mercoledì 30 aprile 2014

  Non convince  la tesi  di  Alan Rusbridger  
L’informazione non  è  un  “servizio pubblico” 





Quanto  stiamo per dire  è  politicamente scorretto, soprattutto sulla Rete, così persa dietro all’idea di un giornalismo esclusivamente teso a scoprire chissà quali complotti e verità insabbiate.  Insomma,  non convince l’idea del giornalismo come servizio pubblico. Facciamo però un passo indietro. Che cosa si intende con questa espressione?  Lasciamo parola al direttore di  "The Guardian",  Alan Rusbridger (nella foto), giornale al quale si deve la diffusione delle prime informazioni  fornite dalla talpa Edward Snowden:  brillante “operazione giornalistica”  che si è  conclusa con l’assegnazione del Premio Pulitzer al quotidiano britannico.

«La cosa che mi ha fatto piacere è stata che il premio è stato assegnato per il servizio pubblico - spiega Rusbridger -, riguardava qualcosa che andava oltre il giornalismo. Il servizio pubblico è proprio quello che voleva Snowden: rivelare qualcosa che era ed è tuttora invisibile alla maggior parte delle persone. Credo però che anche Obama e i servizi segreti abbiano compreso che intrusioni nella vita privata di quella portata possono essere realizzate solo con il consenso e un preventivo dibattito».

Ora,  cosa  c’entra la produzione e diffusione di notizie con la produzione e diffusione di beni pubblici come ad  esempio l’acqua e l’energia elettrica?  Anche l’informazione è un bene pubblico?  Nel senso di svelare verità nascoste ai più, come afferma Rusbridger? Oppure, si tratta, più crudamente  di veicolare, di volta in volta,  idee politiche di parte, quindi gradite a pochi  per imporle a molti?
In questo mondo - almeno in questo mondo -  non esiste alcuna verità:  esistono solo opinioni differenti, sempre dettate da ragioni ideologiche. Anche chi scrive questo post ha le proprie opinioni.  Ma  nobilitarne una, usando termini altisonanti, come fa Rusbridger  non è corretto,  né sotto il profilo argomentativo, né sotto quello morale.  Perché si inganna la gente.           
Insomma,  l’idea di servizio pubblico - ammesso che sia valida in sé, ma questa è un’altra storia… - sarebbe  meglio riservarla per altri ambiti,  meno ideologicamente  manipolabili.  Anche perché, per dirla con Karl Kraus, «i giornali hanno con la vita all’incirca  lo stesso rapporto che hanno le cartomanti con la metafisica». 


   Carlo Gambescia                        

martedì 29 aprile 2014

L’evasione di Filippo De Cristofaro
I rischi del diritto buonista



Ogni  volta  che in occasione di una licenza premio  un  condannato,  magari  all’ergastolo,  evade,  come nel caso di Filippo De Cristofaro(*),  si comincia subito a discutere sulle ragioni della concessione a un pericoloso assassino  di  bonus penali. 
In realtà, se si vuole uscire dal chiacchiericcio mediatico, va subito detto che  assistiamo  al conflitto tra  l’antichissima legge del taglione, che non prevede sconti (anzi…)  e il diritto penale moderno, intriso di legalità e buone intenzioni.  In qualche misura, semplificando, si può scorgere, come in un laboratorio sociale, lo scontro fra due mentalità socioculturali:  da un lato  la  società  "cattivista",  dall’altro  le leggi  "buoniste".
Cosa vogliamo dire? Che, se diamo retta  ai sondaggi d’opinione,  la gente comune  chiede  legge e ordine a ogni costo,  senza farsi tanti problemi morali  per  la sorte dei colpevoli.  Per contro, le leggi  penali, opera della parte meno comune della popolazione, quella più istruita e per così dire  “illuminata”,  alla giusta  necessità  di un’ordinata convivenza sociale,  affiancano il dovere morale di recuperare socialmente il condannato, anche attraverso la  licenza premio, strumento di reinserimento per eccellenza, almeno secondo i manuali di sociologia penale.  Di qui però, lo scontro tra i "buonisti" (pochi) e i "cattivisti" (molti).
Un conflitto favorito anche da  tre  fattori o concause  : a) la  natura astratta  e generale  del diritto  moderno ( ad esempio,  le licenze premio, se si hanno certi requisiti generali,   spettano anche a chi abbia commesso il più odioso dei delitti);  b) la tendenza emulativa  di giudici, magistrati, operatori sociali a interpretare   le leggi penali in chiave  permissiva, perché così impone la retorica  pubblica dell’ “uomo illuminato”; c) le lentezze e i buchi operativi  di una burocrazia, che rappresenta l'imprescindibile braccio secolare, anche nell’ambito dell’organizzazione giudiziaria,  dello stato moderno.
Che fare?  Sulla burocrazia si potrebbe intervenire… Quanto al resto, come abbiamo visto, si tratta di visioni e mentalità profondamente differenti. Insomma,  di  questioni molto profonde.   Tuttavia, indietro non si può tornare, scambiando la giustizia con la vendetta o peggio ancora  con la faida.  Di qui, la necessità di accettare, piaccia o meno,  i rischi  del  diritto buonista. Che, è bene non dimenticarlo mai,  si basa sul fondamentale  principio dell’uguaglianza di tutti cittadini davanti alla legge.  Uguaglianza (di trattamento)  che qualche volta può andare a favore di chi delinque. 

