venerdì 29 maggio 2009

Incontri su YouTube 
Patty Pravo




Non siamo studiosi di musicologia, ma speleologi… E di un tipo particolare. Ci piace fare della buona speleologia su YouTube. E soprattutto di tipo canoro. Quel che infatti ci intriga, magari quando siamo giù di morale, è ritrovare, qualche “canzonetta” dei nostri anni verdi ( i favolosi Settanta o giù di lì…), “postata” su YouTube. Una specie di “Recherche”, personale, più vanziniana che proustiana. Ma come si dice, chi si contenta gode.
E che cosa abbiamo scoperto? Una stupenda esecuzione dell’ algida leonessa di San Marco, per dirla con Nunzio Filogamo: una biondissima e giovanissima Patty Pravo. Ma il bello deve ancora venire: il titolo del pezzo è Tripoli 69. Eseguito davanti al pubblico televisivo (e non) di “Canzonissima,”, inverno 1968. Vedere per credere: http://www.youtube.com/watch?v=Duim2hXRmDQ .
Si tratta di una canzone, come si intuisce dal titolo, in netta controtendenza. Dove si inneggia, proprio nell’anno della “Contestazione Generale”, a un uomo che più macho non si può. Ne citiamo solo un passo: “E quando un uomo va/ a vivere di più/ le donne/ son solo lacrime /ma se ritornerà/ ferito lui lo sa/ che qui mi troverà/ e io son già felice/ se penso che/ in questa storia/ anch’io ci sarò “.
Il testo è firmato da Miki del Prete e Vito Pallavicini. Inoltre, secondo alcuni musicologi, i riferimenti romantico-esotici a Tripoli, potrebbero far pensare allo “zampino” di Paolo Conte. Comunque sia, si esclude che tra i padri della canzone vi fossero i membri di qualche rediviva associazione di “Figli (musicali) della Lupa” cultori dell’Africa Italiana, con il casco coloniale in testa…
Una canzone così, seppure bella, non poteva avere successo in quell’Italia divisa tra altare e falce e martello: democristiani e cultori del maoismo… Patty Pravo, come affabula visivamente il videoclip, la cantò, in miniabito, stivaloni, mani sui fianchi, aria di sfida: contestando i contestatori, sul palco di “Canzonissima”. Trasmissione all’epoca liquidata dai Figli di Mao, in certo senso eredi di quelli della Lupa, quale quintessenza del decadente mondo borghese del sabato sera.
Perché parlarne oggi? Innanzitutto perché Patty è sempre un angelo, mai caduto (nonostante cinque matrimoni, pare), sul quale è dolce posare lo sguardo, anche via YouTube. E poi perché, la sempre fascinosa Signora Strambelli, ha ormai superato la boa dei sessanta… Ed è bello scoprire, come per lei, il tempo non sia passato.
Infine, come restare insensibili al suo rifiuto delle mode politiche? Una sfida che ha punteggiato tutta la sua “produzione canora”, come dicono ancora oggi certi discografici all’amatriciana, col sigarone puzzolente tra labbra e denti… Come non si può amare, e per sempre, una cantante che in piena contestazione va a “Canzonissima” per prendere in giro tutti? maoisti e bacchettoni? Cantando in minigonna, quasi inguinale, una canzone cripto-fascista?
Grande Patty, sei unica. 


Carlo Gambescia

giovedì 28 maggio 2009

Il libro della settimana: Francesco Forte, L’economia liberale di Luigi Einaudi. Saggi, Leo S. Olschki, Firenze 2009, pp. XVIII-368, euro 41,00 - http://www.olschki.it/ .




Alzi la mano chi non ha mai studiato economia sul celebre Manuale di Politica Economica di Francesco Forte? La domanda è rivolta in particolare agli studenti di scienze politiche e sociali degli anni Settanta del secolo scorso.
Scommettiamo infatti che non sono pochi gli universitari di quella generazione che hanno avuto il privilegio di studiare sui quattro volumi, scritti dall’ enciclopedico economista, e pubblicati nella vecchia PBE (“Piccola Biblioteca Einaudi”). E perciò di scoprire, grazie alla cultura sterminata di Forte, oggi professore emerito dell'Università La Sapienza di Roma, che l’ economia era (ed è) qualcosa di più complesso delle pure e semplici leggi dell’offerta e della domanda.
Pertanto non potevamo non segnalare, all’interno di una bibliografia fattasi di anno in anno sempre più ricca, l’ultima fatica di Francesco Forte: L’economia liberale di Luigi Einaudi. Saggi, (Leo S. Olschki, Firenze 2009, pp. XVIII-368, euro 41,00). Dove sono raccolti e rielaborati gli studi da lui dedicati a Luigi Einaudi. Il quale nel 1961, particolare non secondario, volle Forte come suo successore alla cattedra torinese di Scienza delle Finanze.
Siamo al cospetto di un grosso volume, diviso in quattro parti. E scritto con scienza e coscienza, per dirla in modo solenne : con la dottrina dello scienziato e con la consapevolezza di aver avuto come maestro uno studioso della statura di Luigi Einaudi: un grande liberale di una specie oggi molto rara, come quando dichiarava in una lettera a Ernesto Rossi (citiamo da Forte) :
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Io non sono liberista; come lei, con tanti altri, scrive nel memorandum. La differenza non è tra liberista e interventista; ma fra interventismo e interventismo. Mi guardo bene dal dire, in seguito a qualunque specie di calcolo, ai giovani o dal far loro dire, a mezzo di commissioni di esami o fissazioni di numeri: tu farai l’avvocato o l’ingegnere o il contadino. Ciò mi ripugna. Ma non mi ripugna affatto far pagare ai contribuenti 500.000 borse di studio (per cominciare) a giovani che diano buone promesse. Scelgano essi, cadano si risollevino” (p. 211).
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Come dicevamo, il libro è diviso in quattro parti: la prima biografica (“Einaudi economista appassionato e maestro”); la seconda è dedicata al suo modello di “economia pubblica”; la terza, su cui ritorneremo tra poco, si occupa dei rapporti tra “neoliberalesimo e mercato”; la quarta invece affronta l' “ordine monetario e mercati globali”.
Perché la seconda parte ha colpito la nostra attenzione? Per una semplice ragione: è utile per capire come il liberalismo einaudiano, pur ( o proprio) restando fedele a una concezione etica della libertà rimanga frutto di una visione qualitativa, prepartitica, rivolta a tutelare tutti, maggioranze e minoranze. Una posizione, secondo Forte, simile a quella di Croce. E quindi completamente diversa, ad esempio, dalla riduttiva visione keynesiana del liberalismo, a rischio di statalismo, perché puramente economica e quantitativa. Del resto criticata dallo stesso Einaudi.
In questo senso, come giustamente osserva Forte, la sua posizione ricorda quella di Wilhelm Röpke, scomparso nel 1966 e con il quale Einaudi fu in contatto. Parliamo di un economista liberale, spesso in disaccordo anche con Hayek e Mises, che teorizzò una terza via liberale, tra collettivismo (persino di tipo social-liberale) e manchesterismo. Röpke fu nel secondo dopoguerra tedesco, uno degli esponenti di punta della cosiddetta “economia sociale di mercato”. Di qui le frizioni con la Scuola Austriaca, notoriamente poco amante persino di una terminologia trascendente l’individuo.
Sotto questo profilo sarebbe molto interessante rileggere le Lezioni di politica sociale, scritte da Einaudi tra il 1943 e il 1944. Dove l’ introduzione di efficaci legislazioni antimonopolistiche, sociali e doganali, nel caso di industrie nascenti ( misura quest’ultima di sapore listiano, liberal-nazionale...), viene ricondotta nell’alveo, per usare la terminologia di Röpke, degli interventi “conformi” all’economia di mercato. Fermo restando, secondo Einaudi, il sempre incombente pericolo di sprechi e corruzione. Rischio, comunque, da correre, ma consapevolmente,
Pagine importanti, come sottolinea Forte, in polemica con certe interpretazioni liberal del pensiero einaudiano, proprio per la consapevolezza del rischio di cui sopra, di regola sottovalutato dalla scuola democratico-progressista, così legata a considerazioni puramente quantitative o semplicemente economiche del benessere ( spesso utilitaristiche, come il famigerato teorema del massimo di felicità conseguibile per maggior numero di persone, a prescindere dalla sua dannosità o meno per le minoranze).
Pagine, continua Forte, segnate dalla distinzione
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“fra gli interventi sociali coerenti con i principi dell’economia di mercato e i valori della libertà e dell’individualità, e quelli del modello di stato del benessere dalla culla alla bara, beveridgiani, che Röpke ed Einaudi avversavano perché incompatibile con quei principi e valori”.
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Modello welfarista, come si dice oggi, davanti al quale però era sbagliato chiudere gli occhi. Scriveva, infatti,
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“Einaudi a Röpke nel gennaio 1944, da Basilea, preannunciandogli il suo corso universitario a Ginevra, per gli studenti italiani, profughi in Svizzera, ‘il dilemma è: prenderlo di fronte oppure cercare di attenuarne le parti più pericolose?’ ” (pp. 235-236).
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Einaudi e Röpke scelsero di mitigarlo, puntando sull’economia sociale di mercato. Di qui l'importanza del libro di Forte che, attraverso Einaudi, indica, proprio in tempi difficili come i nostri, percorsi alternativi al collettivismo come al manchesterismo. Dunque un bel libro, lontano da ogni estremismo, sul quale riflettere.

