mercoledì 19 settembre 2007

Ancora su Beppe Grillo

L'onestà è un valore politico?




Che cos’è l’onestà? E’ un valore pubblico o privato? E se è un valore pubblico è anche un valore politico? Ed eventualmente, quale ruolo può svolgere da punto di vista programmatico nel movimento "inventato" da Beppe Grillo?
Prima una premessa, piuttosto lunga ma utile per capire.
Basta sfogliare qualsiasi buon dizionario, per scoprire che dal punto di vista etimologico la parola onestà deriva dal temine latino honestum, onorato, che a sua volta discende da honos honoris, onore: onesto è colui che opera secondo i principi giuridici e le leggi morali della virtù e dell’onore. Inoltre il concetto di onore implica tre elementi sociologici: il sentimento della propria dignità; il desiderio di attirare la stima altrui, rispettando le norme di cui sopra; e per effetto di ricaduta sociale , il costituire un esempio per gli altri.
Ora, chiedere a gran voce come fa Beppe Grillo, che gli uomini politici debbano essere di “specchiata onestà”, indica due cose.
In primo luogo, che nelle istituzioni politiche attuali e negli uomini che ne fanno parte, virtù e onore sono tenuti in scarsa considerazione, per usare un eufemismo.
In secondo luogo, che questi uomini politici rappresentano un cattivo esempio per i cittadini. Infatti, se il desiderio di attirare la stima altrui rispettando le norme sociali e morali, non si traduce in comportamenti positivi, e dunque emulabili, i cittadini in misura crescente, finiscono per adottare, nella pratica quotidiana, lo stesso criterio della doppia verità (teorica e pratica), usato in alto: asserire una cosa (onesta) per farne un'altra (disonesta). L’onestà è perciò un “fatto socioculturale” a natura diffusiva ed emulativa . Inoltre, in Italia, il dibattito sulla “questione morale” si è sempre storicamente accompagnato alla critica della partitocrazia. E qui si pensi alle feroci critiche al “parlamentarismo” corrotto, nel periodo che precede Prima Guerra Mondiale; critiche poi coagulatesi nel primo fascismo (movimento). Ma, pur semplificando, si ricordi anche il ruolo svolto da correnti e gruppi politici come l’azionismo, il Pci Berlinguriano, il Msi almirantiano, il movimento “Mani Pulite” e infine il cosiddetto “Grillismo”.
Ora, una volta stabilito che l’onestà è un “fatto socioculturale” e che in Italia la sua rivendicazione si è sempre accompagnata alla critica della partitocrazia, va chiarito, se l’onestà sia o meno un valore politico in sé.
Come dovrebbe aver capito chi ci abbia seguito fin qui, si tratta di un valore “prepolitico”. Per farla breve: non crediamo nel “partito degli onesti”. Cioè in un particolare partito che si ponga "programmaticamente" come l' esclusivo difensore dell’ l’onestà.
