolica del potere, anche sul piano linguistico,  imponevano una crescente divisione  sociale tra dibattito pubblico, praticamente inesistente, se non in termini di  splendore e pompa dei poteri reale e aristocratico,  e il dibattito privato interno alle élites  dirigenti, politiche e religiose, quindi doverosamente criptico, secondo la sistematica degli arcana imperii. 
Pertanto, quando oggi, polemicamente,  si discute  della crescente  separazione   tra élites e popolo, si parla veramente a sproposito oppure con  finalità  demagogiche  per instaurare un potere assoluto, ovviamente di pochi,  ma  in nome, retoricamente, anzi religiosamente, del popolo.   Dal momento che  il vero processo in atto, come prova la pessima qualità  del dibattito pubblico  (che non riguarda solo l’Italia: in Francia potrebbe vincere il linguaggio intestinale della Le Pen), non concerne la separazione, ma l’accomunamento,  diremmo confuso,  tra le élites e il popolo, per le ragioni, già ricordate, legate alla  dinamica interna della democrazia. 
Altro punto interessante. All’inizio dell’allargamento del suffragio, le classi dirigenti democratiche (piuttosto che liberali in senso stretto, o almeno non tutte) confidavano nell’istruzione e nella possibilità, attraverso  il ciclo scolastico e l’educazione civica,  di formare cittadini se non perfetti, migliori.  In realtà, in una società di massa,  il messaggio “scolastico” e civico  non può  che essere  semplificato, proprio per raggiungere tutti, come avviene per l’informazione politica.  E la mezza cultura, frammista alla labilità psicologica  delle folle emozionali,  può provocare più danni della totale incultura:  cosa oggi  sotto gli occhi di tutti,  o comunque di chiunque non abbia paura di osservare e giudicare la realtà senza paraocchi.   
Purtroppo, siamo messi male. Occorrerebbe senso di responsabilità. Dote che può essere di pochi, frutto di studi, educazione elitaria,  spirito di corpo. L’esatto contrario dell’ educazione democratica. Sicché, più il linguaggio si  semplifica, più le élites si involgariscono, credendo di cavarsela a buon mercato, più il popolo si convince di essere onnipotente, più diviene ghiotta preda di demagoghi altrettanto volgari.  E così  il cerchio si chiude. Altro che la separazione tra  élites  e popolo...
Come spezzarlo? Come uscirne?  Servirebbe una società democratica ma con un cuore aristocratico. Dove trovarla? Una parola.     

Carlo Gambescia        
                                          

venerdì 28 aprile 2017

Un quasi elogio di Massimo Carminati
Roma continua a far la stupida 



I ventotto anni chiesti dal Pm per  Carminati,   i ventisei per Buzzi e  le   pene non meno severe per gli altri imputati, sembrano molto pesanti:  tanti anni, forse troppi.  Vedremo,  cosa deciderà il giudice.
Ma non è questo il lato interessante della questione. La vicenda, anzi la rappresentazione politico-mediatica  di  “mafia capitale”  con le immagini di Carminati che saluta romanamente, in perfetta solitudine, da un auletta del carcere dove è rinchiuso, roba da ultimo giapponese perdutosi nella giungla,  è distonica rispetto a una certa  Roma voltagabbana,  che oggi si improvvisa,  moralista, giustizialista e grillina.   Di più: in contrasto  con le  diverse “Rome”  che si sono avvicendate nel Novecento.  E che, di volta in volta,  hanno continuato a fare le stupide, per  dirla con la famosa canzonetta.  Un camaleontismo che non fa rima con moralismo (oppure sì...), che   meriterebbe un libro in chiave di sociologia del costume politico.  Soprattutto dopo l’avvento del cinema e della televisione.
Si pensi ai Cinegiornali  Luce:  Roma sommersa da un mare in orbace,  saluti romani a volontà, vincere e vinceremo, credere, obbedire, combattere. Il tutto,  ovviamente,  pianificato dall’alto, dallo stato totalitario. Roma in camicia nera.  
In realtà, i  romani non erano tutti fascisti, come ci si proponeva ai piani alti,  per la gioia del duce. Cosa del resto  provata dai successivi filmati sull’ingresso  degli Alleati, dove i romani,  tutti contenti, - e giustamente - ballavano al suono delle cornamuse e del boogie-woogie. Roma liberata e antifascista.
Anche allora i romani applaudivano, ma non erano tutti filo-americani. Eppure, impressionano ancora le immagini del  linciaggio del direttore fascista del carcere di Regina Cieli.  Come le immagini del glaciale silenzio intorno al recupero dei corpi degli antifascisti -  alcuni senza sapere neppure di esserlo -   massacrati dai nazisti  alle Fosse Ardeatine.  Roma Mater dolorosa
E cosa pensare dei cinegiornali  sulla Roma degli anni  Cinquanta e Sessanta? Una città  che cresceva, per la sinistra troppo. Piena  di romani  tutti motorizzati,  o comunque a passeggio,  bar,  tavolini, ristoranti,  granite di caffè con la panna,  tanti bambini intorno;  i romani  sembravano aver vinto alla lotteria,  tutti gaudenti.  Ergo, tutti democristiani. Roma del benessere ritrovato.
E apprezzato? No, perché, negli anni Settanta, i romani  votarono compatti per il partito comunista. Ma di quale comunismo si trattava?   Quello dell’assessore alla cultura  Nicolini.  I romani dissero  basta  al terrorismo,  alla Roma dei "morti ammazzati"  e della  “sana guerriglia urbana". Rinacque una città nuova e antica al tempo stesso.  Roma dell'effimero.  
Dopo Nicolini, i romani vollero  continuare  a divertirsi con Veltroni, però “a modino”,  senza esagerare, al massimo andando a tutta velocità sulle  piste ciclabili.    Roma politicamente corretta.
Veltroni forever? No,  perché poi i romani  votarono in massa per Alemanno: si rimpiangeva l’ordine mussoliniano.  Tutti di nuovo fascisti?   No, perché, al grido  di una parola nuova per Roma (onestà), almeno secondo alcuni,  oggi,  mentre scriviamo, i romani  votano compatti Grillo. Roma a Cinque Stelle.
Carrellata veloce, che però non spiega il saluto romano di Carminati.  Oppure sì. Spiega, spiega. Perché l’esponente dei Nuclei Armati Rivoluzionari, non è romano, è nato a Milano. La geografia, anche se frutto del caso,  talvolta aiuta a decifrare la storia (personale).  E, a Carminati, al di là delle idee stralunatissime,  solo per la lezione di coerenza,  dimezzeremmo la pena… Un quasi elogio il nostro? Diciamo un elogio della follia (non nel senso erasmiano però).  E  i romani?  Ci penserà Grillo. Oppure no? Boh…

Carlo Gambescia                     

giovedì 27 aprile 2017

Sul basso numero di laureati in Italia 
Perché stracciarsi le vesti?