Carlo Gambescia 

martedì 26 maggio 2009

Esami di Maturità 
No ai farmaci dopanti, sì alla Nutella


Roma, 25 mag. - (Adnkronos) - Scatta il conto alla rovescia per le decine di migliaia di studenti italiani che affronteranno a breve il fatidico esame di maturita'. E dalla comunita' scientifica del Cnr scatta l'allarme per gli esami dopati. Se in passato per resistere alle nottate sui libri gli studenti si limitavano ad aumentare la dose quotidiana di caffe', confidando nelle sue proprieta' stimolanti, oggi, infatti, in prossimita' di una prova d'esame alcuni fanno ricorso alle 'smart drugs', sostanze legali ma dall'effetto dopante. E devastante. Perche', spiegano i neuroscienziati, se nell'immediato 'regalano' una maggiore efficienza mentale, dopo qualche giorno gli effetti svaniscono, provocando dipendenza e danni gravi alla memoria.

"I cosiddetti nootropi (dal greco noos=mente e tropein=verso) o 'cognitive enhancers', sono prodotti in grado di aumentare le capacita' cognitive. Questa categoria -spiega Anna Lisa Muntoni dell'Istituto di neuroscienze (In) del Cnr di Cagliari- comprende svariate sostanze psicoattive, sia di sintesi che naturali, efficaci non solo nei pazienti con disturbi neurologici o cognitivi, per i quali sono nate, ma anche in persone sane".
"In pratica, l'uso delle 'smart drugs' -prosegue Muntoni- migliora i processi cerebrali che sottendono l'attivita' mentale come attenzione, concentrazione, percezione, apprendimento, memoria, linguaggio, motivazione, capacita' organizzativa e decisionale". Ma sempre piu' spesso questi farmaci sono assunti al di fuori della prescrizione medica. "Stimolanti come metilfenidato, destroanfetamina e modafinil, normalmente prescritti per la terapia del disturbo da deficit di attenzione e iperattivita' (Adhd), dell'autismo e di disturbi del sonno -prosegue Muntoni- si possono acquistare anche online e vengono presi in dosi massicce dagli studenti, soprattutto alla vigilia degli esami".
"Queste sostanze -spiega ancora la neuroscienziata del Cnr, Muntoni- agiscono fondamentalmente aumentando i livelli cerebrali dei neurotrasmettitori dopamina e noradrenalina. In questo modo, da un lato migliorano le capacita' di concentrazione e di elaborazione delle informazioni, i livelli di allerta e di attenzione, la motivazione allo studio, e, dall'altro, riducono le sensazioni di sonno, fame e fatica. Di qui la tendenza ad abusarne per migliorare le proprie prestazioni e prendere voti piu' alti". Un'abitudine insana e pericolosa poiche' per la maggior parte di tali droghe non si conoscono gli effetti a lungo termine nei soggetti sani.
"In generale, disturbano i meccanismi del sonno -precisa la ricercatrice dell'In-Cnr- vanificando dopo qualche giorno la loro azione e mettendo a repentaglio la memoria. Una buona qualita' del sonno e' infatti indispensabile per immagazzinare le informazioni e consolidare i ricordi". E i pericoli non finiscono qui.
"Altri effetti collaterali -riferisce Muntone- sono rappresentati da diminuzione dell'appetito, perdita di peso, ansia e irritabilita'. Per quanto riguarda il problema della dipendenza, gli stimolanti metilfenidato e anfetamina, amplificando le azioni della dopamina, rendono piu' interessanti e gratificanti lo studio e le attivita' quotidiane e cio' puo' portare all'uso compulsivo e alla dipendenza". Info: www.cnr.it"
http://www.adnkronos.com/Speciali/Scienza/NotizieManuali/250509.html

E ti pareva. Dopo calciatori, ciclisti, scemi del sabato sera, adesso arriva pure lo studente dopato.
Secondo il Cnr se in passato per resistere alle nottate sui libri gli studenti si limitavano a ubriacarsi di caffeina, confidando nell’insostenibile pesantezza della moka da 12 caffè per notte, oggi, a poche settimane dalla maturità sembra che stiano andando per la maggiore le “smart drugs”.
Già l’uozzamerican è tutto un programma… Per finire non nella famosa “marana” di Nando Moriconi a fare il bagno imitando le bracciate di Tarzan, ma in un Centro di Salute Mentale, dopo ovviamente aver parlato con la Madonna, o con qualche santo, gerarchicamente inferiore…
Dato che si tratta di sostanze legali ma dall’effetto dopante. E rovinoso. Perché come spiegano i neuroscienziati, se subito donano una maggiore efficienza mentale, di lì a qualche giorno gli effetti spariscono provocando dipendenza e danni alla memoria…
E purtroppo sembra che i ragazzi abbocchino. Del resto come li abbiamo cresciuti? Poco responsabili, timorosi delle malattie e farmacodipendenti.
Già quando vanno all’asilo, le mamme al primo raffreddore se ne escono con l’Aspirina. E poi crescendo a otto il piccolo riceve la sua prima bustina di Aulin, sembra addirittura che venga festeggiata in famiglia. A dodici la prima Novalgina. A sedici, già grandicelli, si passa al Momentol.
Va perciò da sé, che quando arriva l’esame di maturità i ragazzi da soli si buttino sulle smart drugs. E tanti saluti “a’ mammeta”.
Ormai sono grandi e si possono impasticcare liberalmente. Salvo poi giocarsi il cervello insieme alla maturità. Anzi in questo caso si può parlare di esami di immaturità…
Ragazzi, date ascolto a Nanni Moretti, perché non provare con la Nutella… Fin da piccoli. E’ buona, soprattutto sul pane. E poi non c’è rischio di ridursi a vegetali. Magari qualche problemino di colesterolo, sì.