Carlo Gambescia

                                                   



lunedì 28 aprile 2014

Roncalli e  Wojtyla:  la  Chiesa cattolica ha due nuovi santi
A proposito di santità…




La  santità è un oggetto misterioso… In sé indefinibile.  Tuttavia,  dal punto di vista  della ricaduta sociale,  la si può intendere  in due modi. 
La santità  come improvvisa  irruzione del divino nella storia,  che sceglie un uomo e lo trasfigura spiritualmente.  Il che rinvia a una visione  religiosa della realtà, nel senso che il reale viene a dipendere dall’ideale.  È il miracolo che fa il santo… Di qui, il ruolo determinante di Dio.
La santità come  portato della bontà umana, elevata all’ ennesima potenza. Quindi non c’è nessuna trasfigurazione spirituale.  Anzi siamo davanti a un’ elevazione dell’uomo in quanto uomo.  In questo senso è l’ideale che dipende dal reale.  Il santo non ha bisogno di fare miracoli, e in fondo neppure di Dio, bensì solo di manifestare la  propria umana bontà.
Naturalmente, spesso le due concezioni si trovano mescolate insieme, magari con l’ accento ideologicamente spostato ora verso la figura di Dio,  ora  dell’Uomo.
Pertanto, come oggi si legge, per alcuni osservatori  i  santi, proclamati ieri,  sono solo  uomini eccezionali, consacratisi interamente agli  uomini.   Invece  per altri  sono esseri vicini a Dio e a Lui consacrati.  Insomma, tra le due visioni esiste una bella differenza. Per  larga parte degli ottocentomila fedeli giunti a Roma i nuovi  santi  sono la punta di diamante della fede in Dio. Mentre  per gli editorialisti laici e l'opinione pubblica di stampo secolare,  Dio, con la santità,  non c'entra proprio nulla.  Il che però spiega perché  Papa Francesco, per non scontentare nessuno,  nella sua omelia di canonizzazione,  ha   definito  Roncalli e Wojtyla,  «uomini coraggiosi»  che hanno  dato « testimonianza  alla Chiesa e al mondo, della bontà di Dio e della sua misericordia» (*).  
Ma spiega anche un’altra cosa, la grande capacità della Chiesa di andare oltre gli schemi.  Detto altrimenti: di  mediare tra posizioni differenti  per giungere a una sintesi.  E questo forse, oltre agli "aiutini"  dall’Alto,  spiega  la longevità della Chiesa cattolica, storico impasto,  come ogni altra istituzione, di  credenze  e  realismo politico. 
Carlo Gambescia


lunedì 14 aprile 2014

Comunicato Stampa

Sospensione temporanea  per “attacco pirata”


 Cari  Lettori,

Colgo la gentile possibilità che mi è offerta dal Sito Arianna Editrice (http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=48175 ) per segnalare che nei prossimi giorni non potrò  pubblicare alcun post sul mio blog:   http://carlogambesciametapolitics.blogspot.it/    .
Purtroppo, venerdì scorso,  la mia pagina  blogspot.it  ha subito un attacco informatico da parte di pirati,  prontamente denunciati alla Polizia Postale,  i quali al confronto intellettuale sembrano aver preferito lo squadrismo telematico.  


Però non importa,  ho  spalle forti.  E quel  che  più conta,  confido nella legge, ho buoni legali e cari amici, preparatissimi in campo informatico, che hanno  dato prova, anche in questa occasione,   di essere capaci , come dire, di leggere tra le righe…          
Quindi, come nei film a lieto fine, i cattivi verranno puniti. Insomma,   quanto prima  tornerete  a leggermi.
Con i miei più cari saluti (ovviamente non agli squadristi che, in fondo,  compiango).

Carlo Gambescia

P.S.
Colgo l’occasione  per scusarmi pubblicamente -  visto che purtroppo la missiva  era a mio nome -   con tutti coloro che hanno ricevuto una improbabile email,  nella quale chiedevo soldi, addirittura da Liverpool… Ovviamente non era opera mia, ma dei  teppisti di cui sopra.  (c.g.)  
            


venerdì 11 aprile 2014

I pro e i contro del giovanilismo
 Il cinquantenne dove lo metto? 
di Carlo Pompei