Non ci interessa il dato statistico  in sé (l’aumento o la diminuzione del numero di laureati), quanto  la correlazione, per molti scontata,  tra l’ alto numero dei  laureati  e le sorti magnifiche e progressive delle nostre  società.  Le cose non stanno esattamente così. Quindi perché stracciarsi le vesti? Cerchiamo invece di capire.  
In primo luogo,   il Novecento,  il secolo più istruito della storia umana e dell’università di  massa,  rappresenta,  a detta di Sorokin e Bouthoul  (massimi studiosi  di sociologia comparata della guerra), il più bellicoso da Adamo ed Eva.  Ciò, per contro, non significa che l’assenza di istruzione sia un fattore di pacificazione: la famigerata  "santa ignoranza" dei nemici della modernità.   Ma soltanto  che  le guerre attraversano, purtroppo,  l’intera storia umana e che  di conseguenza le cause della pace  e della guerra vanno ricercate altrove. E non  nella statistica delle persone  laureate.   
In secondo luogo,  su queste erronee  basi (istruzione = pacificazione), la conquista di un titolo di studio superiore -  quindi non solo la possibilità di perseguirlo -  è comunque diventata  la bandiera delle forze progressiste, aiutate nel compito  da una sociologia  a poco a poco  trasformatasi in scienza ausiliaria del welfare state.  Sicché, il dibattito -  basti guardare i titoli dei giornali di oggi  -  ha assunto tinte politiche e propagandistiche, determinando, di riflesso, la crescita smisurata di aspettative messianiche  nell’istruzione di massa.
In terzo luogo,  il raccordo tra mondo del lavoro e  “fabbricazione dei titoli sociali” non funziona (e non può funzionare). E per quale ragione?  Per l'esistenza di una sfasatura temporale tra i processi di innovazione (velocissimi e impetuosi) e la formazione scolastica e universitaria (più lenta e sedimentata).  Si tratta di un fattore strutturale, che riguarda in particolare le società moderne, al quale non c'è rimedio, come ha mostrato la sociologia storica di Braudel.
In quarto luogo, nonostante l’accento messo sulla meritocrazia,  più della metà dei posti di lavoro (non solo in Italia)  - parliamo di linee tendenza, che variano scalarmente da società a società - viene assegnata su basi fiduciarie (parentela, amicizia, conoscenze).  Fenomeno che, dove predomina l’economia pubblica, dà luogo a  clientelismo e corruzione.  In qualche misura, come insegna la prossemica applicata alla sociologia,   la meritocrazia  perde ai punti con il legame sociale. E anche questo è un fattore strutturale, che  riguarda la società in quanto tale (non solo quella moderna, insomma):  l’uomo al  suo“simile lontano” preferirà sempre il suo “simile vicino”.
Che fare? Niente.  Lasciare che la società -  quindi gli individui -  sulla base della propria tempistica invisibile, trovi il suo equilibrio visibile.  Non è una questione di cifre ( o comunque non solo).  Esistono, semplificando,  un utile della  società, fissato al suo interno dalla società stessa,  e un utile per la società fissato dall’esterno, seguendo criteri extra-sociali.  Sicché  dal punto di vista politico, se proprio dobbiamo dare alcune indicazioni,  il primo è il criterio liberale, il secondo socialista.  E per oggi, non aggiungiamo altro.

Carlo Gambescia             

mercoledì 26 aprile 2017

 Alitalia?
Prima fallisce, meglio è





La titolazione di tipo sedativo  del “Sole 24 Ore”  su  Alitalia (sotto),  è la fotografia di un capitalismo italiano che è tutto, eccetto che liberista.  Finora la linea politica del quotidiano  confindustriale  non si è distinta da quella dei vertici sindacali: sacrifici + investimenti pubblici. 
Linea, clamorosamente smentita dal peronismo + cassa integrazione  dei sindacati di base, che hanno detto no  alla triangolazione governo-impresa-sindacati. Si leggano  nelle pagine interne i singhiozzi  di Alberto Orioli sul “caro prezzo della disintermediazione sociale”: purissima archeologia socialdemocratica, altro che il  "liberismo selvaggio" caro al  "Manifesto". Alla fin fine in Italia il mercato non piace a nessuno.  Non solo al Papa e ai post-comunisti.  Si chiama individualismo protetto. E i primi a gradirlo, oltre  agli scansafatiche, sono quelli che un tempo venivano liquidati come "padroni". E che invece oggi finanziano un quotidiano di economia sociale, come il  "Sole 24 Ore", che sarebbe piaciuto a Toniolo. 

Insomma, non si può gestire  un’impresa ignorando i valori di mercato: i prezzi dei servizi forniti. Alitalia finora è stata amministrata  secondo criteri economici  estranei all’economia di mercato. Come se il consumatore,  l'utilizzatore finale, chi paga il biglietto (carissimo),  fosse un optional.  E i consumatori  - ergo i mercati - si sono puntualmente vendicati.
Dopo di che, cosa rischia di  accadere  in Italia?  Che si  deve persino precisare, come fa il  Ministro Poletti, che la nazionalizzazione è esclusa… Ci mancherebbe altro…   
Se si è fuori mercato o si abbassano costi e prezzi  o si fallisce. È pura e semplice aritmetica: basta conoscere le quattro operazioni. Quindi ricapitolando, prima Alitalia fallisce, meglio è.
Si dirà (i soliti socialisti),  il costo umano e sociale? Non siamo nell’Ottocento,  c’è la cassa integrazione (purtroppo), al massimo il personale di terra dovrà  rinunciare a comprarsi una nuova mountain bike e i piloti alla settimanale partita di calcetto… Qui, l’unica  “macelleria sociale”, Alitalia l’ha praticata, e per anni,  sui passeggeri…

Carlo Gambescia                    

martedì 25 aprile 2017

Presidenziali francesi 2017
 Ogni nazione  ha il  piccolo borghese che si merita
 
Il famoso dipinto di  Eugène Delcroix,  "La libertà che guida il popolo" (La Liberté guidant le peuple), 1830.