Carlo Gambescia

lunedì 25 maggio 2009

Il “caso Noemi” 
 L’ opposizione introvabile



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Chi si occupa di questioni politologiche ricorda sicuramente i famosi due schemi (bipartitismo imperfetto e pluralismo polarizzato), rispettivamente elaborati da Giorgio Galli e Giovanni Sartori negli anni Sessanta dell'altro secolo. Schemi che, per farla breve, evidenziavano la mancanza nella "Prima Repubblica" di una cultura e pratica dell’opposizione politica costituzionale, parlamentare e democratica. Assenza legata a tutta una serie di questioni che qui sarebbe troppo lungo elencare.
Quel che conta è che nella cosiddetta “Seconda Repubblica”, nonostante la retorica sul bipartitismo, nulla è cambiato. L’opposizione, oggi più frammentata e divisa che nella "Prima Repubblica”, continua a non svolgere alcun ruolo costruttivo, nel senso, non di collaborare con la maggioranza come alcuni pretendono, ma di elaborare soluzioni serie, concrete, praticabili, puntando su un' agenda politica realmente alternativa a quella della maggioranza, pur restando all’interno di coordinate politiche ed economiche infrasistemiche.
Prendiamo il “Caso Noemi”.
Invece di “battere” su questioni fondamentali, suscitate dal brusco “respingimento” degli immigrati, dalla condanna di Mills e dal violento attacco berlusconiano alle istituzioni parlamentari; tutte questioni che riguardano la qualità della giustizia, della democrazia e il destino delle minoranze politiche ed etniche in Italia, l’opposizione (dal Pd alle forze minori) si è fatta trascinare in una imbecille e suicida campagna stampa sulla questione delle dieci domande, sollevata da Repubblica (perché chi è dietro il quotidiano fondato da Scalfari, probabilmente spera di sostituire Berlusconi con Draghi a colpi di scandali sessuali… ). Alla quale invece Berlusconi, da vero istrione, si sta prestando volentieri. Vuole addirittura rispondere in Parlamento. Perché sa che i pettegolezzi intrigano: fanno simpatia e voti (per lui…). Cosa che Repubblica, da sempre sospesa tra moralismi a senso unico e buoni affari, sembra ignorare...
E così le istituzioni politiche, già screditate da qualunquistiche ma mirate campagne di stampa contro “la casta”, perché rivolte a minare la reputazione dei partiti in quanto tali in nome del presunto efficientismo dell’impresa economica privata, dovranno fare il punto sui pettegolezzi sessuali riguardanti Berlusconi. Solleticando gli italiani ma al tempo stesso screditando ancora di più le istituzioni politiche. E ciò solo per compiacere la suicida strategia mediatica imposta dai poteri forti economici contrari al Cavaliere.
Complimenti. Bel modo, veramente libero e degno, di fare opposizione.

Carlo Gambescia

venerdì 22 maggio 2009

Il Cavaliere-Avicoltore

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Quando si dice passare il segno. Benché il segno sia stato ormai da tempo non superato ma calpestato cento volte. E per giunta ridendovi sopra.
Bene, secondo Berlusconi, ovviamente furente per la sacrosanta e giusta piega presa dal processo milanese, è necessario riformare l’equilibrio di poteri tra governo e Parlamento. E ci vorrà un’iniziativa di legge popolare perché i “ capponi” non si faranno fuori da soli”. E Berlusconi lo dice da presidente del Consiglio, dal palco dell'assemblea annuale di Confindustria. Berlusconi sale sul palco, sapendo di dare vita a uno spettacolo ridanciano, ma questa volta ha superato ogni limite, le sue picconate anticostituzionali mettono a rischio la democrazia .
Invece di parlare della necessità di fare le riforme istituzionali, il premier muove un attacco antidemocratico al Parlamento. La legislazione, secondo il suo populismo, che alcuni hanno giudicato peggiore di quello putiniano , “va migliorata perché il premier non ha nessun potere e si capisce anche perché, visto che la costituzione è stata scritta dopo il periodo fascista e quindi tutti i poteri sono stati dati al parlamento che è pletorico, e conta 630 membri”. Servirà dunque una riforma, ma “per arrivare a questo dovremo fare un disegno di legge d' iniziativa popolare perché non si può chiedere ai capponi o ai tacchini di anticipare il Natale” .
Insomma siamo davanti a una specie di avicoltore, per alcuni impazzito. Sembra fantapolitica, ma è la realtà. Queste sono le ultime dichiarazioni deliranti del nuovo show del Cavaliere, che a viso aperto attacca il Parlamento e le Istituzioni fregandosene ampiamente di ogni dialettica democratica. E inaugurando quella che può essere definita la via avicolturale alla politica.
Per il presidente del Consiglio le Camere, come pollai, potrebbero essere chiuse anche in questo preciso istante. Secondo la sua visione della politica - egocentrica, accentratrice, e ripetiamo da avicoltore - i due rami del Parlamento sono secchi e da potare, e con essi la democrazia. “Ci sono dei deputati che non si vedono mai perché hanno cose più importanti da fare che stare lì a votare. Ma come si vota? Si guarda il capogruppo che se alza il pollice vuol dire sì, se stende la mano vuol dire astensione, se fa il pollice verso vuol dire no. Adesso diranno che io offendo il Parlamento ma questa è la pura verità: le assemblee pletoriche sono assolutamente inutili e controproducenti”.
Ovviamente sui livelli di pletoricità l’ultima parola spetterà sempre a Berlusconi. C’è di che rimanere basiti. Il degrado intellettuale del Cavaliere-Avicoltore oggi raggiunge livelli di allarme per la democrazia del Paese. Affermare apertamente che il Parlamento è inutile è una considerazione pericolosa .
Se abbiamo un capo del governo che offende il presidio rappresentativo della democrazia, e con esso tutti i cittadini, è giunta l’ora di preoccuparsi seriamente.
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Carlo Gambescia e Nicola Vacca

giovedì 21 maggio 2009

Il libro della settimana: Gianfranco Franchi, Monteverde, Castelvecchi, Roma 2009, pp. 313, euro 16,00.


www.castelvecchieditore.com


Dopo aver letto poche pagine del romanzo di Gianfranco Franchi ( Monteverde, Castelvecchi, Roma 2009, pp. 313, euro 16,00 ), ci siamo sentiti vecchi. O comunque di appartenere a un'altra generazione: quella che ha fatto, o subíto, le sue esperienze negli anni Settanta e non come il giovane autore nei Novanta. Dunque, per dirla con Ortega, differenza di “circostanza”. Per carità c'est la vie : si tratta di una diversità legata al naturale e stringente scorrere del tempo e quindi al diverso ruolo che la politica ha giocato nei due decenni: continuazione della guerra con altri mezzi negli anni Settanta; prolungamento del mondo dello spettacolo negli anni Novanta. Con in mezzo la crescente e sfibrante precarizzazione di tutti i rapporti sociali, a cominciare dal lavoro. Ma entriamo nel merito.
Franchi, oggi appena trentenne, poeta saggista, animatore di un ottimo sito ( http://www.lankelot.eu/ ), ha scritto un romanzo generazionale che analizza meglio di un saggio sociologico la condizione storica, o "circostanza", di quei giovani, intellettualmente al di sopra della media, che tra la fine del vecchio e l'inizio del nuovo secolo, avrebbero voluto parlare al mondo e quindi diventare scrittori. Finalmente liberi dalle morse della politica-guerra e della politica-spettacolo. Ma non, come è avvenuto e avviene, da quella del lavoro sottopagato. E alcuni come Franchi ci sono riusciti: il sequel reale della sua vita, lo vede oggi scrittore.
Attraverso l' alter ego, Guido Orsini - protagonista del romanzo - Franchi seziona il combattuto mondo, interiore ed esteriore, di un giovane aspirante scrittore, attraverso i topoi minimalisti ( non è una critica) dei liceali e universitari anni Novanta: casa (quel gusto autodifensivo per i torpori della vita privata) ; lavoro (le solitarie disperazioni di giovani “biagizzati” e con il vizio delle "belle lettere"); donne (la complicata ricerca di sempre fragili ponti tra Apollo e Dioniso); musica (il fascino del rock, come presa decaffeinata del Palazzo d'Inverno); lo sport ( quella strabordante passione per il calcio e in particolare per “La Roma”, o altrimenti “La Magica”).
Il romanzo si chiude con una prometeica dichiarazione dei “diritti del letterato”. E con una dedica, due righe due ma fervide, agli “esuli fiumani e dalmati e ai loro discendenti; alla loro dignità e al loro orgoglio”. In questo modo Gianfranco-Guido, celebra la letteratura, come assoluta indipendenza dal potere, e sacrifica alle piccole patrie (inclusa quella lontana della sua famiglia): il cosmo e il microcosmo. Ecco quel che si dice parlare a tutti: essere nel mondo ma non del mondo.
Per certi aspetti, seguendo una felice intuizione di Nicola Vacca (cfr. http://nicolavacca.splinder.com/post/17418819 ), anche questo libro può essere accostato, nei termini di una comune antropologia culturale della scrittura di confine (essere e non essere del mondo, dicevamo...), a quel grido di rivolta in nome della letteratura lanciato da Luciano Bianciardi ne La vita agra (1962), ma anche in opere precedenti come Il lavoro culturale (1957) e L'integrazione (1960): stessa voglia di guadagnarsi il pane scrivendo; stessa indignazione verso certo capitalismo rapace; stesso stupore nei riguardi di un mondo che talvolta sembra correre verso il precipizio con la pascaliana benda davanti agli occhi.
Per altri aspetti, no. Perché sono passati più di cinquant’anni. E come, abbiamo detto all’inizio, la generazione di Franchi è assai diversa da quella di Bianciardi e del sottoscritto. Quando l'essere sottopagati non era stato ancora eretto a sistema o addirittura permesso legislativamente. La speranza di un mondo migliore, giusta o sbagliata che fosse, era ancora viva e vegeta: alcuni credevano di poter cambiare " la circostanza".
In Franchi, rispetto allo scrittore grossetano, c’è maggiore distanza dalle cose: Bianciardi cannoneggiava e sciabolava; Franchi soccorre e cura i feriti, a cominciare da se stesso, usando se serve il bisturi. E non fermandosi neppure davanti alle autopsie, sempre condotte con mano ferma. Insomma, il più caliente dei due non è Franchi, pur avendo, al momento della stesura dieci anni meno di Bianciardi, il quale quando scrisse La vita agra ne aveva quaranta. Il che si spiega, ancora una volta con la "circostanza": con il fatto che la generazione di Franchi è quella del 1989 e non del 1945: stereo e personal computer contro mitra e bombe a mano... Alcuni diranno, meglio così.
Ma anche gli stili di scrittura sono diversi: più irrequieto quello di Bianciardi, grossetano intabarrato e inurbato nelle nebbiose e proletarie periferie milanesi degli anni Sessanta; più posato quello di Franchi, civis in (maglietta) polo di Monteverde Vecchio, sempre riscaldato dal suadente sole che irradia Villa Sciarra, meta ancora oggi, seppure non come una volta, di borghesi e distese passeggiate, cani e disattenti padroni permettendo. Benché via Fonteiana così cara a Franchi, sia oggi diventata una specie di “Terra di Nessuno”, tra quel che resta della borghese e alberata di viale dei Quattro Venti e i panciuti palazzoni, già popolari, di via Donna Olimpia, amata anche da Pasolini, che abitò per un certo periodo in quella terra di confine, così vividamente descritta nei suoi romanzi...
Diciamo che il Monteverde, rivendicato già nel titolo, indica due sensibilità diverse, ma non opposte. Due modi di gridare il proprio sdegno al cospetto di un mondo ubriaco solo di se stesso. Due modi di guardare negli occhi la propria "circostanza". Uno "sguardo" che in fondo salda le generazioni, restituendo una parte di quel tempo che giorno dopo giorno la vita toglie. Se non nei contenuti almeno nella forma-sguardo.
E spesso la forma è l'uomo.
Carlo Gambescia