Trenta anni fa ero giovane anche io, ma nessuno mi fece largo.
Mi guadagnai un posto da solo, perché i cinquantenni, se non sapevi fare qualcosa, non ci pensavano neanche lontanamente a farsi carico di uno zaino vuoto, ma pesante.
Gente tosta i cinquantenni di trenta anni fa, avevano conosciuto la fame, la guerra, la cooperazione, il boom economico, il benessere, la famiglia "mamma a casa con i bambini e papà al lavoro".
Sono considerati cavernicoli dalle nuove generazioni che pensano di avere il mondo in mano soltanto perché hanno uno smartphone.
Leggo ovunque  che bisogna lasciare spazio ai neo laureati, ai felici detentori di un master, che perlopiù rappresentano la prole dei non proletari.
Vi si accende una lampadina?
No?
Ci penso io.
Generalmente un "bravo" neolaureato ha 25 anni ed è figlio di una famiglia benestante o figlio unico di una famiglia borghese.
In entrambi i casi sa come funziona un'azienda esattamente come una casalinga saprebbe costruire una lavatrice.
Un rampollo, infatti, raramente "conduce" l'azienda paterna, più spesso la "usa" per potersi mantenere un tenore di vita elevato (ecco perché spuntano tutti questi manager strapagati).
Quando acquistate un oggetto trovate il libretto di uso e piccola manutenzione ordinaria (user manual) oppure le indicazioni per scaricarlo da internet in formato pdf. Non trovate mai il libretto di manutenzione straordinaria (service manual), che trovate su internet sempre in pdf, ma di solito con download a pagamento.
Bene, quasi tutti i giovani con i quali ho parlato usano gli oggetti, talvolta anche male, pochissimi si interessano al loro funzionamento.
Intendo dire che non soltanto non aprono il cofano se gli si ferma l'automobile, ma neanche chiamano il soccorso stradale: chiamano i genitori affinché questi provvedano ad allertare chi di dovere o di lavoro. 
Si bloccano a constatare l'effetto o, nella migliore delle ipotesi, quando individuano la causa, non hanno alcuna idea di come risolverla.
Tutti bravissimi a scaricare app e driver, tutti incapaci con un giravite in mano, si potrebbe sintetizzare.
I figli sono felicemente deresponsabilizzati e i genitori sono contenti di essere ancora utili a qualcosa. Non va, proprio non va.
Questa società è basata sul precario equilibrio e camminiamo, anzi, corriamo tutti sul filo del rasoio: blade runner.
Ovviamente qualche eccezione c'è ed è anche di livello, ma è triste constatare che i pionieri dell'informatica erano in numero maggiore e più motivati della gran massa di decerebrati da touch screen di oggi.
Non mi ricordo di aver mai chiesto come si facesse qualcosa senza aver prima tentato di farla da solo, sia che si trattasse di cucinare un piatto di pasta, sostituire una ruota bucata o montare un hard disk.
Ieri ho ricontrollato i miei versamenti all'Inps: trenta anni fa sarei andato in pensione, oggi, alla soglia dei cinquanta anni, devo reinventarmi un lavoro da zero.
E non sono l'unico.
Largo ai giovani, a morte tutti gli altri...

Carlo Pompei

Carlo Pompei, classe 1966, “Romano de Roma”. Appena nato, non sapendo ancora né leggere, né scrivere, cominciò improvvisamente a disegnare. Oggi, si divide tra grafica, impaginazione, scrittura, illustrazione, informatica, insegnamento ed… ebanisteria “entry level”.


giovedì 10 aprile 2014

Il libro della settimana: Jerónimo Molina Cano, Contra el “mito Carl Schmitt”, Edit.um/Ediciones de la Universidad de Murcia, Murcia 2014, pp. 232, euro 20,00. 






Eccellente idea,  quella di  Jerónimo Molina Cano, professore di Politica Social  presso l’Università  di Murcia,   di raccogliere  in volume  i  suoi  studi  più significativi  dedicati a  Carl Schmitt,   apparsi  negli ultimi dieci anni  su  prestigiose  riviste e  importanti  raccolte di atti  congressuali.  Non siamo però davanti a  una pura e semplice riproposizione, perché  alcuni  dei  lavori pubblicati (inclusi i documenti) sono stati rivisti e aumentati,  inoltre uno dei saggi  è inedito (La jornada dálmata de Carl Schmitt: terra manet)
Il titolo è tutto un programma: Contra “el mito Carlo Schmitt” (Edit.um/Ediciones de la Universidad de Murcia), dal momento che  la fortuna ( molto alterna)  del pensatore di  Plettenberg   rappresenta il filo conduttore di un libro che in qualche misura si è scritto da solo. Infatti, come  rileva  Molina,

“sous l’oeil de Maschkiavelli, M. Stakhanov et l’écureuil de Flandre [Günther Maschke, Alain de Benoist, Piet Tommissen, massimi studiosi del pensiero schmittiano, ai quali è il libro è dedicato, ndr], , est todo lo contrario a una simple collección de textos y a una suma accidentale de artículos, pues todos sus capítulos se ordenan a partir de una pocas ideas directoras. Fragmentario, pero non espontáneo ni improvisado, dunque tengo la impresíon de que le he escrito sin sentir. No diré que se ha echo solo, pero hasta fechas recincentes no he tenido cosciencia del vínculo que une todos los textos, la mayor parte de los míos  publicados sobre Carl Schmitt desde año 2004 [...].  Todos  [...] responden a la  misma originaria incitación: ni terminar con Carl Schmitt, ni acabar con él, ni sugerir siquiera qué hacer con él,  sino a distanciarme de mito Carl Schmitt, que es algo muy distinto  » (p. 11).