L’onestà, almeno a nostro avviso, proprio perché è “fatto socioculturale”, deve innervare tutti i partiti e, soprattutto, la società nel suo insieme ( o comunque in larga parte). Dal momento che un partito che ponga se stesso come “maestro di moralità”, rischia di mettere fuori gioco tutti gli altri partiti, perché ritenuti, a torto o ragione, immorali, innescando così pericolose dinamiche monopartitiche. E, sotto questo aspetto, la parabola del fascismo dovrebbe essere istruttiva. Insieme, ovviamente, a quella dell’ antifascismo di impianto azionista, altrettanto settario e “monopolizzante” della “moralità” italiana. Come ad esempio mostrano, proprio in questi giorni, i velenosi articoli di Scalfari, contro il grillismo.
Certo, è comprensibile che un movimento sociale come quello di Grillo, ancora agli inizi, e in una situazione moralmente compromessa come quella italiana, non possa non puntare su un tema forte come quello dell’onestà. Ma fare della sola onestà un programma politico stabile, resta a nostro avviso pericoloso. Perché trasforma l’onestà, da elemento socialmente unificante, in “arma” politica per individuare, dividendo la società in buoni e cattivi, il nemico “interno” (il “corrotto”) ed espellerlo dal consorzio civile, come una specie di nemico dell’umanità. Anche a rischio di travolgere le libertà politiche. E', in certo senso, la stessa logica che anima il fondamentalismo dei cosiddetti diritti umani, difesi a suon di bombe...
La questione morale è importante, ma va affrontata in termini di processi sociologici e non politici: di formazione e selezione delle élite dirigenti. Si tratta, insomma, di dinamiche di lungo periodo. Il che significa, ribadiamo, che l’onestà in quanto “fatto socioculturale” non può essere introdotta per legge. O peggio ancora, attraverso i processi di piazza. Certo, è comprensibile che il grillismo, appena nato, cerchi di evitare il rischio di essere fagocitato dalla politica politicante. E quindi è più che giustificata, ripetiamo, la sua durezza nei riguardi dei corrotti.
Tuttavia, ci sembra saggia l’idea di Grillo, di limitarsi a promuovere, per ora, liste civiche locali, sulla base dell’attribuzione di un bollino di “qualità” circa l’onestà dei promotori. Spetterà poi a questi  ultimi fare politica, sulla base di programmi concreti.
Ovviamente, Grillo dovrà attendersi critiche dall’esterno, da parte dei politici di “lungo corso” che metteranno in discussione la sua autorità morale, e dall' interno, da parte dei “grillisti impazienti" di fare politica, “grande politica”.
Pertanto riteniamo che la soluzione del “bollino” sia ragionata ma provvisoria. Legata, certo, ai risultati politici delle future elezioni amministrative. Ma anche al fuoco mediatico, sicuramente non benevolo, cui verrà sottoposto nei prossimi mesi, il grillismo. E ai suoi effetti di ricaduta sulle dinamiche interne al movimento (tra moderati e radicali) , nonché sul carisma di Grillo.
Comunque sia, occorrono nervi saldi. E perseveranza, soprattutto organizzativa, perché i tempi della politica, particolarmente in Italia, sono lunghi. 
Carlo Gambescia