mercoledì 20 maggio 2009

Incontri su You Tube
 Giorgio Gaber, 
un Hidalgo del mondo musicale



Il nostro è un tempo curioso. Gli intellettuali celebrano il postmoderno. E così li si vede nei salotti televisivi, trinciare giudizi sul nichilismo post-apocalittico in appositi siparietti culturali, posti tra ciclopiche gare di rutti… Così va il mondo post-moderno: dici una cosa e nei fai un’altra…
Chi invece aveva capito tutto, purtroppo non c’è più. Parliamo di Giorgio Gaber, grandissimo poeta della canzone, scomparso nel gennaio del 2003. Lui non amava la televisione culi-tette… Impazziva per il teatro. E infatti si inventò, all’inizio degli anni Settanta, la canzone a teatro. Frammista a eleganti e fustiganti monologhi, proprio sul declino del suo tempo (che già era post-moderno, senza che nessuno, a parte Gaber, lo sapesse). Da vero Hidalgo liberale, come un Ortega y Gasset redivivo…
Qualche lettore penserà che stiamo esagerando… Un cantante, anche bravissimo poeta, è solo un cantante. E invece no. Gaber ha smontato tutti i miti del mondo post-sessantottino: post-moderno, appunto. Un universo piatto perché privo di forti passioni politiche per la libertà, quella vera, delle persone. E la critica di Gaber all’ individuo post-moderno, schiavo di minuscoli piaceri materiali, ricorda quella di Ortega y Gasset al fangoso piccolo borghese universale, già vivo e vegeto negli anni Trenta del Novecento.
Gaber celebra la persona e critica l’ omologante individualismo di massa. Basti ricordare alcuni titoli dei suoi brani anni Settanta: I borghesi (1971) Far finta di essere sani (1973), oppure i testi di monologhi come Libertà obbligatoria (1976). In quel che all’epoca scriveva, cantava e raccontava c’era un’ ansia per la libertà dei singoli, in quegli anni già sommersi dall’inciviltà dei consumi… Un timore-tremore per l’uomo, che avrebbe portato Gaber, di lì a qualche anno, a celebrare pienamente la libertà, non come affannosa rincorsa all’ultimo paio di mutande firmate, ma quale partecipazione politica, libera e consapevole.
Ma non vorremo cadere nella retorica o nella pedanteria dell’esegetica testuale. Roba insomma da professori in “gaberologia”… Perché sarebbe solo un modo per trasformare Gaber in un altro Garibaldi, senza cavallo però, di cui sia vietato parlare male. In ogni modo, per un’ampia scelta di testi si può dare un’occhiatina al sito http://www.giorgiogaber.it/. Mentre per rivederlo nell’ultima sua intervista, basta cliccare su http://www.youtube.com/watch?v=Ve5zYmctDYM. Gaber va ricordato per la sua naturale capacità, da vero liberale orteghiano, di coniugare libertà e intelligenza. Da lui viste come una forza innata nell’uomo, capace di permettere a ogni essere umano “con addosso l’entusiasmo, di spaziare senza limiti nel cosmo”.
Insomma, Gaber era per modernità liberale, e non per la post-modernità all inclusive … Modernità sì, ma “tosta”. Faustiana. Senza gare televisive di rutti e nichilismi spiccioli. 


Carlo Gambescia

martedì 19 maggio 2009

Dal sequestro dei dirigenti d'azienda al caso Rinadini
Vietato scherzare 
con il fuoco (della violenza)