Passiamo ora  in rassegna, seppure velocemente,  i dodici saggi e/o capitoli in cui si divide il libro.    
Nel  Primo (El “Mito Carl Schmitt”),  sono esaminate una grande varietà di questioni: dalla neutralizzazione del pensiero schmittiano alla sua strumentalizzazione,  allargando  l'indagine  al  cammino, non sempre facile dello studioso tedesco  in Spagna, Italia, Francia.   Il “mito”, ottimamente sezionato e smascherato,  è quello del  giurista luciferino divenuto primo consigliere giuridico di uno spietato  barbaro teutonico nemico degli uomini e delle leggi.   In realtà, come adombra Molina,   il  grande "cervello" politico di Schmitt  era  imprigionato  in  un piccolo  "corpo"   borghese (come, in modo non casuale, evidenzia  la foto di copertina, che lo immortala compiaciuto padrone di casa).  E quindi portato a privilegiare l’idea di ordine.  Assecondare, magari con il silenzio,  non significa però condividere tutto,  né tanto meno  sedersi alla destra del "padre". Come del resto, alla fine, compresero anche  i vincitori  americani.  Certo, se  lo avessero catturato i sovietici...      
Nel secondo, brevissimo, (Antischmittscher Affekt),  si studia quel  che potrebbe essere  definito  il senso di colpa dei critici di Schmitt:  i quali criticandone  i compromessi politici  di ieri  sperano, per riflesso,  di  occultare le  proprie complicità con il potere di oggi.  Perciò  siamo davanti a una specie di  legge del taglione... intellettuale.
Nel terzo ( Sombra y  fama de Carl Schmitt en  España), si affronta l’influenza, mai  senza contrasti, incomprensioni, strumentalizzazioni, censure,  del pensatore tedesco in una terra come quella spagnola al centro  di un infuocatissimo Novecento.  Tra l’altro da lui amata, senza però essere mai ricambiato del tutto.  Un bellissimo (o bruttissimo, dipende dalla posizione ideologica)  capitolo di storia  delle debolezze umane.
Nel quarto (Más sobre el “mito Carl Schmitt”),  si torna, come dire,  sul pensiero unico anti-Schmitt, dando però conto di un importante  libro a lui dedicato, quello di Carmelo Jiménez Segado, Contrarrevolucíon o resistencia. La teoría política de Carl Schmitt (1988-1985), apparso nel 2009, dove si affronta, tra l’altro, la famosa controversia intorno al suo cattolicesimo politico.  Cattolicesimo che Molina,  diversamente da  Jiménez Segado,  ritiene assuma nel pensatore tedesco una valenza prettamente  politica e sociologica (non teologica). E  nella misura classica  di una Chiesa  quale strumento di controllo sociale:  posizione che rinvia a  Machiavelli e Pareto, con la differenza però,  che  Schmitt  era credente.     
Nei successivi capitoli  sono pubblicati e discussi  i carteggi   di Schmitt con  Francisco Javier Conde (capitolo quinto), con Jesús F. Fueyo (capitolo sesto), Pedro Salinas (capitolo  settimo). Inutile ricordare la ricchezza delle questioni affrontate negli epistolari  (politiche, sociologiche, culturali, ecc.) con tre intellettuali (in particolare Conde) di eccezionale levatura.  Il che fa  riflettere sulla capacità di certo pensiero spagnolo non conformista, al di là dei luoghi comuni sulla passata decadenza, di  essere sempre riuscito a captare  le correnti più vive del pensiero politico e culturale.  Non ultima l’opera di Carl Schmitt. Perciò,  altro che chiusure...
Nel capitolo otto  (Los diarios de Carl Schmitt, 1930-1934 ), ci si occupa di un quadriennio decisivo per capire come Schmitt, uomo d’ordine (mai dimenticarlo),  fosse  consapevole  di un gioco che poi  si sarebbe fatto pericoloso e costoso ( fino alla reclusione  nelle prigioni alleate).  Parliamo di un periodo in cui il giurista  -  forse  illudendosi  domatore? -   provò a  infilare, come si fa  durante uno spettacolo circense,  la sua testa nella bocca del leone hitleriano.  Un  circo, quello nazionalsocialista, dai risvolti  tragici.  Probabilmente Schmitt lo aveva intuito subito. Eppure...  On s'engage, puis on voit? Come sottolinea Molina.  Forse.   
Nel capitolo nove (Carl Schmitt y los intelecuales franceses),  si indaga sulla fortuna francese del pensatore di Plettenberg,  discutendo il libro in argomento  di  P. Muller ( Carl Schmitt et les intellectuels français. La réception de Carl Schmitt en France, apparso nel 2003), testo nel quale si evidenzia, e giustamente secondo Molina,  il ruolo di Julien Freund, come "riscopritore" del pensiero schmittiano, “avvocato difensore” del tedesco e mediatore tra Schmitt e Aron. Un bel  momento di storia intellettuale franco-tedesca. Senza, ovviamente,  dimenticare il gigantesco  lavoro svolto da Alain de Benoist, che fa il paio, ma in Germania, con la sontuosa ricerca di  Günther Maschke,  insieme alla quale  va ricordata, per le Fiandre, la grande opera investigativa  intrapresa dal compianto  Piet Tommissen.  Potremmo così  parlare dei quattro moschettieri della critica schmittiana.  E il quinto potrebbe essere proprio Molina,  il più giovane di tutti.
Nel capitolo decimo (Carl Schmitt y la componente telúrica),  Molina in modo eccellente, diremmo da virtuoso delle scienze politiche,  evidenzia  il grande realismo,  quasi terragno, per dirla all'italiana,  del pensiero schmittiano. A cosa ci  si riferisce?  Al fattore  tellurico, che è geografico  e politico al tempo stesso; elemento che  riconduce, facendo da trait d'union, alle idee di  ordine  concreto  e grande spazio.  La terra vince sul pensiero,  facendosi forte dei legami dell’uomo con le cose concrete,  ma a sua volta deve contrastare le forze dello spazio acquatico e  in seguito aereo.  La sfida è gigantesca e Schmitt ne sarà sempre consapevole.  Di qui, la concretezza del suo pensiero, lontanissima  - riteniamo  -  dalle fumosità  di alcune interpretazioni italiane, dove il gusto per simbolismi astratti finisce per stravolgere il senso stesso della lezione schmittiana.   