Chissà,  e ci costa dirlo,   una rivoluzione vera, come quella francese,  avrebbe messo al riparo l’ Italia da personaggi come Mussolini e Grillo… Ecco quel  che  pensavo ieri a proposito dei risultati del primo turno delle presidenziali francesi.
Perché al di là di tutte le chiacchiere sulla fine della sinistra, della destra, del post-industriale, della post-globalizzazione, eccetera, in Francia  il dato di fondo è rappresentato dallo zoccolo duro, politico-sociale, di un cultura repubblicana diffusa, che diffida  del movimentismo controrivoluzionario, antitetico ai valori della rivoluzione francese  (Liberté, Egalité, Fraternité) e al principio fondamentale del capitalismo di  mercato, sociale o meno:  produrre per redistribuire.  
Gramsci, fervente ammiratore della Rivoluzione francese - pensatore  che qualche volta “ci prendeva” -   fu il primo a parlare del ciclico  sovversivismo delle classi borghesi.  Nel senso però di un periodico passo indietro, verso i valori gerarchici pre-rivoluzionari,  magari nascosti sotto la bandiera della modernità (si pensi al "modernismo reazionario" tra le due guerre mondiali). 
Gramsci però  restringeva meccanicamente, sul piano decisionale (del comando), il concetto di sovversivismo alle classi alto-borghesi, in realtà,  meno interessate al passato che al futuro e perciò più favorevoli al cambiamento sociale e alla modernità che al passo indietro. Un cammino del gambero, al quale invece sembra essere sempre stata  interessata quella piccola borghesia reazionaria,  predominante nella società di massa, fin dai suoi inizi novecenteschi (ruolo negativo individuato anche da Gramsci, ma ricondotto magicamente nell'alveo salvifico della pedagogia del populismo comunista).
Parliamo degli strati più bassi dei ceti medi, ignoranti o semi-istruiti (anche peggio),  affamati di status sociale, ma soprattutto fomentati dalla paura di   perdere il proprio (così "faticosamente" guadagnato):  una fascia di popolazione che ieri costituì  nerbo del  fascismi novecenteschi, oggi la prima linea del populismo.   E che in Francia, domenica,  ha dovuto però confrontarsi, come altre volte, con lo zoccolo duro repubblicano, interclassista, moderno che continua a  vedere nella Rivoluzione Francese e nel repubblicanesimo quei valori imprescindibili,  dal quale tutti i ceti, a cominciare da quella medi,  hanno qualcosa da guadagnare. E che quindi, anche questa volta potrebbe vincere.   Sotto questo aspetto, qualsiasi paragone, tra la modernità repubblicana di un De Gaulle e lo spirito controrivoluzionario della  Le Pen, è semplicemente improponibile.  
In Italia, purtroppo non è così: si continuano a rifiutare i valori della Rivoluzione francese e capitalistica: in sintesi si vuole redistribuire senza produrre, opponendo i valori, mai vissuti, della rivoluzione politica ai valori della rivoluzioni economica, sempre rifiutati.  Un Macron, in grado al tempo stesso di guardare al mondo, all’Europa e alla Francia, quindi in qualche misura capace di incorporare i valori patriottici e repubblicani di un De Gaulle, senza scivolare nel nazional-fascismo (o  nel nazional-populismo) della Le Pen, in Italia difficilmente potrebbe emergere e vincere, perché  non esiste, ripetiamo,  alcuno zoccolo duro  repubblicano-mercatista, né sul versante gollista, né su quello liberista. Né uguaglianza né merito, questa è l'Italia.
Quanto alla cosiddetto contrasto tra élite e popolo,  sollevato anche in Italia  da populisti  come Grillo, non è altro  che la  riproposizione  dell’archeologico contrasto di derivazione  controrivoluzionaria, un piccolo presepio,  tra il popolo  stretto intorno al benevolo potere del  parroco e del nobile locale e i ceti borghesi  dipinti come  privi di radici, avidi e senza dio.  Nulla di nuovo sotto il sole.  Contrasto oggi recepito e celebrato,  anche dalla sinistra radicale.  E qui, non va dimenticato, che Marx, rese scientifiche le critiche romantiche del pensiero controrivoluzionario alla società borghese, soprattutto all’economia di mercato.
Pertanto il problema, in Italia,  è rappresentato dal piccolo borghese, che in Francia è stato “repubblicanizzato” ed economicamente “modernizzato”, mentre da noi no.  Di qui, il suo ricorrente sovversivismo. Insomma, ogni nazione, alla fin fine, ha il piccolo borghese che si merita. Purtroppo.


Carlo Gambescia                                    

lunedì 24 aprile 2017

La puntata de "L'Arena" di Giletti
Gianfranco Fini, l’ora degli avvoltoi…



Voltastomaco.  Nel 2010 io e Nicola Vacca scrivemmo  un libro A Destra per caso, dove si criticava, da posizioni liberali e riformiste, la linea politica di Fini e più in generale  una cultura destrorsa, di derivazione neofascista, incapace di aprirsi alla modernità politica. Critiche dure, ripetiamo, e senza interessati compiacimenti verso le scelte politiche e culturali di Berlusconi(*). Anzi.
Sicché  il libro non venne recensito né dai berlusconiani né dagli anti. Ma non fu adeguatamente commentato neppure dalla stampa di centro-sinistra,  all’epoca schieratissima con Fini contro Berlusconi.   Ovviamente, tutti lo lessero, perché il libro dal punto di vista delle vendite non andò male.  L’unica reazione, in particolare da parte dei  finiani  di Futuro e libertà   fu  di colpirci sul piano delle collaborazioni, contraccolpo che però io e Nicola Vacca non temevamo:  prima la verità politica,  "costi quel che costi",  ci dicemmo. 
Al momento della pubblicazione di A destra per caso, l’affaire  Montecarlo  non era ancora esploso.  In seguito, una volta divampato l'incendio,  pur di far cadere Berlusconi  puntando  sull’aiutino del Presidente della Camera,  Fini venne celebrato,  blandito,  difeso con successo dai pompieri del circo mediatico di centro-sinistra:  si parlò, finiani in testa,   di "macchina del fango", eccetera, eccetera. 
Dicevo voltastomaco. Perché, oggi che Fini politicamente non conta più niente,  gli avvoltoi  di destra e sinistra si sono scatenati.  Si pensi solo a “ L' Arena" di ieri, condotta, in chiave di crocifissione metafisica da un Massimo Giletti in grandissima forma.  Tuttavia,  per quando ne so,  il nostro  Tersite mediatico (in senso concettuale, non fisico) nel 2010, quando Fini era in auge,  si guardò bene  dal dedicare l'intera trasmissione all’appartamento di Montecarlo (**). Del resto, rimane emblematica, ai piedi della croce,  la presenza concentrica di coloro, come  Giannini e Chiocci, oggi concordi nel massacrare Fini, ieri su sponde opposte:  gli estremi si sa, quando dilaga il giustizialismo (pro o contro, non importa), finiscono sempre per toccarsi.  E per far vincere Grillo. Ma questa è un'altra storia.
Insomma, il vero punto sociologico, se si vuole di costume politico,  non è che Chiocci e il “Giornale”,  stando almeno alle ultime cronache giudiziarie,  fossero fin dall'inizio dalla parte della ragione,   ma che oggi, nel momento in cui Fini non serve più a nessuno,  in nome del populismo mediatico lo si può consegnare, ancora prima di una sentenza,  al carnefice giudiziario e al ludibrio popolare, sventolando le bandiere del populismo mediatico.
Quel che poi amareggia - con precedenti illustri che risalgono all'apostolo Pietro  -  è il comportamento  degli ex di  Futuro e Libertà, i sodali  di Fini.  Dove sono finiti?  Perché,  a prescindere dalla colpevolezza o meno dell'ex Presidente della Camera,  invece di  andare a caccia di farfalle su Fb,  non condannano, pubblicamente il fariseismo di Giletti e compagnia cantante?  Vigliacchi. 

Carlo Gambescia  

    

   
Arma dei Carabinieri(*)
Nucleo di Polizia Giudiziaria di [omissis]
VERBALE DI INTERCETTAZIONE DI CONVERSAZIONI O COMUNICAZIONI
(ex artt. 266,267 e 268 C.P.P.)
L'anno 2017, lunedì 24 aprile, in [omissis] presso la sala ascolto sita al 6o piano
della locale Procura della Repubblica, viene redatto il presente atto.
VERBALIZZANTE
M.O Osvaldo Spengler
FATTO

Nel corso dell'attività tecnica di monitoraggio svolta nell'ambito della procedura riservata n. 765/2, autorizzazione COPASIR 8932/3a [Operazione NATO “ASCOLTO FRATERNO” N.d.V.] è stato effettuata in data 23/04/2017, ore 10.37, l’intercettazione di una conversazione telefonica intercorsa tra le utenze 333***, in dotazione a FINZI MATTIA, ex Presidente del Consiglio dei Ministri, e  347***, in dotazione a SENSINI FABIO, ex consulente per la comunicazione della Presidenza del Consiglio. Si riporta di seguito la trascrizione integrale della conversazione summenzionata:
 [omissis]