martedì 20 febbraio 2007

Antismo, una definizione



La dura polemica politica, tuttora in corso, sulle frange “antiamericane” presenti nel governo di centrosinistra impone di riflettere sulla pericolosità dell’ ”antismo”. Un termine, da noi coniato, prendendo spunto dal prefisso “anti”. Ma cerchiamo prima di scoprirne il significato sotto l’aspetto linguistico.
Sul piano definitorio è sufficiente aprire un qualsiasi dizionario, per scoprire che il prefisso "anti" indica “opposizione”, “avversione”. E che deriva dal greco ante.
Ma andiamo più a fondo.
Il termine “anti” appartiene alla cultura politica novecentesca, e ne riflette la natura dannosamente conflittuale, soprattutto sul piano culturale: quello del costruttivismo ideologico totalitario racchiuso nell' espressione: "se le mie idee non sono in linea con i fatti, tanto peggio per i fatti". Un'enfasi costruttivistica che ritroviamo in tre "antismi": antifascismo, anticomunismo, antiamericanismo.
Ovviamente, la nostra è una pura e semplice ricognizione, priva di qualsiasi pretesa di completezza scientifica. Deve rappresentare un puro stimolo per ulteriori e più approfondite indagini.
Il termine antifascismo, come “avversione al fascismo” viene fatto risalire a Mussolini: “Chi è contrario al fascismo” (1920) [Si veda M. Cortelazzo e P. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, Zanichelli, Bologna 1990, vol. I, p. 60].
Il termine anticomunismo, che a grande linee, risale al periodo tra le due guerre mondiali, è per la prima volta definito chiaramente, come “avversione al comunismo” - per l’area linguistica italiana da Paolo Alatri, storico comunista, sulla rivista “Rinascita” (1946) [ si veda M. Cortelazzo e P. Zoli, op. cit, vol. I, p. 59].
Il termini antiamericanismo, non è ancora largamente presente nei dizionari. Difficile perciò ricostruirne con precisione le origini storiche e linguistiche, anche solo per l’Italia. Ad esempio nel Dizionario della lingua italiana , La Biblioteca del Sapere - Corriere della Sera, Milano-Bologna- Bergamo 2004 (già Sabatini Colletti), che abbiamo a portata di mano, “Antiamericano” è chiunque sia “contrario, polemico, con la politica, la cultura, l’ideologia dominante negli Stati Uniti d’ America; riferito a uno stato, a un partito avversario degli Stati Uniti”. E lo si fa risalire, senza ulteriori spiegazioni storiche al 1985 [ vol. 23-I, p. 196]. In realtà, e stando agli storici, il termine, e non solo per l’Italia, risale agli anni Trenta del Novecento, e agli ambienti fascisti e comunisti [ si vedano i lavori di Michela Nacci: L’antimericanismo in Italia negli anni Trenta, Bollati Boringhieri, Torino 1989 La barbarie del comfort. Il Modello di vita americano nella cultura francese del Novecento, Guerini e Associati, Milano 1996]. Per quello che invece riguarda la sua accezione contemporanea, la data più verosimile sembra essere il 1987. Ne parlò per primo l’ambasciatore americano Price, che in un articolo apparso all'epoca sul Guardian, definì “l’antiamericanismo (…) un modo di sentire amorfo, totalmente soggettivo (…), difficile che si trovi un accordo sul darne una definizione accettabile”. Il che però non toglieva - queste le sue conclusioni - che “oggi ne vedo moltissimo, in Inghilterra e in Europa” [ L’antiamericanismo in Italia e in Europa nel secondo dopoguerra, a cura di P. Craveri e G. Quagliariello, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004, p. 73].
E qui purtroppo, anche per ragioni di leggibilità del “post”, dobbiamo fermarci. Ci scusiamo, naturalmente, per la premessa filologica-storica e storica e per le pedanti citazioni. Le quali, tuttavia, suggeriscono le seguenti conclusioni.
In primo luogo, il prefisso “anti” privilegia una concezione del mondo totalitaria. Chi è "anti" è radicalmente contrario alla concezione che reputa opposta alla sua. Che, subito però viene difesa, con altrettanta violenza da chi subisce l'attacco. E così via, lungo una spirale dell’odio. Il che significa, sul piano della cultura politica, la fine di ogni libero dibattito.
In secondo luogo, quanto sopra, mostra la natura ideologica dell’ “antismo”, e soprattutto come sia legato a una forma di comunicazione politica fortemente simbolica, nata in un “secolo di ferro” volta a squalificare totalmente il nemico, mettendolo completamente fuori gioco. A ogni costo, anche limitando la democrazia. Il che significa, sul piano della pratica politica, la fine di ogni libera partecipazione.
In terzo luogo, come abbiamo già accennato, condividere l’ “antismo” significa, in certo senso, autorizzare, il “nemico” a farne uso, a sua volta. E qui, ad esempio, si pensi alle guerre, non solo ideologiche, tra comunisti “antiamericani” da una parte, e “antifascisti” “anticomunisti” ma non antiamericani dall’altra. Gli uni odiano gli altri, come nemici “ assoluti”. Il che ha provocato e provoca l’ imbarbarimento progressivo del conflitto politico, perché all’avversario, al quale si dovrebbe in qualche misura umano rispetto, si sostituisce meccanicamente il nemico assoluto, da sterminare per ragioni di barbara prevalenza ideologica.
Ora, dovrebbe essere chiaro quanto l’ ”antismo” sia pericoloso. E continuare a screditare i movimenti “antiamericani”, enfatizzandone per ragioni ideologiche la pericolosità, ne favorisce, oggettivamente, la radicalizzazione.
L’ ”antismo” è una strada senza ritorno. 