Chiudono degnamente il libro i capitoli undici (La jornada dálmata de Carl Schmitt: terra manet) e dodici (Mientras perdure el imperio), intenzionalmente posti alla fine del libro (almeno crediamo…), perché in qualche misura  condensano   tutte le questioni in precedenza affrontate: fortuna della sua opera,  concretezza di pensiero, rapporti con il nazionalsocialismo, nonché quel senso di profonda malinconia che sembra pervadere l’intera  opera di Carl Schmitt, anche nei momenti, come dire, di apparente euforia "circense"...   Tristezza dettata dalla consapevolezza  che non si può  sfuggire alla leggi del politico?  Forse.   Il che però non impedì a  Schmitt di impegnarsi politicamente,  incamminandosi, anche se per un breve tratto,  lungo il  sentiero  sbagliato…  Scelta che  in qualche misura rappresenta, e fa parte,  del  “mistero”, tutto interiore, racchiuso nello spirito e nella  psiche di  Carl Schmitt.
Mistero sul quale  il libro di Jerónimo Molina,  pur non dando risposte definitive (ma quale libro potrà  mai darle?),  apre  interessanti,  diremmo intriganti,   squarci di luce. E anche per questo motivo va letto.   



Carlo Gambescia

martedì 8 aprile 2014

Berlusconi, Alfano & Co.
La crisi della destra



La politica si vendica sempre, non ammette fallimenti.  Segue la logica del pendolo. Qualche esempio?  Ne abbiamo uno sotto gli occhi:  Renzi sta portando avanti,  ovviamente con accorgimenti di sinistra,  tagli e riforme  che Berlusconi, da destra,   non ha mai avuto il coraggio di porre in atto,  nonostante le  diuturne  evocazioni  della  mitica rivoluzione liberale,  perfino ora dal Bunker di Arcore. 
Del resto quali erano le sue truppe? Ex democristiani di centro e destra,  ex neofascisti, ex socialisti craxiani… Un esercito di ex, molto  scombinato,  che, pur prendendo montagne di voti,   si è sempre  ben guardato dal  favorire  la  riforma  liberale  della  società italiana. E per varie  ragioni.  In particolare una, di fondo, ideologica:  per tradizione,  socialisti,  democristiani e fascisti (per non parlare della Lega, forza politica protestataria e  populista) non potevano avere  (e non hanno)  una visione liberale della politica. Di qui, una destra all’italiana che di fatto - al di là degli slogan berlusconiani  -   ha difeso lo Stato-Provvidenza , le imprese pubbliche e partecipate,  mantenuto elevate  le tasse, non riformato la Costituzione catto-socialista e il regionalismo partitocratico, subíto il sindacato  eccetera, eccetera.
Sicché, ora,  le riforme -  visto che in politica il vuoto (del fallimento) non esiste -    le sta facendo Renzi.  Di conseguenza,   la destra, scavalcata e profondamente divisa,  non sa più che pesci pigliare:  Berlusconi gira a vuoto, Alfano insegue con il fiato grosso Renzi,  gli ex aennini  giocano al Front National.  E così via.      
Ma, come ricorda il proverbio, colui che  è causa del suo male pianga se stesso. Dispiace per gli elettori, soprattutto quelli potenziali, probabilmente  liberali  senza saperlo…

Carlo Gambescia


lunedì 7 aprile 2014

Il pauperismo 
di Papa Francesco 



 Il futuro Papa Francesco, in metropolitana

«Questo è il cuore del Vangelo, io sono credente in Dio e in Gesù Cristo, per me il cuore del Vangelo è nei poveri. Ho sentito due mesi fa che una persona ha detto: con questo parlare dei poveri, questo Papa è un comunista! No questa è una bandiera del Vangelo, la povertà senza ideologia, i poveri sono al centro del Vangelo di Gesù» (*) .