FINZI MATTIA: “A posto con le regole del dibattito su Sky?”
SENSINI FABIO: “A posto. Risposte da un minuto e mezzo al massimo, tre possibilità di replica da trenta secondi.”
FINZI MATTIA: “Domande agli altri ne posso fare?”
SENSINI FABIO: “Certo. Anche loro a te, naturalmente.”
FINZI MATTIA: “Quelli là? Quelli senza la pappardella scritta sono persi, me li mangio.”
SENSINI FABIO: “Guarda Mattia che Orgando è sveglio.”
FINZI MATTIA: “Orgando è la mia brutta copia, in tivù me lo mangio.”
SENSINI FABIO: “E Emilino? Emilino è un giudice, i grillini…”
FINZI MATTIA: “Emilino è ridicolo, dai! Si fa escludere in Lombardia e Liguria, è vecchio, ha il pancione…ridicolo!”
SENSINI FABIO: “Quello si mette d’accordo con Orgando, Mattia.”
FINZI MATTIA: “Bene, così perdono insieme. Vinciamo facile, Fabio.”
SENSINI FABIO [pausa] : “Sarà.”
FINZI MATTIA: “Cosa fai, gufi?”
SENSINI FABIO: “Macché gufi e gufi. E dopo?”

FINZI MATTIA: “Dopo cosa?”
SENSINI FABIO: “Dopo il congresso, dopo che hai vinto. E dopo?”
FINZI MATTIA: “Dopo gliela faccio pagare cara, molto cara, a tutti. Una cura medievale per i traditori.”
SENSINI FABIO: “Hai visto i dati dell’affluenza alle primarie? C’è un’astensione pazzesca. Alle elezioni dove li prendiamo i voti, Mattia? Qua vincono i grillini. E poi?”
FINZI MATTIA: “Tu fammi riprendere il partito e ai grillini ci penso io.”
SENSINI FABIO: “E come?”
FINZI MATTIA: “O ci sta Bernasconi per la Grosse Koalition o gli spacco il movimento, ai grillini. Fabio: gli do il reddito di cittadinanza.”
SENSINI FABIO: “Sei matto? E i soldi dove li trovi?”
FINZI MATTIA: “Non li trovo perché non ci sono. Non li vota il popolo? Bene, il popolo è sovrano e ha sempre ragione: prendo per buoni i loro conti, e gli dico: ‘Volete il reddito di cittadinanza? Governate con noi e lo facciamo, vi do il Ministero dell’Economia.’ Prendiamo una caterva di voti, Fabio, noi maggioranza relativa garantita e grillini secondi.”
SENSINI FABIO: “Cooosa?!”
FINZI MATTIA : “Aspetta. Poi quando siamo al dunque, l’Europa ci dice di no, i grillini fanno casino, io protesto con la Merkel, poi scopriamo che i grillini hanno sbagliato i conti, sono degli incapaci, e li sputtano. Con la morte nel cuore facciamo un bel rimpasto, e al popolo grillino gli dico: ‘Li volete centocinquanta al mese? Quelli ci sono, vedete voi.’ “
SENSINI FABIO: “Hai bevuto?”
FINZI MATTIA: “No, perché?”
SENSINI FABIO: “Non ti rendi conto che è una follia?”
FINZI MATTIA: “Certo che è una follia. E allora? Ti sembra normale che i grillini prendono il trenta per cento? Che li votano milioni di italiani? Cosa vuoi che facciamo? Basta elezioni? Magari, ma non si può, ormai è una vita che non si vota alle politiche, dai…prima o poi ci dobbiamo passare.”
SENSINI FABIO: “Ma non così, non così! Pensa alle ripercussioni internazionali, pensa…”
FINZI MATTIA: “…pensa a sopravvivere, Fabio. Qua vince chi sopravvive un giorno di più.”

Letto, confermato e sottoscritto
L’UFFICIALE DI P.G.
M.Osvaldo Spengler

(*) "Trattasi" -   tanto per non cambiare stile,  quello  della  Benemerita...  -   di ricostruzioni che sono  frutto della mia  fantasia di  autore e commediografo.  Qualsiasi riferimento  a fatti o persone  reali  deve ritenersi puramente casuale. (Roberto Buffagni)

Chi è il  Maresciallo Osvaldo Spengler?  Nato a Guardiagrele (CH) il 29 maggio 1948 da famiglia di antiche origini sassoni (carbonai di Blankenburg am Harz emigrati nelle foreste abruzzesi per sfuggire agli orrori della Guerra dei Trent’anni), manifestò sin dall’infanzia intelletto vivace e carattere riservato, forse un po’ rigido, chiuso, pessimista. Il padre, impiegato postale, lo avviò agli studi ginnasiali, nella speranza che Osvaldo conseguisse, primo della sua famiglia, la laurea di dottore in legge. Ma pur frequentando con profitto il Liceo Classico di Chieti “Asinio Pollione”, al conseguimento della maturità con il voto di 60/60, Osvaldo si rifiutò recisamente di proseguire gli studi, e si arruolò invece, con delusione e sgomento della famiglia, nell’Arma dei Carabinieri. Unica ragione da lui addotta: “Non mi piace far chiacchiere .” (Com’è noto, il carabiniere è “uso a obbedir tacendo”). Mise a frutto le sue doti di acuto osservatore dell’uomo in alcune indagini rimaste celebri (una per tutte: l’arresto dell’inafferrabile Pino Lenticchi, “il Bel Mitraglia”). Coinvolto nelle indagini su “Tangentopoli”, perseguì con cocciutaggine una linea d’indagine personalissima ed eterodossa che lo mise in contrasto con i magistrati inquirenti. Invitato a chiedere il trasferimento ad altra mansione, sorprese i superiori proponendosi per la sala ascolto della Procura di ***. Richiesto del perché, rispose testualmente: “Almeno qui le chiacchiere le fanno gli altri.”
***

Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo lavoro, attualmente in tournée, è Sorelle d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista, musiche di Alessandro Nidi, regia di Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e Isa Danieli. Come si vede anche dal titolo di questo spettacolo, ha un po’ la fissa del Risorgimento, dell’Italia… insomma, dell’oggettistica vintage...




sabato 22 aprile 2017

Elezioni presidenziali francesi 2017
Vinceranno i politicamente depressi?