Carlo Gambescia

venerdì 9 febbraio 2007


Filosofia televisiva
Ridi che ti passa




“Ridi che ti passa”: ecco la filosofia spicciola dell’intrattenimento televisivo. Con la controindicazione, che dopo le risate, i problemi personali o sociali sono ancora tutti lì. Dove erano prima…
Certo, si tratta, in fondo di una constatazione banale, che tuttavia molti si guardano bene dal fare. Si sta zitti e si preferisce far sognare la gente a reti televisive unificate. Per dirla ancora una volta con Guy Debord, laicamente santificato dopo morto: “Lo spettacolo è il cattivo sogno della moderna società incatenata, che non esprime in definitiva se non il proprio desiderio di dormire. Lo spettacolo è il guardiano di questo sonno” (§ 21).
Ma non solo. Perché lo spettatore ama pure identificarsi con il suo sogno e parteggiare, appena si presenta l’occasione, per i protagonisti della società della spettacolo. Come impone l' l’homo ludens che è in tutti noi.
Di recente, hanno fatto rumore certe dichiarazioni di Pippo Baudo, sulle quale gli italiani si sono subito “divisi”. Ma anche qualche anno fa accadde lo stesso, quando tra Antonio Ricci e Claudio Bonolis scoppiò la crisi “dei pacchi”. Ricci, se ricordiamo bene, accusò Bonolis di favorire alcuni concorrenti raccomandati. E di recente le stesso accuse (infondate) sono state mosse a Flavio Insinna. Oggi Bonolis è a Mediaset…
Ma, al di là, dei contenuti delle polemiche (spesso create e vivificate ad arte) quel che va sottolineato è l’interesse morboso, che le telecontese destano ogni volta nel “videodipendente ridens”.
Dopo che è scoppiato il "caso televisivo dell'anno" (si dice sempre così), se ne continua a parlare per giorni e giorni. E le domande sono sempre le stesse. Che farà Bonolis? Cosa risponderà Ricci? Che farà Pippo? Cosa risponderà il Papa? Ma Pippo non era democristiano? Chi vincerà la battaglia degli ascolti? E così via, con scemenze a pioggia sul telespettatore-spugna.
Debord, direbbe, che così, chi “dorme, continua a dormire, sognare, a non accorgersi di quel che gli accade intorno: guerre, povertà, disoccupazione, eccetera. I “dormienti" invece di dividersi sulle scelte che contano (ad esempio, pro o contro la politica estera italiana), si dividono su quelle che non contano: il Gabibbo ( del resto irreale, come un sogno).
La “sonnolenza” è indotta dal sistema stesso: chi si diverte acconsente. O se preferite, l'antico proverbio: chi dorme non piglia pesci. Per contro, rissosità e spirito partigiano vengono da lontano. All’ homo ludens di cui sopra, va affiancato lo stupido vizio italiano di litigare su problemi secondari (campanile e famiglia), per poi farsi invadere dallo straniero di turno (ad esempio, in campo televisivo, il Murdoch di turno). Ma quel che è tragicomico , è l’aspetto serioso che assume il videodipendente quando viene intervistato sulle ragioni delle contese fra Vip televisivi: si sente importante! O si fa l’Italia televisiva o si muore! Se, all’epoca della Seconda Guerra del Golfo, per ipotesi, si fosse discusso pubblicamente se inviare a Bagdad, invece dei carabinieri un reggimento di quizettari e strisciolinari televisivi, l’ Italia si sarebbe sicuramente divisa in due. Da un lato i tifosi di Mediaset, e dall’altro quelli della Rai. E tutti con striscioni, fumogeni e spranghe di ordinanza.
Se non che la partita, anche quella volta, l’avrebbe vita, come al Casinò, il banco: la conservazione dello status quo. Favorita, appunto, da una concezione melmosa del reale, dove spettacolo e vita, realtà e finzione, problemi veri e falsi sono mescolati insieme. Un palude, dove trovi chi ci sguazza (i media), chi ci campa (i Vip televisivi), chi ci crede (i videodipendenti).
I primi stanno diventando sempre più pervasivi, i secondi più ricchi, i terzi più…
L’aggettivo lo indovinino i lettori.