  

Cosa dire? Che di  sicuro  Papa Francesco sembra essere un convinto  pauperista.   Del resto   il Santo  Padre, per sua stessa ammissione,   taglia  la società in due precise classi: da un lato i poveri, dall’altro i ricchi. Il che se non è comunismo è qualcosa che ne prepara  il terreno,  rischiando di provocare  gravi  fraintendimenti sociali  e pericolose incomprensioni politiche.
Non siamo teologi,  né aspiriamo ad insegnare al Papa come fare il suo "mestiere",  ci mancherebbe altro... Tuttavia,  la scelta pauperista  - che, in quanto ideale evangelico,  ha sempre  raccolto nella storia del cristianesimo un certo  seguito -   indica due cose:  che per un verso il  nemico  è la povertà e che  per l’altro  divengono  nemici, addirittura della fede,  coloro che  ne sarebbero la causa... Usiamo il condizionale perché l'economia moderna sostiene (e prova)  l'esatto contrario,  dal  momento che la ricchezza, prodotta dal sistema capitalistico -  quindi da individui dotati di spirito imprenditoriale -   sembra invece  ricadere  a cascata su tutta la società.  In sintesi, il pauperismo è  una visione arcaica che si ostina a ignorare l'importanza del  moderno  progresso politico, economico e sociale insito nello sviluppo della società di mercato.   
Tre riflessioni. 
Le  affermazioni di Papa Francesco devono  servire di  lezione  a tutti  coloro che negano  il politico, quale incarnazione della costante amico-nemico:  la scelta del Papa di un nemico (la povertà e coloro che la provocano),  comprova la persistenza di una regola "metapolitica" (come ci piace chiamarla), anche all’interno di una istituzione - la Chiesa -  che invece, secondo gli idealisti della politica, dovrebbe esserne indenne.
In secondo luogo, l’indeterminatezza   del concetto di  pauperismo -  come del  suo contrario, quello di plutocrazia -  rende difficile fissare una chiara linea di divisione  tra chi ha e chi  non ha,   soprattutto nelle nostre  società  di ceti medi, dove  il benessere, come valore e fatto,   è largamente diffuso, condiviso, ricercato.
Cosicché, in terzo luogo,  è difficile  che la povertà,  soprattutto tra i nemici del capitalismo  (in tutte le sue forme), una volta idealizzata, possa  restare  a lungo  «senza ideologia»…  Ciò,  per contro,  non significa che i  poveri  debbano essere cinicamente abbandonati al loro destino, né approvare l'impunibilità della ricchezza,  quando  esito di  attività illegali e criminali.   
Tuttavia, una cosa è asserire il dovere etico  di  aiutare  i poveri, un’altra designare tutti coloro che non sono poveri  come nemici politici,  facendo di ogni erba un fascio. E quel che è peggio, rischiando di  favorire  il gioco di una terribile  ideologia, il comunismo,  che, come prova la storia del Novecento, ha invece moltiplicato, nell’assoluta mancanza di libertà,  fame e miseria.   
Papa Francesco vuole tutto  questo?  

Carlo Gambescia 


(*) 
Così Papa Francesco a un gruppo di giovani  belgi di lingua fiamminga  -  http://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2014/04/04/-papa-domenica-allangelus-vangelo-tascabile-ai-fedeli_0bce9427-3d10-4f45-97ae-98829571cdd6.html) .


mercoledì 2 aprile 2014

Il libro della settimana: Giovanni Sessa, La meraviglia del nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo, pref. di Romano Gasparotti, in appendiceL’eternità si può amare solo sotto forma di presenza, (Quaderno n. 122, 1951 13-XI),   Bietti, Milano 2014, pp. 420, euro 22,00,http://www.edizionibietti.it/index.asp?Id=CAT  .