Il primo  turno delle presidenziali francesi  celebrerà la vittoria dei candidati rosso-bruni Le Pen e Mélenchon?  O  si giungerà a  un ballottaggio tra l’eroina dell’ultradestra  e il “globalista”  Macron? O con  il post-gollista (molto post)  Fillon.  Vedremo. I giochi sono aperti. L’incertezza domina.  Il rischio però è  che vincano i politicamente depressi.  Depressione? Si depressione. Per scoprire il perché del termine,  chiediamo al lettore un pizzico di pazienza, insomma,  di arrivare fino  alla chiusa ( o quasi)  dell’ articolo.
Si parte.  Quel che  appare  stupido è l'idea di  chiusura delle frontiere, evocata in particolare da madame Le Pen e  monsieur  Fillon. Ma che  non dispiacerebbe neppure al camarade Mélenchon. Intanto,  è bene che i simpatizzanti italiani del Front National, sappiano che in caso di chiusura  ermetica,  quel che è accaduto negli ultimi  mesi ai confini con la Francia,   rischia di trasformarsi nel nostro pane quotidiano, con campi  abusivi,  cortei umanitari, giudici di sinistra che emettono fatwe,  polizia schierata e così via.  
La chiusura delle frontiere, quale  “sommo atto”  da compiere “in nome di sua maestà la sovranità nazionale”,  implica serie controindicazioni.  Ad esempio:  se a nostra volta  si decidesse di   chiudere -  sono reazioni più che possibili -  ci troveremmo  però  con il Mediterraneo davanti,  aperto a distesa,  perché nessun politico, da Gentiloni e Renzi  a Salvini e Grillo, se la sentirebbe di inviare truppe il Libia per stabilizzare (come si dice, ipocritamente).  Sicché, per farla breve:  flusso inarrestabile verso l'Italia di  immigranti,  migranti, profughi, clandestini, eccetera (tanto il nome non muta la sostanza della cosa...), come prima più di prima,  che dovremo smaltire in loco, come prima più di prima. 
Certo, potremmo sempre respingere i barconi, lasciarli affondare, eccetera. Dopo le dimenticate nefandezze hitleriane,  nulla è più impossibile in  Europa.   Soprattutto se andasse al potere, anche in Italia,  un governo di estrema destra, populista o “sovranista”, gemello politico del Front National. Parliamo di  vigliacchi pronti a infierire  sui naufraghi ma non a fare la guerra  in Libia e su quei fronti, dove combattere può essere politicamente  utile per la difesa dell’Europa.  Nonché, cosa non secondaria, per ridurre, ab origine, i flussi in entrata e così  favorire quei processi di socializzazione-secolarizzazione, ai quali accennavamo  ieri (*).
Il mito delle frontiere chiuse, del  “padroni in casa nostra”,  è impolitico quando  usato per accanirsi  sui deboli e prostrarsi ai piedi dei forti. Quindi contro un finto nemico. Con questo, non vogliamo assolutamente difendere la causa del nazionalismo duro e puro, storicamente parlando di un Mussolini ad esempio, con l’evocazione, a nostra volta, di  un  romantico principio di  coerenza distruttiva. Ci mancherebbe altro. 
Desideriamo invece soltanto  sottolineare il rischio di  un nazionalismo sfibrato, stupido, vigliacco,  da depressi collettivi, ecco il punto. Che potrebbe vincere in Francia,  poi da noi.  Un nazionalismo, oggi ribattezzato sovranismo,  che  crede  basti  chiudersi in casa e non vedere nessuno per stare meglio.  In realtà, nel depresso, l’isolamento è la prima causa di suicidio. In politica, di autodistruzione.   


Carlo Gambescia  

venerdì 21 aprile 2017

Micro-terrorismo agli Champs-Élysées
 Two è sempre meglio  che  three



“Non finisce mai”.  Ecco la reazione  di  Trump,  in compagnia di Gentiloni,  all'arrivo di  cattive nuove  da Parigi (*).  Purtroppo, il rischio c’è.  Ed è quello del micro-terrorismo, difficile da controllare ed evitare: piccoli nuclei, armati sommariamente,  lupi solitari alla guida di grossi autoveicoli, individui che brandiscono  coltellacci.  Ieri sera, sembra che agli Champs-Élysées i terroristi fossero due. 
L’Italia finora, a differenza della Francia e di altri paesi,  non ha ancora subito attacchi  micro o macro.  Il che però non significa che sia fuori pericolo.  Purtroppo, sembra,  che a prescindere dalla distruzione politica e militare dell' Isis,  si vada delineando  anche in Europa, lo scenario israeliano dello stato d’assedio permanente ( o quasi). Detto altrimenti:  del vivere, fin nel quotidiano, il più minuto,  la devastante esperienza dell’ improvviso  micro-attacco terroristico.
Esiste  una soluzione?  Sociologicamente  - non è un gran scoperta -  la paura porta paura e ispira le politiche dell’angoscia, ossia quel pretendere di  combattere con mezzi  limitati, soprattutto in una società libera,  qualcosa che cresce in misura illimitata come la paura diffusa, esito  di una crescente  angoscia collettiva, forzosamente basata sullo stereotipo del nemico occulto, pronto a essere trasformato  in capro espiatorio collettivo.  E non c’è nulla di peggio di una politica che si proponga di  assecondare, come nel caso dei movimenti populisti e xenofobi,  le paure collettive.  
Come è altrettanto pericoloso, sul piano politico, far finta di nulla e ridurre il micro e il macro terrorismo a questione psichiatrica e criminale, a puro problema di ordine pubblico, atteggiamento  che in qualche misura, rappresenta la versione  fisiologica, normalizzata, a sinistra,  della politica della paura, patologica, praticata, a destra, dai movimenti populisti.
Come si può capire si tratta di un problema di non facile soluzione,  perché sono in conflitto, sotto l’aspetto organizzativo, due logiche: a) quella della repressione, che nelle società liberali, incontra limiti, che però  a breve può funzionare, accettando di vivere,  come dire “all’israeliana", in attesa che la tormenta prima o poi passi da sola (cosa molto difficile); b) quella della secolarizzazione, nel senso di un laicizzazione culturale, che però presuppone un’integrazione economica e sociale riuscita, dell’Islam europeo: un  processo di socializzazione dai tempi più lunghi, e che  può anche non funzionare.  
Questa discrasia tra tempi repressivi (brevi) e tempi secolarizzanti (lunghi), rischia di complicarsi ancora di più  nell’ assenza di un freno ai processi migratori, la cui temporalità è più che breve, diremmo brevissima, verso l’Europa: politiche dell'accoglienza indiscriminata, da alcune parti politiche addirittura incoraggiate, senza alcuna considerazione, tra l’altro, delle inevitabili  e pericolose reazioni xenofobe, sul piano collettivo. Ci spieghiamo meglio: il  tentativo  di far coincidere temporalmente tre variabili  dai tempi differenti - della repressione (brevi), della secolarizzazione (lunghi) e dell’ accoglienza (brevissimi) -   rischia di provocare un corto circuito politico e sociale dalle proporzioni gigantesche e favorire l'ascesa  vittoriosa  dei movimenti populisti e xenofobi.       
Occorre perciò fare un scelta. E qui torniamo a Trump, alla sua  impazienza,  e soprattutto all’ingenuo (?) tentativo di Gentiloni di “scaricare” sugli Stati Uniti la questione libica,  respinto dal presidente americano (come del resto in precedenza da Obama). La questione  libica imporrebbe invece - la scelta cui abbiamo accennato - un impegno militare italiano ed europeo per riportare l’ordine e monitorare, sulla base delle tempistiche ricordate,  i flussi migratori verso l’ Italia e l’Europa.  E quindi, isolare la variabile dei tempi brevissimi (dell’accoglienza).  
Ovviamente rimarrebbe il coordinamento  delle due variabili dei tempi brevi (della repressione) e dei tempi lunghi (della secolarizzazione). Impresa non facile,  ma sicuramente più gestibile (più secolarizzazione meno repressione)  se non sottoposta  (soprattutto il fattore  secolarizzazione) a una crescente pressione immigratoria.  
In fondo, se ci si perdona la caduta di stile,  two è sempre meglio che three...  
Carlo Gambescia

                                                     

giovedì 20 aprile 2017

In libreria la prima edizione critica italiana del Mein Kampf
Basterà leggerlo?