Recenti episodi di violenza politica, per quanto non gravissimi, come il sequestro in Francia di alcuni dirigenti d’azienda da parte delle maestranze e, da ultimo, il caso del sindacalista Fiom Rinaldini spinto giù dal palco, nonché certa superficiale e preoccupante difesa della violenza risanatrice di ogni male sociale, ci spingono a proporre qualche riflessione generale sulla questione del rapporto tra violenza e politica.
In primo luogo, la violenza è un reale fattore sociale e storico. E consiste nel rimuovere con la forza fisica, fino alla totale eliminazione, gli ostacoli sociali (individui e/o gruppi), a quella che può essere definita, in ultima istanza, l'espansione della volontà di potenza insita nell’uomo. Volontà che può essere culturalmente sublimata, ma non soppressa. A cicli alterni, e secondo le circostanze, riappare, per poi scomparire di nuovo, ritornare, e così via. La violenza, insomma, ha una sua storia naturale segnata da un andamento ciclico, determinato, come vedremo, culturalmente.
In secondo luogo, la violenza è giustificata o condannata a seconda delle convenienze e sulla base di retoriche politiche. Ad esempio, il terrorista per giustificarsi parlerà di risposta alla violenza del sistema; il poliziotto che reprime si appellerà al rispetto della legge, qualificando, la sua violenza, come uso legale della forza pubblica contro gli eversori.
In terzo luogo, il giudizio sull’ uso della violenza muta sulla base della risposta storica: i vincitori presenteranno sempre se stessi come difensori della pace e gli sconfitti come guerrafondai.
In quarto luogo, l’intensità della violenza usata contro un ostacolo sociale (individui e/o gruppi) resta legata al grado umanità che gli si riconosce: quanto più l’ostacolo sociale è considerato di natura aliena o sub-umana, tanto più la violenza esercitata sarà rivolta alla sua completa eliminazione. Pertanto l'esplosiva miscela odio-violenza andrebbe sempre maneggiata con grande cautela. E mai con quella superficialità che spesso affiora in certi dibattiti, anche in Rete.
In quinto luogo, proprio perché la violenza ha una sua storia naturale, non ha un limite oggettivo, se non quello della totale distruzione reciproca o di una delle due parti. Ma esistono invece - e per fortuna - limiti culturali, come dire soggettivi (sempre riferiti all'individuo e/o gruppo sociale), che di regola riescono a ciclicizzarla, sublimarla, controllarla. Le teorie pacifiste, di ispirazione religiosa o meno, ne sono un esempio. Ma anche quelle ispirate al diritto naturale. Come pure le moderne teorie procedurali della politica di stampo liberale. Oppure quelle del cosiddetto “dolce commercio” come apportatore di pace eterna e universale. Possono piacere o meno, ma se ci si passa l'espressione, tali teorie "aiutano": rendono l'uomo più riflessivo. Per alcuni anche troppo. Ma questa è un'altra storia.
In sesto luogo, la benevolenza, non sopprime per sempre il nemico né la violenza. Dal momento che è il nemico stesso a designare un certo ostacolo sociale (individui e/o gruppi) come proprio nemico. Il che significa che si può pure porgere l’altra guancia, ma se il nemico, come di regola accade, ha prescelto e deciso di distruggere "proprio quel certo ostacolo sociale", ogni benevolenza del prescelto o dei prescelti sarà inutile.
Pertanto il vero problema, che ogni gruppo sociale si è sempre trovato a dover risolvere, pena l’autodistruzione propria e di ogni altro gruppo, resta quello di come individuare un giusto equilibrio storico e sociologico tra limiti culturali e dinamica naturale e ciclica della violenza. In alcune epoche ci si è giunti consapevolmente, in altre meno.
Sotto questo aspetto la società contemporanea ha abilmente sublimato e proceduralizzato la violenza, proprio perché uscita da un gravissimo conflitto bellico (la Seconda Guerra Mondiale), dove si era fatto un uso inaudito della violenza.
In questo processo un ruolo essenziale è stato giocato dallo sviluppo economico, la nascita del welfare state, la democrazia sociale e pacifista (all’interno). Fattori che hanno consentito al mondo occidentale e industrializzato, di “proceduralizzare” e “anestetizzare” la violenza, puntando su un sistema di garanzie sociali, di cultura consensuale e di procedure economiche e sindacali, durato più di sessant'anni. E che ora, come evidenziano le recenti avvisaglie (i sequestri, eccetera), sembra stia entrando in crisi.
Infatti, il rischio che si apra un nuovo ciclo, come dire, della violenza predominante, interno all’Occidente, non è da escludere. Dove, attenzione, il pericolo maggiore è quello della violenza acefala a spirale: del colpo su colpo, segnato appunto dal vortice violenza extra-istuzionale/violenza istituzionale; vortice capace di risucchiare tutto e tutti. Che già si va profilando, soprattutto in alcune grandi periferie urbane europee, anche grazie a quell'ossessione per la sicurezza, agitata come uno straccio rosso dai governi di destra. E al quale, stando a quel che ci è capitato di leggere in questi giorni, il "toro" teorico e giustificativo della vecchia violenza di classe, sembra aver già pavlovianamente risposto, partendo a testa bassa.
Il che però non significa che la violenza extra-istituzionale - risanatrice per alcuni - possa di per sé, aprire chissà quali prospettive future di libertà e progresso. La violenza è sempre e solo violenza. Come abbiamo già detto, la violenza ha una sua storia naturale. E rimane solo violenza, anche se nasce da una situazione di oggettivo disagio. Non basta toccare, magicamente, il punto limite della disorganizzazione sociale.
Il vero problema è come lo si tocca, con chi, e con quali progetti ricostruttivi. Soprattutto quando, come oggi, non esistono - si pensi solo alla pericolosa superficialità di certi dibattiti in Rete - un serio progetto alternativo, una classe dirigente alternativa capace realizzarlo, un’elite culturale onesta e sincera, un movimento sociale ben radicato e non ricettacolo di “spostati”.
Prendere atto che la violenza è un fattore storico e sociologico ciclico non vuole dire assolutamente celebrarla o accettarla in modo passivo. Ma comprendere freddamente che la storia non ammette scorciatoie o salti e che è meccanismo assai complesso. La violenza per la violenza non serve a nulla. Anche se frutto di risposte meccaniche a oggettivi processi sociali di disgregazione: non esistono solo il "Sociale" o solo l'Economico, come meccanismi auto-riproduttivi, esistono anche il "Culturale" e il "Politico" che dirigono e completano, dal punto di vista dei significati profondi, i meccanismi sociali ed economici .
Il vero problema delle rivoluzioni non è tanto ( o solo) conquistare il potere, quanto quello di gestirlo "dopo la vittoria" : di come trasformare (recependo il costruttivo insegnamento - quasi dispiace dirlo - delle grandi rivoluzioni borghesi) la violenza rivoluzionaria, anche dura, in sincero, solido e democratico consenso popolare. O se si preferisce la violenza in “forza” culturale e politica: il pugno chiuso in mano tesa e aperta. E per far questo servono uomini, idee chiare e istituzioni, non chiacchiere pseudo-rivoluzionarie da intellettuali frustrati e cinici , pronti a mandare al massacro sempre gli altri: gli ingenui idealisti, spesso giovanissimi. Quasi sempre tra i primi a cadere.

Carlo Gambescia

lunedì 18 maggio 2009

L’Ocse, i salari italiani 
e la decrescita (di cui nessuno si è accorto)




Come al solito destra e sinistra faranno finta di cadere dalle nuvole. Anche se per quel che riguarda l’Italia i dati contenuti nel Rapporto 2008 dell'Ocse sulla tassazione dei salari non dicono cose del tutto nuove ( http://www.ansa.it/opencms/export/site/visualizza_fdg.html_962688533.html - http://www.oecd.org/home/0,2987,en_2649_201185_1_1_1_1_1,00.html ). E' una novità che la busta paga degli italiani sia tra le più leggere all’interno dei paesi industrializzati? Non crediamo proprio.
Sulle trenta nazioni che fanno parte dell'organizzazione internazionale, l'Italia, con un salario medio annuo netto di 21.374 dollari, si colloca al ventitreesimo posto, esattamente come l’anno passato. Restando dietro a Gran Bretagna, Giappone, Stati Uniti, Germania, Francia. E davanti a Portogallo e agli ex paesi comunisti, da poco entrati nell’Ue.
Il salario medio di un italiano non giunge a 16.000 euro l'anno, qualcosa più di 1.300 euro al mese. Il che significa che nel 2008 gli italiani hanno, grosso modo, intascato il 17% in meno della media Ocse. I salari restano bassi anche se confrontati con la media Ue a 15 (27.793 euro ) e con la Ue a 19 (24.552 euro).
I dati riguardano il salario netto medio di un lavoratore single senza carichi di famiglia. Inoltre viene espresso in dollari e in termini di parità di potere d'acquisto, inclusa dunque dinamica dei prezzi interna a ciascun Paese.
Che fare? Difficile dire. Non ci sono ricette miracolose. Come al solito la destra sosterrà che i bassi salari sono frutto di un mercato del lavoro ingessato, mentre la sinistra chiederà di sostenere il potere d’acquisto. E così si ritornerà a parlare della riduzione del cosiddetto cuneo fiscale, dividendosi però, come al solito, sulle diverse spettanze a datori di lavoro e dipendenti, in termini di risparmi fiscali. Acqua fresca, se ci passa l’espressione.
Il punto è che la dinamica salariale, piaccia o meno, non può non essere legata alla produttività del lavoro, che per quello che riguarda l’Italia resta - e da anni - molto bassa. Produttività che, a sua volta, è legata a quella più generale del "Sistema Economico Italia" (cui devono contribuire tutti: da Marchionne in giù, e non solo i lavoratori dipendenti) , espressa - certo, rozzamente - in valori Pil. Valori che rischiano di diminuire ulteriormente, o comunque di rimanere stazionari, se la crisi economica dovesse perdurare per tutto il 2009, cosa del resto molto probabile.
Semplificando: l'Italia non è un'isola. Il che significa che la produttività nazionale è legata a quella internazionale... Pertanto gli spazi interni di manovra economica sono limitati. E non è neppure sicuro che produrre di più nell'ambito di un sistema mondiale in recessione, possa dare immediato sollievo all'economia. Fermo restando il punto che la base salariale italiana è già bassa.
Insomma, seppure non ci troviamo in un vicolo cieco, poco ci manca...
In conclusione, piaccia o meno, ma l'unico dato sicuro, almeno per ora, è che ogni punto di Pil in meno, significa meno soldi nelle tasche degli italiani. Soprattutto in quelle di coloro che già ne hanno pochi.
In certo senso la decrescita, da alcuni auspicata, in Italia è già iniziata... 