Il  libro di Giovanni Sessa, La meraviglia del nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo,  (Bietti), a prima vista potrebbe essere suddiviso in due testi: il primo, uno studio critico-interpretativo di taglio accademico dell’opera  di Andrea Emo (1901-1983), il secondo,  un tentativo di ricondurre il pensiero  del solitario filosofo veneto, mai pubblicato in vita, nell’alveo di un progetto postliberale o antiliberale (sul perché della congiunzione disgiuntiva  torneremo nella chiusa).
A dire il vero, sugli aspetti ermeneutici e sui  meriti scientifici del libro, il  giudizio introduttivo  di  Romano  Gasparotti è più che positivo. Se non che il prefatore  sembra nutrire la stessa sfiducia di Sessa  nei riguardi della «democrazia liberale»:  «La più totalizzante e alienante forma contemporanea di super-stitio ( alla lettera)» (p. 19). Un  minimo comune  denominatore  ideologico, ovviamente inclusivo  anche di  Emo ( comune  “oggetto del desiderio” epistemico ), che  rende  molto difficile  giudicare un’opera  che può essere apprezzata soltanto da  chi ne  condivida  il presupposto progettuale. 
Cosa dire allora del pur elevato profilo teoretico del volume?  Che indubbiamente si avverte. Tuttavia,  il vero punto della questione  è che il libro di Sessa risente di uno squilibrio strutturale dal punto di vista argomentativo. Il  che non lo rende recensibile,  se non dall’interno, fatti salvi  i sempre possibili  dissidi tra le varie tribù culturali della destra post-missina,  composito universo cui  La meraviglia del nulla  sembra comunque  rivolgersi.  Ma a noi - per dirla franca -   non interessa interpretare il ruolo del chiosatore,  cortese o scortese che sia…  
Sicché,  pur apprezzando lo sforzo di un autore che stimiamo, una volta  finita la lettura,  non  abbiamo potuto non scuotere la testa  dinanzi  a un libro non riuscito: un  ibrido. O per meglio dire,  un  volume incongruente  in cui  mal  si accordano gramscismo  culturale e  monografismo accademico.
Per un verso (il gramscismo), si indicano le possibili linee di inserimento dell’opera di Emo all’interno della cosiddetta  ideologia italiana:  araba fenice cultural-filosofica  che ha viziato,  fin dal Risorgimento, il dibattito politico. E qui, la lista dei duellanti, animati tra l'altro della stessa forma mentis costruttivista, è piuttosto  lunga e segnata da un progressivo incrudelimento.  Si pensi nell'ordine ai conflitti   tra partito moderato e partito d’azione, tra anti-interventisti e  interventisti, tra fascisti e antifascisti.
Per altro verso (il monografismo accademico),  ci  si  muove all’interno di  una sofisticata rilettura  à la  Cacciari  (ma  ricca di sanguigne e robuste contaminazioni  evoliane  e  debenoistiane)  della storia della  filosofia,  in  cerca -  semplificando -  di una   terza via gnoseologica tra ragione e antiragione: tematica  euristicamente assai  cara all’accademia postilluminista del  Lombardo-Veneto, se ci si passa la battuta,   tutta Kasa e Krisi. E della quale Emo sarebbe, dal punto di vista teoretico,  l’ultimo  re  novecentesco dormiente.
Si dirà, che male c’è?  Giusto. Ma allora si doveva  fare un libro dichiaratamente politico, perché ad esempio capitoli come “Il Transattualismo di Andrea Emo” o “ Cristo e/o Dioniso”, altamente  specialistici,  non possono incontrare il favore di un pubblico dal palato grosso,  che si pretende  invece di egemonizzare  o catechizzare, puntando  sul valore catartico di una presunta ideologia italiana:  i "catechismi" politici impongono parole d’ordine  non  ragionamenti, più o meno sottili. Oppure, si doveva scrivere un libro  totalmente accademico, di filosofia teoretica,  perché  capitoli come  “Un imperdonabile” e “L’antimodernismo di  Emo"  non possono non  scontentare  il lettore dal  palato sottile, abituato a raffinate inferenze logiche e comparazioni genealogiche più profonde.  Insomma, non possiamo non  rilevare - ripetiamo - uno squilibrio di struttura  argomentativa, che però consente alle motivazioni ideologiche di contaminare e prevalere su quelle conoscitive. Obiettivo  intenzionale? Non intenzionale?  Non ci interessa scoprirlo.  Sappiamo soltanto che si è combinato  un  bel pasticcio:  da una parte  si  toccano le vette della filosofia teoretica, analizzando «L’Atto da  Aristotele a Gentile» (pp. 88-91),  dall’ altra si  precipita  nelle paludi del cospirazionismo formato Rete, taggando,  per così dire,  i   «potentati trans-nazionali» (p. 299) e la fin troppo cliccata «espropriazione della sovranità popolare» in Italia e Grecia (p. 248)... Retorica,  politicamente parlando,  da Fratelli d'Italia e Lega Nord...         
Di qui, il nostro rifiuto, come dicevamo,  di interpretare il ruolo del chiosatore cortese o scortese. Anche se,  a  dirla tutta,   infastidisce la confusione concettuale tra liberalismo e democrazia che pervade l'intero  libro. Non si capisce bene se imputabile al pensiero di  Emo o all’interpretazione  di Sessa.  Più probabilmente - riteniamo - a tutti e due.   Il che rinvia a un vecchio problema, per metterla sull’ideologico: quello dell’antiliberalismo, duro e puro,  dei movimenti fascisti e  neofascisti. 
In particolare,  questi ultimi - che oggi  si autodefiniscono, per alcuni giustamente,  postfascisti -   continuano a ignorare sul piano politico-culturale  le grandi linee di sviluppo del pensiero liberale, facendo -  non c’è alcuna ironia  -  di  ogni erba  un fascio. Esistono invece varie  forme di liberalismo. Ad esempio, pensatori come Burke Tocqueville, Pareto, Mosca, Ferrero, Croce, Weber, Ortega y Gasset (l’unico citato estesamente  in nota), de Jouvenel, Röpke Aron, Freund, Berlin hanno criticato la democrazia di massa,  i pericoli dell’egualitarismo, l’accentramento statale,  le burocrazie, il gigantismo economico,  l’appiattimento dei valori, il costruttivismo e l’utopismo sociale.  Il tutto, si noti,  prima, durante e dopo Emo. Per  inciso: se comunismo e fascismo, in quanto idee, non possono  essere  giudicati sbrigativamente  dai risultati,   peraltro  negativi,  non si capisce perché  il liberalismo, tuttora vivo e vegeto, debba invece essere condannato  in blocco (idea + risultati)  e per giunta senza appello. La logica delle distinzioni concettuali e storiche tra intenzioni e risultati  deve valere per tutti, a prescindere dalle simpatie politiche. Insomma,  l’oggettività,  nuova o vecchia che sia,  non può essere costruita ad hoc: non è un abito ideologico di circostanza. Certo, gli uomini tendono a imbrogliare (ideologicamente) le carte, sta però allo studioso fare chiarezza, per quanto umanamente possibile,  attraverso  l' unica oggettività degna di questo nome:  quella scientifica.
Ciò  non  significa che non  si debba studiare Emo. Anzi, consigliamo ai  lettori  di partire  dall’ interessante “Appendice”, soprattutto per farsi subito un’idea propria.  Tuttavia, la  sua lettura va coniugata con la conoscenza  diretta  di  altre fonti,   a cominciare dal liberalismo, politico e realista, se si vuole “triste” perché consapevole di un fatto importantissimo:   che le costanti della politica (o “metapolitica", come ci piace dire) valgono anche per i liberali.  E ovviamente anche per comunisti, fascisti eccetera.  
Pertanto,  la natura antiliberale o postliberale del progetto politico e culturale che sottende il libro di Sessa (come capacità o meno  di  inverare delnocianamente anche il liberalismo),  si gioca proprio sull'apprezzamento  dei pensatori da noi  ricordati. Che vanno studiati, ripetiamo, direttamente, e non orecchiati su libri di seconda o terza mano. 
A questo proposito, chiudiamo con un aneddoto. Benedetto Croce, dopo aver subito un’incursione notturna degli squadristi, disse celiando agli amici di aver ricevuto la  visita dello “Stato Etico”. Ora,  battute, anche simpatiche, a parte, si cerchi il modo di  risparmiare ai cittadini,  studiando oggi ,  visite domani  dello “Stato Transattualista”… A buon intenditor... Anche perché, per dirla con Goethe, «nulla è più terribile  di un’ignoranza attiva».  