Carlo Gambescia

giovedì 8 febbraio 2007


Pil e dintorni
Il fascino non tanto discreto del declino economico italiano




Ciclicamente si torna a parlare del declino economico italiano. Sembra quasi che destra e sinistra si siano date il cambio, solo per accusarsi a vicenda. Insomma, ci si accapiglia sul famigerato mezzo punto di Pil in più o in meno. C’è chi auspica più Stato, come talvolta chiede Tremonti; chi più concorrenza, come i professori del Corriere della Sera; chi più Stati Uniti come Giuliano Ferrara; chi meno tasse come Cordero di Montezemolo...
Ognuno dice la sua, ma tutti insieme ripetono a pappagallo: ripresa economica-ripresa economica-ripresa economica… Come se si trattasse di macchine da riparare e non di uomini e donne in carne e ossa. E ignorando un fatto fondamentale: che il declino è prima culturale e poi economico. Ci spieghiamo meglio.
In primo luogo, gli economisti, soprattutto quelli di tendenza liberista, quando sentono nominare la parola cultura, se avessero una pistola a portata di mano, la userebbero subito. Per quale motivo? Perché temono che le “chiacchiere” culturali, se tradotte in investimenti pubblici, possano incidere, e negativamente, sui conti dello Stato. Ad esempio, per l’economista di scuola liberale, un tasso di disoccupazione del tre per cento è fisiologico o frizionale (frutto della maturali “frizioni” tra domanda e offerta). Mentre per i lavoratore che è “dentro” quel tre per cento è una tragedia. Perdere il lavoro in una società, come la nostra, malata di successo e avvelenata dal denaro, significa essere considerati “culturalmente” falliti. Ma il liberista guarda altrove. Perché crede nel dio-mercato. Quel che conta è la crescita del Pil… E se poi qualcuno, come accade, perde il lavoro? Pazienza.
In secondo luogo, i politici pendono dalle labbra degli economisti. Di che si discute in questi giorni? Di tasse e solo di tasse: maggioranza e opposizione sono divise su tutto ma non sul fatto di volere frenare il declino italiano abbassando le tasse. Certo, poi si dividono su aliquote e tempistica. Ma non sul principio (semireligioso), e condiviso da tutti , che la riduzione delle tasse possa, prima o poi, far crescere gli investimenti (e dal quel "poi", dipendono, chissà, quante complicate microstorie umane...). Il che in assoluto non è del tutto falso. Ma, in realtà, quel che conta sul serio per un' economia umana e morale, non è tanto la crescita del Pil, ma lo sviluppo di infrastrutture culturali e sociali. Ad esempio, di università e scuole migliori o almeno funzionanti. Ma il politico, guarda altrove. O magari fa qualche vaga promessa. Chiedendo, ovviamente, all’elettore di avere pazienza. Tanta pazienza…
Ecco, questo “menefreghismo”, per le persone in carne e ossa, condensa bene le ragioni culturali del male italiano (e probabilmente, più in generale, della società tardo capitalistica). Fin quando economisti e politici si preoccuperanno della sola crescita economica, l’Italia continuerà a decadere.
Ma parlare di declino può anche essere utile. Dal momento che anche un dibattito, come l’attuale, così viziato dai tanti, forse troppi, pregiudizi liberisti, può - se si ha la giusta onestà intellettuale - far riflettere sugli errori compiuti. Crescere è importante, ma prima si deve investire “culturalmente”. Ma come? Investendo nei servizi sociali, nelle educazione civica e civile dei cittadini, nelle scuole, nelle università, nella ricerca… La crescita economica, deve cedere il passo alla crescita culturale collettiva. E in questo senso si potrebbe anche parlare di decrescita economica (rispetto ai precedenti, e fin troppo elevati in senso storico, tassi di crescita puramente economica).
Non è facile, ma sarebbe doveroso tentare. Crescere, moltiplicando le fratture sociali e la deprivazione culturale, non porta da nessuna parte.
Carlo Gambescia

mercoledì 7 febbraio 2007

I libri della settimana: H.J. Berman, Diritto e rivoluzione, il Mulino (Euro 25,00); S. Einsentadt, Sulla modernità, Rubbettino (Euro 28,00) .