Carlo Gambescia

venerdì 15 maggio 2009

L'immigrazione clandestina diventa reato 
Il capro espiatorio



“REATO DI CLANDESTINITA' - L'immigrazione clandestina diventa reato. L'articolo 21 del ddl introduce nell'ordinamento italiano il reato di "ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato". I clandestini, in base alla nuova disciplina, non rischiano l'arresto, ma si vedranno infliggere un'ammenda dai 5mila ai 10mila euro. La norma renderà obbligatorio denunciare i clandestini all'autorità giudiziaria tranne che per i medici e i presidi per i quali è stata prevista un'apposita deroga”. (…)
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NEI CIE FINO A 180 GIORNI - L'extracomunitario che arriva in Italia senza permesso di soggiorno potrà rimanere nei Cie (Centri di identificazione ed espulsione) fino a 180 giorni. Ora il periodo è di due mesi.(…)
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SI' ALLE 'RONDE' - Associazioni di cittadini potranno segnalare alle forze dell'ordine situazioni di disagio sociale o di pericolo. Saranno iscritte in elenchi e dovranno essere formate prioritariamente da ex agenti “http://www.ansa.it/opencms/export/site/notizie/rubriche/daassociare/visualizza_new.html_961818060.html

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Oggi per protesta avremmo voluto tacere. Ma non ci siamo riusciti. Ed eccoci qui.
Dobbiamo subito osservare che l’introduzione del reato di immigrazione clandestina è per noi fonte di grande amarezza, perché ci fa sentire inutili. Dopo una vita segnata dalla fatica di studiare i fenomeni sociali per arricchire la qualità della vita di tutti. A partire dalla giusta necessità di migliorare i rapporti fra le persone di cultura diversa. Che tristezza.
Ma entriamo in argomento.
Il ddl prevede non l’arresto ma una multa. Il che però sul piano sociologico ha lo stesso valore. E spieghiamo perché.
L’introduzione del reato di immigrazione clandestina (a prescindere dall’arresto o meno) indica soltanto una cosa. Che ha vinto la falsa necessità di indicare un capro sociale espiatorio: il migrante. Da immolare sull’altare della pubblica sicurezza degli italiani: una vergogna.
Perché si rischia - ecco il punto - di trasformare l’Italia in uno “Stato di polizia”. E sotto questo aspetto l’istituzione delle ronde è sintomatico : le ronde sono utili solo per tenere vivo uno stato di allarme sociale che si autoalimenta grazie alla diffusione della paura sociale. E che non può non risolversi nel progressivo trattamento delle persone - tutte le persone a cominciare dagli immigrati - come puri e semplici ostacoli, al normale “andamento” della vita sociale… E qui si pensi, come esempio di svilimento della persona, al prolungamento fino a 180 giorni della permanenza nei Cie, dove si vive in condizioni sub-umane, dell’extracomunitario senza permesso di soggiorno.
Riteniamo perciò che il Governo Berlusconi stia giocando tutte le sue carte proprio sulla creazione del “Capro Sociale Espiatorio Immigrato Clandestino”. Dipingendo il migrante come nemico interno, per ricompattare collettivamente gli italiani, intorno alla figura “bonapartista" di Berlusconi, "primo comandante" e salvatore del “popolo” dall’ “invasione straniera”.
Creare un “capro sociale espiatorio” e soprattutto tenerlo costantemente vivo, istituzionalizzando una situazione di allarme, introduce un elemento di controllo sociale molto forte. E di semplificazione delle attività di polizia (preventive e repressive). In prospettiva il rischio più grosso per il cittadino è quello di perdere la propria libertà, magari in quanto “non denunciante” o “amico” di " immigrati clandestini pericolosi"...
Il pericolo principale è quello della definitiva istituzionalizzazione di un clima da barbara “guerra civile” nei riguardi dello “straniero”, rappresentato come potenzialmente pericoloso.
Di qui la nostra stanchezza ricordata all’ inizio del post. Nessuno ti ascolta. Compreso lo schieramento di centrosinistra, che in due anni di governo non ha aperto né chiuso ai migranti: ha semplicemente guardato dall’altra parte… E ora grida al fascismo…
Sotto questo aspetto la “destra nuova” di Fini che si vanta di essere libertaria, perché non ha votato contro un ddl che libertario non è? Tuttavia se volesse, potrebbe farlo cadere al Senato...
Infatti che c’è di meno libertario di un ddl che trasforma in reato la libertà di movimento, vero presupposto di ogni altra libertà ?
Carlo Gambescia

giovedì 14 maggio 2009

Il libro della settimana: Marzio Barbagli, Congedarsi dal mondo. Il suicidio in Occidente e in Oriente, il Mulino, Bologna 2009, pp. 526, euro 32,00.


https://www.mulino.it/edizioni/primopiano/testi/barbagli.htm


Che cos’è il suicidio? Un atto di libertà? O un atto contro se stessi e/o contro Dio? E oggi dal punto di vista sociale il suicida come viene giudicato? Quanto è mutato storicamente e sociologicamente, il metro di giudizio nei riguardi di quello che, dal punto di vista individuale, resta l’ atto anticonservativo per eccellenza?
A queste domande, e allargando l’analisi all’universo non occidentale, prova a rispondere Marzio Barbagli, professore di sociologia presso l’Università di Bologna (Facoltà di Scienze dell’Educazione), nonché membro eminente dell’establishment sociologico italiano e internazionale, in Congedarsi dal mondo. Il suicidio in Occidente e in Oriente (il Mulino, Bologna 2009, pp. 526, euro 32, 00).
Barbagli si propone soprattutto, se ci si passa l’espressione, di fare le bucce a quella che da oltre un secolo è la “Bibbia Sociologica” in argomento: Le suicide: étude de sociologie di Emile Durkheim.
In particolare Barbagli si propone di dimostrare l’infondatezza delle due principali tesi durkhemiane. Quali? Quella che con “l’avanzare della storia” il divieto di togliersi la vita sarebbe divenuto “sempre più rigido”. E quella che la riprovazione del suicidio sarebbe cresciuta grazie all’affermazione di una sacralità laica della persona umana, protetta dai poteri pubblici.
Vi riesce? Difficile dire. E non è questa sede per una analisi approfondita. Ci sembra però che il libro abbia una sua debolezza teorica di fondo. Pur rifiutando le tre principali categorie concettuali durkhemiane (suicidio altruistico, egoistico, anomico), Barbagli non riesce a costruire concetti analitici altrettanto efficaci, in particolare sotto l'aspetto socioculturale. E soprattutto commette un errore metodologico di fondo, gravissimo per un sociologo. Esamina il suicidio dal punto di vista delle intenzioni dell’attore sociale, e non da quello delle cause sociali, o se si preferisce, per dirla con Durkheim, dei “fatti sociali” . Ma anche culturali: omettendo, ad esempio, di ricorrere alle tipologie di mentalità socioculturale, coniate da un altro autore classico della sociologia, Pitirim A. Sorokin: ideazionale ascetica e attiva, sensistica attiva, passiva e cinica; pseudo-ideazionale, idealistica.
Si veda lo schema in P.A. Sorokin, Social and Cultural Dynamics (Bedminster Press, New York 1962, vol. I, pp. 97-99). Tipologie utilissime per studiare il suicidio, come mostra, sempre Sorokin, ne La crisi del nostro tempo (Arianna Editrice, Bologna 2000, pp. 191-196).
Ma per combattere ad armi pari Durkheim e per riscoprire Sorokin, Barbagli avrebbe dovuto prima riflettere sui limiti teorici dell’individualismo metodologico. O comunque sulla necessità di temperarlo, in alcuni ambiti di studio come quello del suicidio, ricorrendo - certo, senza cadere nell’eccesso opposto - agli strumenti dell’olismo metodologico: dove sono appunto privilegiati i significati sociali e culturali. O se si vuole “il pensiero” delle istituzioni sociali.
E invece no. Scrive Barbagli: “Nelle pagine che seguono mi servirò di una tipologia (…) basata sui propositi degli individui e sul significato che esse attribuiscono al loro gesto” ( p. 15). Di qui la sua bipartizione concettuale del suicidio dal punto di vista del “contro chi” e "per chi" ( se stessi; anche gli altri), che resta psicologistica e quindi riduttiva. E a nulla serve l’ulteriore partizione del suicidio in egoistico e altruistico, aggressivo e come arma di lotta, condannata a muoversi, anch’essa, nell’alveo dell’individualismo metodologico, a sfondo psicologico.
Su queste basi resta perciò difficile seguire fino in fondo la pur densa opera ricostruttiva di Barbagli. Che anche sul piano storico finisce così per disperdersi nei mille rivoli di curiosità che possono solo avere valore antiquario, come certa sociografia d'antan alla Herbert Spencer. Senza così riuscire a dare risposta certa, e soprattutto sociologica, ai quesiti iniziali.
In questo senso Congedarsi dal mondo, resta un libro di psicologia o di storia sociale piuttosto che di sociologia. Peccato.
Carlo  Gambescia 