Carlo Gambescia  

martedì 1 aprile 2014

Destra, può bastare l’anti-europeismo?


La politica nelle  democrazie contemporanee,  basate  sul dibattito pubblico,  va  sempre  studiata a due livelli: a) quello delle esternazioni (ciò che si dice); b) quello dei fatti concreti (le decisioni).
Si possono vincere le elezioni perché si è  individuato lo slogan giusto. E sia.  Ma  prendere più voti  non significa saper governare e soprattutto essere capaci di  mantenere, o comunque "gestire",  le promesse. Insomma, la buona politica dei "fatti" deve sempre prevalere.  
In Italia, Berlusconi  ha purtroppo rappresentato la “politica delle  parole”. Di riflesso, la destra italiana - un mondo politico estremamente composito -   si è totalmente disabituata  a  prestare attenzione al rapporto tra parole e fatti.   
Ora, a destra,  sembra essere  molto in voga  l’antieuropeismo. Anche qui siamo davanti a un puro e semplice slogan, che per un verso interpreta il giusto malessere dei cittadini verso le rigorose politiche di bilancio, per l’ altro  indica nell’Unione Europea, ma ingiustamente,  la causa di tutti mali economici. Di qui, il possibile corto circuito tra le elevate  aspettative di un elettorato, come mostrano i sondaggi, antieuropeo,  e l’impossibilità per una serie di ragioni (politiche, economiche, giuridiche) di “uscire” dall’ Europa.
Non vogliamo dire che un passo indietro sia del tutto  impossibile, ma un politico, soprattutto se di destra (quindi conservatore e realista)  dovrebbe evitare fughe in avanti ed eventualmente lasciare alla sinistra il mercato delle (mancate)  promesse elettorali.              
Si dirà:  nelle democrazie, la politica deve attenersi al voto dei cittadini. Certo, ma la politica, come è noto, è arte del possibile.  Del resto, prima della crisi economica,  gli italiani erano ardenti europeisti.  Ora non lo sono più.  In pochi anni  sembra essere  cambiato tutto.  Magari, tra qualche, superata la crisi, sarà di nuovo euromania…  Allora, che fare? 
Diciamo che una destra attenta ai fatti e non alle esternazioni dovrebbe valutare concretamente i  pro e  contro non congiunturali ma, come dire,  epocali. Insomma, dovrebbe cercare di  andare oltre i calcoli opportunistici per pensare in chiave storica. Il che non sempre è facile.  Ma  almeno provarci, no?   

Carlo Gambescia