Non cambieranno mai.  Oppure sì.  Chissà… Il “Secolo d’Italia”,   rilanciando l’uscita dell’edizione critica italiana del Mein Kampf, curata da Vincenzo Pinto  (Free Ebrei, Torino 2017, pp. 640, premessa di Richard Overy,  traduzione di Alessandra Cambatzu e Vincenzo Pinto, euro 29.99), sottolineava  che  “non è un libro stupido, va letto con attenzione”. E di seguito, che l’Occidente, “è ora che faccia i conti seriamente con il suo autore senza liquidarlo, come un maniaco, un pazzo un errore della storia” (*). Cosa pensare?  Se son rose fioriranno. All’estrema destra.  Sovranismo di ritorno, a parte. E pure populismo, spesso nazistoide.  
Per ora, l’eccellente lavoro di Pinto, fa ordine tra le numerose edizioni pirata o quasi (a parte quella di Kaos, curata dottamente da Giorgio Galli, ma incompleta), che l’editoria della destra neofascista, ripubblicando ogni volta pari pari l’edizione, mal tradotta,  di Bompiani degli anni Trenta (Cantimori docet), dava in pasto a energumeni, nemmeno più tanto giovani, che si fermavano alla copertina,  generalmente in caratteri gotici. 
Dietro l’edizione di Pinto, che ha una sua indipendenza e dignità metodologica, soprattutto sul piano della traduzione, fedelissima al testo originale, ad esempio programmatiker è tradotto con programmatore e non teorico, come nell'edizione Bompiani)  c’è l’enorme lavoro  dell’Istituto di storia contemporanea di Monaco, che ha curato la ricchissima edizione critica tedesca (2016).  Ma lasciamo la parola a Pinto, che di professione è docente e storico delle idee, in particolare  dell’area mitteleuropea:

“La  nostra edizione critica non poteva non partire dall’imponente lavoro condotto dall’Istituto di storia contemporanea di Monaco. Non si tratta  chiariamolo subito -  della traduzione italiana (operazione quantitativamente incongrua e non autorizzata). La nostra edizione ha rielaborato alcune note e ha rimandato a quelle più importanti presenti nella Kritische Ausgabe (per chi conosca il tedesco e voglia approfondire alcuni aspetti). La  ritraduzione integrale del Mein Kampf, basata sulla  prima edizione (1925-1926), è presentata da una sinossi contenente la genesi, il contenuto e l’analisi  di ogni singolo capitolo, l’individuazione delle parole-chiave e una bibliografia aggiornata coi principali titoli sulle origini del razzismo (in lingua italiana, se possibile). Abbiamo anche arricchito il teso  con alcune immagini d’epoca, tratte da alcune importanti pubblicazioni  (…). Al termine di ogni capitolo abbiamo poi aggiunto un approfondimento didattico, costituito da due sezioni: analisi retorica e analisi storico-culturale. Si tratta di alcuni  spunti forniti al lettore o al docente che vogliano cimentarsi  nell’approfondire la struttura del testo e il contesto  storico-culturale in cui è emerso” (p. VIII). 

Sul piano interpretativo, in particolare sulla questione dell’antisemitismo,  Pinto, sembra particolarmente apprezzare ( e valorizzare),  l’approccio “dell’arma politica utilizzata per ragioni pragmatiche  nel primo dopoguerra”.  Ma lasciamo di nuovo la parola al curatore:

“La tesi di Hitler come ‘Alfiere’ del paradigma indiziario, formulata di recente nel bel saggio di Ben Novak, fu già da noi affrontata alcuni anni fa nel  nostro lavoro  di storia delle idee, quando occupandoci di Julius Langbehn (precursore del Terzo Impero), avevamo sostenuto l’uso politico del paradigma indiziario nei movimenti totalitari del Novecento. In parole povere, Hitler e altri politici populisti non vanno compresi attraverso la logica deduttiva o induttiva, semmai abduttiva, nel senso fornito da Peirce, elaborato storiograficamente da Carlo Ginzburg e semioticamente da  Umberto Eco. Di fatti, l’antisemitismo di Hitler non è un semplice assioma del nazionalsocialismo, né il prodotto dell’osservazione (più o meno distorta) di singoli episodi della vita reale. È invece la deduzione ‘a ritroso’ del medico-detective che analizza i ‘presagi’: i sintomi della decadenza fisica e morale lo portano a ‘scoprire’ una ‘ malattia’ più profonda che va ‘giustificata’ sul campo. Qui sta la grande forza del mito nazionalsocialista nella democrazia di massa, ma anche la sua intrinseca debolezza: è l’espressione di un sentimento atavico (il bisogno di un capro espiatorio) che può essere risvegliato, ma che può essere messo a tacere dalle armi dei semplici fatti” (p. X).  

Si tratta di un approccio  molto ben sviluppato da Pinto nella densa analisi dei singoli capitoli del Mein Kampf (27 per l’esattezza, in un’opera, come noto,  divisa in due parti o libri: I. Resa dei Conti; II.Il movimento nazionalsocialista). Un approccio, dicevamo, che in qualche misura va oltre, senza per questo  ignorarle,  le due  tesi, talvolta presentate come opposte ma in fondo complementari. Quali tesi?   1) Di un Hitler fin troppo consapevole del suo destino da Angelo Sterminatore;  2) Di un Hitler generato funzionalmente dalla società tedesca.  Pinto ragiona, e bene,  da storico delle idee che sa apprezzare (e usare) gli strumenti storiografici ma anche quelli dell' antropologia, della retorica, della  sociolinguistica. 


Il punto tuttavia è che (e il curatore  ne è consapevole):  gli uomini, paretianamente  parlando, al  capire sembrano preferire il credere. Tradotto: alla ragione, il mito.  Insomma, leggere il Mein Kampf potrebbe non bastare (si pensi solo al capitolo sul federalismo tedesco "come maschera", combattuto da Hitler: sembra di sentire Salvini e Grillo). Insomma,  bisogna capire.  Di più: essere disposti a comprendere. 
Certo, i bambini a scuola sono più duttili, i liceali meno, gli studenti  universitari sono o troppo concreti o vivono fra le nuvole.  Quanto agli uomini fatti, resterà sempre  difficile  far loro cambiare idea, peggio ancora quando "certe" idee sono frutto di atavismi.  Pertanto, basterà  spiegare a quelli del “Secolo d’Italia” chi era  Peirce?   Chi scrive, un tempo provò. Ma senza ottenere alcun risultato. Tuttavia, come dicevano i nonni,  "tentar non nuoce".  Quindi,  un bel  bravo al professor  Pinto, che tra l'altro annuncia  l'uscita di un volume II,  a più mani, dedicato all' approfondimento critico del  Mein Kampf.   Che dire?  Avanti tutta! 

