Oggi facciamo un bel test culturale sulla destra radicale, quella che critica Giorgia Meloni perché – così dicono i “camerati” – è troppo moderata.
Non faremo nomi: tanto si tratta dei soliti venditori di fumo pseudo-eroico, fascista o neofascista (scelga pure il lettore). Basta fare un giretto sui social e se ne leggono di belle.
Questi monomaniaci politici, che non hanno mai capito la dura lezione del 1945 – dura e giusta – credono di scorgere ovunque anche i più piccoli segnali di fumo (fumo che abbraccia altro fumo, il loro).
Da ultimo, non pochi di quell’ambito politico hanno salutato la premier giapponese Sanae Takaichi come possibile simbolo di una riscossa nazionale.
Nostalgia del Ro-Ber-To? Roma-Berlino-Tokyo, come proclamava l’ottuso federale Tognazzi, salvato dal linciaggio (nonostante i soprusi subiti) da un professore liberale? Cosa sulla quale i nostalgici di Salò non hanno mai riflettuto abbastanza. Ma questa è un’altra storia.
Forse. La fanta-tesi è la seguente: saremmo davanti alla prima donna al potere che sogna un Giappone deciso a “staccarsi” dagli Stati Uniti, pronto a riallacciare rapporti con Mosca per garantirsi energia a basso costo.
Un racconto suggestivo, certo. Ma più vicino alla mitologia che alla politica.
Da ottant’anni Tokyo vive una condizione particolare: un Paese sovrano, ma dentro un sistema di sicurezza dettato da Washington. Questo equilibrio, comodo ma limitante, ha garantito pace e prosperità.
Oggi, però, il mondo è cambiato. Gli Stati Uniti arretrano, la Cina avanza, la Russia gioca sporco e l’energia costa cara.
E qui conviene fermarsi un attimo: il punto che sfugge ai samurai italiani è semplice. Il Giappone non sogna alcuna revanche. Se si conoscesse meglio, storicamente parlando, l’etica dell’adattamento del Giappone, si capirebbe che Tokyo semplicemente si conforma non a un mitico passato ma al flusso degli eventi. Come ha sempre fatto: Il giusto, che è anche bello, come senso delal misura. Dato per l’appunto dall’adattamento a regole, che possono anche cambiare, anche per gradi, ma cambiare. E qui si pensi al sincretismo religioso giapponese (*)
Le classi imperiali, pur dure nei secoli con nobili, contadini e mercanti, aspiravano a una vita armonica, non al geo-potere. Il bellicismo, prima nazionalista poi fascista, che va da Tsushima a Pearl Harbor, rinvia alla sbornia di prussianesimo – fin dalla costituzione – che investì le classi dirigenti giapponesi. Un vero corpo estraneo. Si può chiamare anche “modernismo reazionario”, prontamente corretto dopo il 1945, con il ritorno del senso della misura.
Oggi il Giappone è tornato quello di sempre: pacifico e armonico, e con più di un tocco di benefico consumismo occidentale.
La figura del samurai – di regola nobili declassati dalla katana facile o contadini riqualificati nel mestiere delle armi – è, quanto a ruolo politico effettivo, anche quando contava qualcosa nel Giappone Tokugawa, più un mito occidentale che una realtà orientale.
Per dirla alla buona, il samurai era uno sfigato, feroce ma sfigato, che non voleva lavorare la terra. Si pensi, solo per fare un esempio nostrano, al Brancaleone di Monicelli.
Quando Takaichi parla di “dialogo con tutti i vicini”, non annuncia una conversione geopolitica. Cerca margini di manovra, non rivoluzioni. Riafferma la centralità dell’alleanza con gli Stati Uniti, mentre prova – con prudenza – a riaprire qualche canale pragmatico verso Mosca. È la normalità diplomatica di una potenza industriale che ha bisogno di benzina e stabilità, non di proclami e di un nuovo Mishima – il D’Annunzio giapponese che, a differenza del vate abruzzese, faceva sul serio, fino alla morte per seppuku (autosventramento rituale).
Il Giappone si sta emancipando, sì, ma dentro l’ordine di cui ancora fa parte. Nessun seppuku, nessuna vendetta simbolica contro l’Occidente: solo il lento e razionale processo di un Paese che vuole più voce in capitolo sul proprio destino.
Del resto, quale Mishima? Il Giappone di oggi è una società di pensionati: un terzo della popolazione ha più di 65 anni e l’età media sfiora i cinquanta. È un Paese che tutto sogna, fuorché la guerra e la vita eroica. La sua battaglia quotidiana è un’altra: tenere in piedi un sistema di welfare sempre più costoso e un’economia che invecchia insieme ai suoi cittadini (**).
E mentre qualcuno sogna ancora samurai e riscatti nazionali, la realtà giapponese cammina piano, con passo prudente, verso un futuro di robot, badanti e bilanci da far quadrare. Sincretica ma robusta.
E invece? Qui torniamo al nostro test. Una parte della destra, quella che scorge in Meloni una specie di Badoglio, continua a inseguire fantasie romantiche di riscatto e orgoglio nazionale, più vicine alla letteratura che alla politica.
Ma il mondo non si piega ai miti, e la geopolitica non è un romanzo d’onore.Prima o poi, anche i sogni devono fare i conti con il prezzo del gas e nel caso del giappone con una antropologia della giusta misura.
Autonomia non è ribellione. È ritorno alla maturità.
E se c’è un risveglio in corso, non è quello dei demoni nazionalisti, ma della politica che finalmente torna a fare i conti con la realtà, secondo le buone tradizioni giapponesi.
Per concludere: è un movimento di maturazione politica, non di rivolta. Meno Mishima, più Weber: razionalizzazione dell’indipendenza, non eroismo del gesto.
Quindi test non superato.
Qualcuno lo spieghi a questi cialtroni che impugnano la katana di plastica dell’Atlantic giochi.
Difficile che capiranno. Però, non si sa mai...
Carlo Gambescia
(*) Sul punto, scusandoci per la sinteticità del giudizio, si veda, come approfondimento, il bel saggio di L. Caillet, La Civilisation japonaise, in J. Poirier ( a cura di), Histoire des moeurs, Gallimard, Paris, 1991, III, vol. 2, pp. 978-1038.
(**) In argomento si vedano Yoshitaka Ishikawa (a cura di), Japanese Population Geographies I: Migration, Urban Areas, and a New Concept e Japanese Population Geographies II: Minority Populations and Future Prospects, Springer Nature, Singapore 2023. I volumi trattano, in chiave sintetica ma con dovizia di dati e tabelle, migrazione, invecchiamento della popolazione, concentrazione urbana e scelte abitative delle minoranze, offrendo strumenti di previsione demografica e implicazioni politiche.




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