mercoledì 13 maggio 2009

Incontri
La Roma di Anna Magnani



Anna Magnani era una donna semplice e complicata al tempo stesso. Come la Roma di una volta: città che accoglieva, certo senza aprirsi completamente. Tuttavia mai indifferente, come invece è oggi.
Si racconta della Magnani, che già gravemente malata, voleva essere presentata ai medici come persona qualsiasi, ma al contempo trattata con i riguardi dovuti alla grande attrice…Ma si pensi anche alla celebre sequenza notturna del felliniano Roma, dove agli interrogativi fuoriorario del grande riminese, rispondeva con un lapidario: “A Federi’ ma va’ a dormi’ “…
Insomma, un donna e un’attrice con la gonna. Una vera principessa del popolo romano. Che la ricambiava chiamandola “Nannarella”.
Si ricordi anche il ruggito da leonessa ferita di Roma città Aperta. Lanciato all’inseguimento quasi carnale dell’uomo che sta per perdere. In quel momento cinema e vita si mescolano, dando così vita a un personaggio straordinario, che ancora esiste e resiste al di là di ogni contingenza storica o speculazione ideologica.
Eh sì, ci manca la Magnani... Come ci manca una certa Roma: l’altra grande protagonista dei suoi film. Una città oggi indifferente e rumorosa: priva di quegli squarci notturni e silenziosi, dove sull’acciottolato dei Banchi Vecchi, si udivano i passi e i battibecchi di Totò e Nannarella, come in Risate di gioia. O la Roma del sanguigno mercato di “Campo de’ Fiori” anni Trenta, dell’omonimo film con Aldo Fabrizi, dove i coltelli erano coltelli e i fratelli fratelli. E dove la Magnani, fruttivendola, mostra un cuore (antico)romano, generoso e bellicoso a un tempo. O ancora: la città pasoliniana di Mamma Roma, già sul punto di cambiare pelle, con le sue periferie polverose ma già appetite dai palazzinari. Dove la Magnani assomiglia a una Madonna dolente, che si incammina dietro la Via Crucis di un mondo suburbano. Privo però, “pasolinianamente”, di salvezza.
Come, infine, nell’episodio L’automobile, del ciclo televisivo Tre donne girato nel 1971, due anni prima di morire. Che preannuncia la Roma attuale: divorata dal traffico e dall’indifferenza. E dove la Magnani, nel ruolo di una vitale ex “mondana” (come si scriveva un tempo), comprende all’improvviso che la sua Roma è morta…. E lo scopre nella maniera più moderna: ferma sul ciglio della strada, a fianco dell’ambita macchina sportiva gravemente incidentata, vede sfilarle accanto il serpente di ferro delle automobili domenicali, con a bordo gente indifferente e affamata solo divertimenti.
E’ una Magnani dallo sguardo che cerca aiuto. E che resta impressa negli occhi. Quasi quanto l’ immagine del Nanni Moretti di Caro Diario, che, trent’anni dopo, si aggira in vespa, per gli stessi luoghi, alla ricerca di una città che non c’è più.
Ecco, immaginiamola, seduta dietro di lui. Con quella sua risata, forte e liberatrice, che ricorda una Roma vera. Quella di Nannarella. Che, come lei, purtroppo, non c’è più.


Carlo Gambescia

martedì 12 maggio 2009

Chiesa Cattolica 
Come “Medici Senza Frontiere”?



Ogni anno, quando si scatena la campagna per l'8 per mille, ci secca molto vedere la Chiesa, come si dice, con il cappello in mano. E soprattutto quell'insistenza a presentare se stessa come una qualsiasi organizzazione benefica. Ad esempio Medici Senza Frontiere.

Il che ci ha spinto a riflettere su quel che è emerso da un Seminario di studi sul tema “Religioni e Società (tendenze evolutive in Italia e nella scena Europea)”, promosso dall’Eurispes e dal Ripe, e tenutosi qualche mese fa. (http://www.imgpress.it/notizia.asp?idnotizia=40836&idsezione=4). Un interessante incontro che ha visto la partecipazione, tra gli altri, di Gian Maria Fara, Paolo Masotti, Sergio Arzeni, Evgheny Novosselov, Federico D’Agostino. Ma prima i fatti.
Secondo D’Agostino si dovrebbe conferire maggiore attenzione alla “religiosità popolare, essendo una delle fonti che alimenta maggiormente lo spirito religioso in Europa. Infatti, il senso religioso troppo spesso è confuso con l’assetto istituzionale della Chiesa”.
Il che indubbiamente è vero. Ma in parte fuorviante, perché si rischia di ridurre la religiosità (pratica) al puro senso religioso (individuale). O se si vuole, a fatto emozionale. E, come è noto le emozioni umane sono quanto di più profondo e nascosto possa esistere. Perciò come quantificarle? Ma non solo: un’ emozione, causata per esempio da una perdita, può produrre effetti “spirituali” molto differenti: può spingere a “ritornare” in chiesa, come a puntare su altre pratiche (meno “chiesastiche”), come tentare di mettersi in contatto con il defunto, per poter partecipare vittoriosamente a una puntata di “Affari tuoi”…
Perciò quando si indaga, o addirittura si celebra, la “religiosità popolare” certi aspetti ambigui, se non negativi, vanno tenuti presenti.
Di qui l’importanza di continuare a studiare forme istituzionali, quali la frequenza ai sacramenti. Insomma, il cristianesimo emozionale, può spiegare il perché di certe “riconversioni”, ma non sempre il loro “prolungamento” nel tempo. Frutto di una “sedimentazione” sociale e spirituale, legata alla partecipazione collettiva ai riti costitutivi della fede individuale, e perciò rilevabile empiricamente.
Certo, siamo pur sempre nel campo del probabile, perché la pratica, può restare un fatto circoscritto farisaicamente alla santa messa domenicale. Tuttavia la partecipazione ai sacramenti resta un dato obiettivo e misurabile. Altrimenti si rischia di scambiare per rinascita religiosa anche l’acquisto di un manualetto new age sulla spiritualità post-prandiale…
Ma c’è anche un secondo aspetto, introdotto, in perfetta buona fede, da un altro relatore. Secondo Sergio Arzeni “la presenza delle organizzazioni religiose nelle attività sociali e, in particolare, nello sviluppo del Terzo settore ricopre una rilevanza notevole vista l’urgenza di fenomeni sociali quali, ad esempio, l’immigrazione”.
Il che è vero e lodevole. Ma a una condizione. Che non si pretenda, come auspica certo laicismo, di ridurre la Chiesa Cattolica a pura organizzazione benefica.
E qui andrebbe fatta una notazione finale, suggeritami qualche tempo fa dall’amico drammaturgo Roberto Buffagni: “ Oggi la religione cristiana sembra non essere più necessaria a giustificare il principio ordinatore della società capitalistica. Per molti se c’è bene, se non c’è fa lo stesso. E nella vita sociale e nella storia, essere superflui è molto pericoloso” ( http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.it/2009/03/la-chiesa-cattolica-ai-tempi-di.html).
Perciò il vero rischio - per coloro che ovviamente credono in una Chiesa dottrinariamente più impegnata (o addirittura“militante”) - è rappresentato dal fatto che la Chiesa stessa, pur di non farsi considerare superflua, finisca in futuro per porre in secondo, se non terzo piano, i valori sacramentali del cristianesimo rivolgendosi più alla cura dei corpi che delle anime.
Come Medici Senza Frontiere. Appunto.