Carlo Gambescia          
   

mercoledì 19 aprile 2017

Totò e Boncompagni
Gli  anti-italiani



Mentre l’Italia mediatica, soprattutto televisiva, era in piena celebrazione dei cinquant’anni dalla morte di Totò,  si spegneva anche  Gianni Boncompagni… 
Potrebbe essere  l’incipit di un racconto, ambientato nell’ Italia,  inizio XXI secolo, dove spuntano i soliti italiani imbronciati  che nulla sanno di Totò e Boncompagni.   Oppure, se  ricordano qualcosa, scorgono in Totò  la ridicola marionetta che al massimo  fa ridere nonni rimbambiti. E in Boncompagni -  subito con l'indice puntato -  “quello delle ragazzine con le cosce al vento".    
In qualche misura, Totò e Boncompagni  sono una metafora  dell’ingratitudine e del dolce far niente all’ italiana.  O  meglio, ne sono  la nemesi:   sono due anti-italiani.  E contro quale Italia?   Quella di coloro che girarono le spalle al  mondo liberale e riformista, per gettarsi nelle braccia del fascismo. Quella di coloro che stanchi delle parate, ma non del posto fisso al Ministero delle Corporazioni, presero a calci il corpo di Mussolini. Quella di coloro che accusarono De Gasperi, il genio politico che ricostruì l’Italia libera, di aver fatto bombardare Roma. Quella di coloro  che tirarono le monetine a Craxi, dopo essere passati dalla cassa.  Quella di coloro, da ultimi, che hanno appeso Berlusconi al palo giudiziario. E Renzi a quello del referendum.  E che oggi sbavano per Grillo perché promette il reddito di cittadinanza.    
Un'Italia indolente, piagnona, ignorante, invidiosa dell'altrui  successo. Che vuole essere qualunque cosa, ma sempre con il culo dell'altro (pardon). Ecco l’Italia che riduce  Totò a clown goloso di pastasciutta  e  Boncompagni a pedofilo di complemento.  La famigerata “geeente” delle piazze piagnone,  che nulla sa, e vuole sapere, di storia.  E che soprattutto attende, con le mani in mano, la biblica manna (statale) dal cielo. I cultori del posto sicuro e del "se conosci qualcuno...". Quelli che sognano corporazioni e protezionismo,  ma senza guerre e fascismo. 
Se si studiano le biografie di Totò e Boncompagni, oltre al  grande  talento personale,  si scopre  quell’attitudine  al rischio  che spinse Totò  a passare dalla rivista al cinema e,  in tarda età, quasi  cieco,  a   girare con Pasolini.   E  Boncompagni osare,  insieme al sulfureo Arbore, nell'Italia pedagogica catto-socialista,  la via della radicale innovazione con "Alto Gradimento", programma padre e madre  di tutte le radio libere. Altro che il piagnone Ligabue... 
Pertanto è giusto celebrarli, come due grandi uomini di spettacolo, liberi, talentuosi e  amanti del rischio. E non del reddito di cittadinanza. Due anti-italiani, insomma.

Carlo Gambescia             


martedì 18 aprile 2017

La riflessione
Da San Francesco a Papa Bergoglio (passando per Gianroberto Casaleggio)

di Fabrizio Borni



In questi giorni di  finta pace , perché  segnati dai  venti di guerra,  ho notato, leggendo alcuni libri, delle coincidenze interessanti,  dalle quali ho preso spunto per buttare giù alcune riflessioni personali, senza alcuna pretesa di esaurire l’argomento.
Quando Bergoglio si affacciò al balcone qualcosa mi disse che questo papa avrebbe scelto il nome Francesco. Per quale ragione? Perché qualcosa si stava trasformando a livello sociale italiano prima che planetario. Certo,  il papa è una figura universale. Bergoglio non sostituisce un papa morto, ma un papa vivo che non era più adatto a “richiamare fedeli”. Ratzinger, ora “Papa Emerito”,  uomo di grande cultura e fin troppo conservatore (ricordiamoci l'idea di celebrare messa in latino) era più un aristocratico della Chiesa che un pastore del gregge cristiano.
Di conseguenza,  le menti illuminate del potere vaticano ne presero atto e con devota spiritualità lo fecero abdicare.  E così  l'asticella del gradimento di colpo risalì.  Bergoglio, non più Papa o Santo Padre, ma semplicemente Francesco, come il più amato dei santi, quello che si spoglia delle sue ricchezze e ne gioisce, colui che parla con tutti tanto da farsi capire anche dagli animali, dal sole e dalla luna. Colui che sa amare. E il nuovo papa lo incarna perfettamente (o quasi), un papa moderno, che twitta e tifa calcio... Un papa disposto a dare un pugno in faccia a chiunque si permetta  di  parlare male della madre…
Ma c’è un  altro “attore”, laico e collettivo,  che si  richiama al francescanesimo:   il 5stelle.  Nato il 4 ottobre 2009 (il 4 ottobre è il compleanno del poverello d'Assisi) per ispirazione più che devozione. Nell'animo del 5stelle c'è la pace. Non vi è alcun dubbio. Una rivoluzione non violenta che sveglia i cuori delle persone e le loro menti. La rete, secondo Gianroberto Casaleggio, è francescana e anticapitalista. La rete è democrazia. Così come Francesco si oppose alla ricchezza, al materialismo, e al volto cupo che era  più dottrina  che virtù nei monaci di allora. Tra i pregi di Francesco c'era la letizia. La gioia. La non violenza. Secondo un'analisi di Le Goff (storico e tra i più autorevoli studiosi del Medioevo),  quando  Francesco raccomandava ai suoi frati le stesse virtù, non violenza e sorriso sempre, in realtà, stava facendo una vera e propria rivoluzione, che all'epoca, creò non poche preoccupazioni alla Chiesa.
In un video di qualche tempo fa (visibile su internet), Casaleggio parlava del nuovo ordine mondiale e di alcune premonizioni che alla luce dei fatti attuali paiono avere non poche verità e che fanno apparire Casaleggio, dopo la sua morte,   ancora più “santo” che guru. Santo agli occhi e nella testa degli “attivisti” 5stelle: i nuovi  frati francescani che non poco hanno in comune con i fraticelli di Assisi. Alla morte di un papa si grida "Santo"...  a quella di Casaleggio "Onestà". Gli attivisti cinque stelle non sono violenti. I loro volti, come ebbi modo di osservare, sono puliti, semplici, gioiosi... a volte venati di tristezza, ma solo  perché oppressi, incompresi e denigrati, come essi ripetono, dai poteri forti, quelli ricchi, quelli che manipolano e pilotano l'informazione, l'economia, il popolo... 
Sono espressioni teatrali anche se figlie non della scuola della commedia dell'arte ma dell' autoconvincimento estremo di essere sempre nel giusto. "Lei ha studiato dai gesuiti" scriveva  Grillo nella lettera a Mario Monti "ma rimanendo in tema di ordini religiosi dovrebbe rifarsi ai francescani" (1).  “Chi non ci comprende è in malafede, noi lo sappiamo, ma andiamo avanti perché prima o poi le persone capiranno e allora finalmente il mondo cambierà”,  così  mi disse un attivista qualche anno fa e come non dargli ragione a quel tempo. Ma io sono scettico verso tutto ciò che l'uomo professa come verità assoluta, poiché l'uomo la verità spesso non la conosce e la inventa,  ben  sapendo  di inventare.
Uomo di una intelligenza superiore, Casaleggio, sapeva  di comunicazione e marketing e da grande e lungimirante imprenditore che era si dimostrò sognatore in un progetto che nemmeno Berlusconi fu in grado di immaginare così evoluto e dirompente. La rete è cosa per giovani e per chi poi ci si converte sapendola adoperare. La rete è il futuro e il cambiamento, ma ci sono delle contraddizioni tra il verbo Casaleggio e la rete; due contraddizioni che ne limitano la verità assoluta.  Scopriamole insieme.
Secondo 5stelle, concettualmente, la rete, al tempo stesso,  è democrazia e anticapitalismo. Però, fino a che punto la rete è democratica? Inoltre, siamo davvero sicuri che la rete sia anticapitalista?  
Al lettore le riflessioni del caso.  Di fatto, tornando al titolo di questo post, si può notare che nonostante la propensione verso  un  comportamento che si  richiami  ai  valori del santo poverello, sembra prevalere,  secondo il mio pensiero, un tentativo  per convincerci che la povertà , non quella assoluta ovviamente, ma  di rinuncia -  che rinvia alla  famosa teoria della “decrescita felice” -   sia la nuova e  unica  via  di salvezza, anche sul piano dottrinario.
Il che può provocare un sospetto:  il  nuovo ordine mondiale,  vaticinato da  Casaleggio,  non   rischia forse di rinviare  a un disegno educativo  per  “governare” ancora  più rigidamente i popoli?  Gli stessi popoli  che sembrano allontanarsi da una  ricchezza che rischia sempre più di divenire patrimonio di pochissimi eletti? 
E che dire dei venti di guerra? Secondo Casaleggio ancora tre anni e poi ci sarà la terza guerra mondiale con miliardi di morti per poi arrivare ad una rinascita vera pulita, umanamente condivisibile a livello planetario che porterà soltanto vantaggi, ma solo a chi si adeguerà alle nuove condizioni di un rinato modello di politica e governo mondiale al quale dovremmo arrivare nel 2054.
Di certo, le ultime news ci fanno riflettere. Trump di buon mattino potrebbe svegliarsi e lanciare qualche bomba,  su  un politico  in  costume da Hitler,  magari,  per poi scoprire che si trattava soltanto di  una festa  mascherata.  Sicché, il Presidente Usa,  a sua volta,  potrebbe  scusarsi, asserendo,  che le bombe erano  per il bene dell'umanità e che  non poteva assolutamente aspettare conferme sul fatto che si trattasse di un party o di un risveglio neo nazista...  A parte gli scherzi, gli elementi per immaginare una guerra mondiale ci sono tutti, ma sarà solo una guerra di bombe? O come ritiene  Giulietto Chiesa (2),  una guerra figlia di un epoca in cui si svela che la crescita non è più infinita? Insomma,  sarà solo una guerra-guerra o anche una guerra climatica, ambientale, energetica, demografica, alimentare, religiosa, di valori, sessuale eccetera?
In quest'ultimo caso,  sarebbe bene, allora,  che il buon Francesco (Papa) si decidesse a  promuovere il francescanesimo spirituale, mentre i Movimenti, a loro volta, il francescanesimo politico/economico/sociale. Penso ai  Movimenti, perché di certo i partiti  rischiano di soffrire  (e non poco),  perdendo adesioni e credibilità.  E se invece le cose non stessero così?  Casaleggio,  avrà  visto giusto?  Chi lo sa. Vedremo.
Di fatto,  ogni vero imprenditore è un sognatore e per questo, a volte, è  considerato anche un po' folle se non addirittura pazzo. Il che però rappresenta  anche un rischio:  se  la sua follia imprenditoriale divenisse una dottrina stimolatrice di un fanatismo globale? Legge e vangelo da seguire alla lettera?
Probabilmente Casaleggio ha più potere da morto che da vivo, come tanti altri “santi"  ha ispirato un nuovo modello di pensiero che va ben al di là della democrazia della rete o dell'anticapitalismo. Un pensiero che è un tassello importante per la costruzione di questo famoso Nuovo Ordine Mondiale (che a quanto pare,  non è l’ argomento preferito del solo universo complottista):  progetto di cui  tutti parlano da anni, forse troppo, che tuttavia  nessuno scorge  delinearsi all’orizzonte.
Forse,  a mio umile avviso, il cambio di un' epoca, finirà per svolgersi  in tempi talmente rapidi e violenti da sconvolgere tutta l'umanità.  E qui probabilmente  dovremmo  fare  un esame di coscienza sul potere, forse troppo,  che noi tutti, compreso Casaleggio, abbiano conferito alla rete. Non solo: dovremmo anche abituarci alle rinunce,  perché più si  andrà avanti, più i cambiamenti saranno velocissimi e solo le nuove generazioni -  anzi, solo parte di esse -  ne sapranno approfittare o almeno conviverci.
Allora cosa fare? FARE. Ecco cosa bisogna fare: FARE, Ma anche saper fare. Ognuno deve fare qualcosa, nessuno può esimersi. E ognuno deve fare ciò che sa fare al meglio. Non basta criticare, non basta studiare, commentare, accusare e giudicare. Bisogna fare azioni. Non cedere a sconforto o depressioni e imporsi su chi fare non sa. Smascherare millantatori e manipolatori.  
Concludendo,  non è più accettabile stare dietro le finestre e attendere, ognuno ha una propria responsabilità civile e morale. Ognuno deve esserci. Nessuno può più scappare o trovare rifugio sotto le ali dell'indottrinatore di turno alla ricerca della verità assoluta,  perché, come dicevo, il pericolo  è che  l'uomo è in grado di inventarle le verità.  Fino  al punto di crederci in prima persona.