http://www.store.rubbettinoeditore.it/catalogsearch/result/?q=eisenstadt                                         https://www.mulino.it/isbn/9788815110701                   


Oswald Spengler, il grando morfologo delle civiltà, nel Tramonto dell’Occidente (1918-1922) si pone domande radicali: perché nascono, si sviluppano e muoiono le culture? Si interroga su quella malattia morale che corrode dall’interno ogni civiltà. Un male che i popoli contraggono, appena viene meno l’idea di un destino comune. E culmina, a suo parere, nel declino geopolitico.
Di sicuro, si tratta di una filosofia della storia, poco gradita ai sostenitori del progresso lineare. Ai quali i tramonti non piacciono, perché convinti che sulla storia umana il sole continuerà a brillare alto per sempre. Ma purtroppo per loro - ecco la lezione di Spengler - le civiltà seguono un destino, certo millenario, che però ricorda quello del corso solare: alba, zenit e tramonto.
Vi è però un punto sul quale, pur nella sua grandezza, Spengler, non si interroga a fondo. E probabilmente - a nostro modestissimo parere - perché la sua visione chiusa, e talvolta determinista delle civiltà storiche, non prende in sufficiente considerazione le possibilità di trasformazione, non tanto delle civiltà in quanto tali, ma di certe sue particolari istituzioni. Perciò spesso alla “decadenza”, come hanno mostrato anche gli studi di Sorokin. non fa seguito la completa dissoluzione, ma la trasformazione, e spesso, la rinascita, sotto altre vesti, di alcune sue componenti culturali. Ad esempio, si pensi al destino del diritto romano, che ha segnato la cultura giuridica, non solo dell’Occidente, ma anche di altri popoli. Oppure, agli aspetti molto particolari che la modernità occidentale ha assunto, una volta recepita da altre culture, come quelle giapponese, indiana, cinese.
Su questi aspetti, come dire, “integrativi” della grande sintesi spengleriana, consigliamo due libri particolarmente interessanti. Complessi ma intriganti. Vediamo quali.
Il primo si intitola Diritto e rivoluzione. Le origini della tradizione giuridica occidentale (il Mulino, Bologna 2006, pp. 581, euro 25,00, www.ilmulino.it ). E ne è autore Harold J. Berman, professore emerito alla Harvard Law School. Il suo approccio è di tipo sociologico e storico. Ma anche di grande ricchezza intellettuale. Scrive Berman: “Parte del diritto romano sopravvisse, infatti, nel diritto popolare germanico, e quel che è più importante, nel diritto della Chiesa; anche una parte delle filosofia greca sopravvisse, ancora nella Chiesa; la Bibbia ebraica, naturalmente rimase in vita come Vecchio Testamento… In questa prospettiva non è che l’Occidente sia la Grecia, Roma e Israele, ma ci si riferisce ai popoli dell’Europa occidentale, che guardano ai testi greci, romani ed ebraici in cerca di ispirazione e li trasformano in un modo che avrebbe stupefatto i loro stessi autori”. In certo senso il diritto - e dunque anche quello romano - è nato e rinato più volte, mostrando così di essere creazione e rivoluzione al tempo steso. Ecco perché, aggiunge Berman, “un popolo che vive in una società in un determinato periodo” ha “la convinzione che la società stia in realtà crescendo o sviluppandosi decadendo e morendo”. Insomma, sotto la cenere delle morti e rinascite, cova sempre il fuoco dello spirito vitale dei popoli .