Carlo Gambescia

lunedì 11 maggio 2009

Quando la realtà supera la fantasia...
Videostupri?  No grazie


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Non diciamo nulla di nuovo affermando che la realtà spesso supera la fantasia. Infatti, come riferisce AdnKronos ( http://www.adnkronos.com/IGN/CyberNews/?id=3.0.3287603348  ) rischia di uscire anche in Italia il videogame giapponese dove vince chi stupra di più. Sembra incredibile in tempi di campagne sociali per contrastare la violenza contro le donne… Eppure è così. Purtroppo.
Ma prima i fatti. Il videogioco si chiama RapeLay’(rape: stupro, replay: ripetuto). E' nato nel 2006 e le sue immagini rinviano ai personaggi dei fumetti Manga. Fin qui tutto normale o quasi. Se non che il protagonista è un maniaco che in una stazione ferroviaria “punta” una famiglia, per dirla in sociologhese, monogenitoriale, composta di madre e due figlie. Donne tutte sole, che lui segue sul treno per usare loro violenza.
Esiste anche una versione, per più esperti, conosciuta come “modalita freeform”, che permette al personaggio controllato dal giocatore di agguantare qualsiasi donna incontrata durante la storia. E, quel che è peggio, di incitare altri attori-personaggi allo stupro di gruppo.
Ma quel che lascia basiti è il realismo: il giocatore sperimenta lo stupro a trecentosessanta gradi. Nulla gli viene risparmiato: pianti, lamenti, suppliche. Vince chi riesce a costringere le vittime ad abortire, per evitarne la vendetta. Un "regolamento di conti", che in termini di violenza, non è da meno di quella subita dalle donne: lo stupratore, se messo in fuga, rischia infatti di finire sotto le rotaie del treno. Il gioco è stato vietato in Spagna, Germania, America e Gran Bretagna, ma resta tuttora scaricabile da Internet.
Che dire?
In primo luogo, si deve distinguere tra violenza rappresentata e violenza reale. I due aspetti non possono essere meccanicamente correlati. Non è dimostrato che chi veda un film violento oppure passi ore davanti a videogames truculenti, poi metta in pratica… Ma non è neppure dimostrato che la violenza sublimata (attraverso i videogiochi, appunto) restringa la sfera della violenza praticata. Fermo restando il fatto che su personalità a rischio, benché si tratti di casi statisticamente poco rilevanti, è sempre possibile il passaggio, per così dire, dalla teoria all’atto.
In secondo luogo, va però rilevato, senza mezzi termini, che videogiochi come RapeLay sono moralmente ripugnanti. E non giustificabili. E per una semplice ragione. Il problema della violenza sulle donne non è una delle tante leggende metropolitane, esiste. Secondo un' indagine Istat, presentata nel 2007 (http://www.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/20070221_00/
 ) sono stimate in 6 milioni 743 mila le donne da 16 a 70 anni vittime di violenza fisica o sessuale nel corso della vita (il 31,9% della classe di età considerata). 5 milioni di donne hanno subito violenze sessuali(23,7%), 3 milioni 961 mila violenze fisiche (18,8%). Circa 1 milione di donne ha subito stupri o tentati stupri (4,8%).
Le cifre parlano da sole. E si corre veramente il rischio di offendere le vittime. Perciò si tratta di una questione, prima ancora che sociologica, morale. Al danno non si può aggiungere anche la beffa: RapeLay va proibito. Punto e basta.

Carlo Gambescia 

venerdì 8 maggio 2009

Riflessioni
I migranti respinti in Libia





“Chiamato in causa, il ministro dell'Interno parla di ’polemiche infondate’ e liquida le critiche con poche battute. ’I migranti soccorsi a largo di Lampedusa - ha osservato - non sono arrivati sul territorio nazionale italiano, ma in Libia e lì ci sono le organizzazioni che potranno verificare se sono presenti richiedenti asilo. Siamo in linea con i trattati internazionali’. Quanto alla sorte dei 227 migranti, afferma, ‘ciò che succede in altri Paesi non può essere preoccupazione del Governo italiano, noi ci occupiamo di chi arriva qui’ ” (http://www.ansa.it/opencms/export/site/visualizza_fdg.html_959145331.html)
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La risposta di Maroni, che non condividiamo, va però ben oltre la questione immigrazione e le polemiche destra-sinistra. Per quale ragione? Perché ripropone, e in modo radicale, un dilemma metapolitico fondamentale. Quale? Come conciliare etica e politica? Come conciliare l' imperativo etico che prescrive di aiutare chiunque sia in difficoltà, con il condizionalismo politico che subordina l'aiuto alla reperibilità e impiego di risorse scarse?
Certo, si può rispondere come Maroni: contrapponendo alla solidarietà universale quella comunitaria (“‘ciò che succede in altri Paesi non può essere preoccupazione del Governo italiano, noi ci occupiamo di chi arriva qui’ ”)… Ma è giusto eticamente? No.
Tuttavia qui si apre subito un’altra questione. La politica deve o può essere etica? E se deve esserlo, una decisione politica, che come detto si lega alla questione "condizionale" delle risorse scarse, fino a che punto può essere eticamente fondata?
Ferma restando la questione delle risorse scarse (che potrebbe essere risolta secondo alcuni fuoriuscendo dal capitalismo, il che però apre altre scenari ipotetici, tutti ancora da discutere…), riteniamo che in democrazia la politica possa seguire i sentieri dell' etica fin quando i cittadini lo consentano, democraticamente, con il loro voto. "Consentano", perché resta una controindicazione: una democrazia, a colpi di maggioranza, potrebbe approvare leggi (politiche) “anti-etiche”, trasformando il Può in Deve... Il che per una dittatura rischia di essere ancora più facile…
Tuttavia le soluzioni “anti-etiche”, come sostengono alcuni, potrebbero essere evitate educando eticamente i cittadini. Ma come? Ad esempio, facendo studiare a scuola l’etica dei diritti e della solidarietà universale? E che fare con i renitenti? Con difensori un’etica comunitaria nonostante tutto? Li si potrebbe mettere in prigione… In appositi campi, magari in "Centri di Accoglienza Per i Nemici dei Diritti Universali dell'Uomo"… Come si fa adesso con i migranti… Perché no?
Ecco, abbiamo usato un paradosso, per mostrare come alle tesi non eticamente condivisibili del Ministro Maroni, non sia possibile dare riposte facili. Soprattutto qualora si cerchi di trovare una terza via eticamente e politicamente accettabile, tra le frontiere ermeticamente chiuse e un solidarismo universale che presuppone risorse infinite e, altro aspetto da non sottovalutare, una non sempre facile omologabilità culturale. Perché è bene ricordare che spesso il migrante è portatore di una cultura comunitaria, poco conciliabile con certa etica universalista che caratterizza numerosi settori della società occidentale.


Ma qui ci fermiamo, sicuri di aver offerto agli amici lettori sufficienti materiali di riflessione critica.
Carlo Gambescia