Fabrizio Borni


(1) Alberto Di Majo,  Casaleggio - Il grillo parlante,  Editori Riuniti  2013.
(2) Giulietto Chiesa, Invece della catastrofe. Perché costruire un’alternativa è ormai indispensabile,  Piemme 2013.


Fabrizio Borni, manager, docente, scrittore,  presidente dell'Anpoe  (Associazione Nazionale Professionale tra Produttori e Organizzatori di Eventi -  http://www.anpoe.it/ ).  Qui le sue recenti pubblicazioni: http://www.lafeltrinelli.it/libri/fabrizio-borni/1052864

lunedì 17 aprile 2017

Referendum in Turchia, vince Erdogan di misura
Dopo di lui,  il diluvio?





Sul referendum turco il massimo della stupidità mediatica  è rappresentato da quei  titoli,  dove con stupore,  si parla di una Turchia  divisa  sul 51 per cento di Sì alla riforma Erdogan. Insomma,  come di un evento inaspettato.
Di regola, i  referendum sono "divisivi" (51 per cento) o plebiscitari (100 per cento dei voti): si chiama democrazia diretta. Molto amata dai dittatori, o aspiranti tali, perché se  perdono, ricorrono alla forza, se vincono, si beano del consenso del  popolo bue.  I referendum sono l'extrema ratio della democrazia.  Spesso la nemesi.  Cautela, quindi.  E soprattutto, ripetiamo, non è il caso di stupirsi.
In effetti, il "presidenzialismo", approvato ieri, conferisce a Erdogan ( nonché a chi gli succederà, attenzione)  poteri quasi assoluti.  Però il vero problema -  la costante della politica turca  sfuggita a molti osservatori occidentali -  è costituito dal totale ridimensionamento del ruolo dei militari. Un processo concretizzatosi in particolare nel referendum del 2010 (dove, per la cronaca,  i Sì furono  il 58 per cento): voto che ridusse, fino a renderli puramente formali, i poteri del Consiglio di Sicurezza Nazionale.  Un' istituzione, concepita  da Mustafa Kemal ( per tutti Atatürk, ossia  "Padre dei Turchi"), attraverso la quale i militari, quando necessario,  potevano intervenire in difesa  della laicità dello stato: il lascito politico di Atatürk, vero rivoluzionario, certamente nazionalista (quindi con dei limiti, eccetera), ma  grande modernizzatore della società turca.   
Pertanto, la vera svolta risale al 2010. E con il voto di ieri Erdogan  rimane l’unico uomo al comando. Dopo di lui?  Ecco il punto.  Il diluvio?  Islamista?

Carlo Gambescia