Il secondo testo consigliato è Sulla modernità (Rubbettino, Soveria Mannelli 2006, pp. 420, euro 28,00, www.rubbettino.it ). Ne è autore Samuel Eisenstadt, uno studioso di sociologia delle civiltà comparate, che attualmente è professore emerito nella Hebrew University di Gerusalemme. Il testo si avvale tra l’altro di una notevole prefazione di Luciano Pellicani, altro eminente studioso di sociologia storica. Ebbene, Eisenstadt ci accompagna per mano tra le “molteplici modernità”. E mostra come sia grande la capacità del moderno di incarnarsi in altre culture e di dare così vita a “tradizioni” moderne, ma “altre”. Ma lasciamo la parola all’autore: “ Una delle più importanti implicazioni del termine ‘molteplici modernità’ è che la modernità e l’occidentalizzazione non sono la stessa cosa: i modelli occidentali di modernità non sono le sole autentiche ‘modernità’, sebbene godano di una storica precedenza e continuino ad essere un punto di riferimento basilare per le altre”. Il che è provato dalla capacità indiana e giapponese di conciliare tradizione e modernità, in forme inconsuete, ma tutto sommato di successo. Al punto di creare società vivacissime, ma che non sono copie del “modello occidentale”. Oppure, al contrario, si pensi alle difficoltà cinesi, dinanzi alla complicata sintesi in corso d’opera tra giacobinismo occidentale, penetrato in Cina attraverso il comunismo e libertà economiche e di consumo di derivazione statunitense. “Non è la fine della storia” quella che stiano oggi vivendo, nota Eisenstadt, ma il frutto di una caratteristica tipica della modernità: quella dell’ “autocorrezione”, come capacità “di affrontare problemi non ancora immaginati nel suo programma originale”. E così di rimettersi così in gioco.
Probabilmente, uno Spengler redivivo, non sarebbe del tutto d’accordo. Ma apprezzerebbe il vigore e il coraggio di queste tesi. Al morfologo tedesco piacevano le sfide (per una rapida ma accurata sintesi del suo pensiero si veda O. Spengler, Morfologia economica, a cura di Luciano Arcella, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2005, http://www.libreriaeuropa.it/ ).
In conclusione, i tramonti sono suggestivi, ma non è detto, che ogni volta, come abbiamo visto, si debba ricominciare da capo. Bisogna avere pazienza, diremmo tenacia, e soprattutto essere capaci di riuscire a “scorgere l’alba dentro l’imbrunire”, come poeticamente notava uno spengleriano, molto particolare, come Franco Battiato. E in sostanza, questa, è la lezione di Berman e Einsenstadt. E non è poco.
Carlo Gambescia

martedì 6 febbraio 2007


Valori categorici  e diritto di  critica
Inimicizie assolute


Il Guardian ha pubblicato un appello di 130 intellettuali ebrei inglesi, volto a rivendicare il diritto di critica all’attuale politica israeliana verso i palestinesi (www.guardian.co.uk) . In Italia, un professore torinese di filosofia è stato accusato di antisemitismo e sospeso per aver criticato in classe la politica "sionista" del governo israeliano (www.comedonchisciotte.org ).
Probabilmente in Inghilterra c’è maggiore libertà che in Italia.
Quel che però più ci preoccupa dell’intera questione, è il muro contro muro in corso tra coloro che vogliono l’applicazione di leggi che puniscano estensivamente l’antisemitismo (fino a includervi la possibilità stessa di fare ricerche in argomento o su temi affini), e coloro che pur non essendo antisemiti, condannano la politica israeliana, in quanto "sionista" (colonialista), rivendicando un'assoluta libertà di critica politica e storica.
Per quale ragione si tratta di un fenomeno preoccupante? Perché ci troviamo dinanzi a due forme di assolutismo morale, o di etica dei principi. I sostenitori di leggi liberticide e i fautori della libertà di ricerca hanno in comune qualcosa di nobile e spaventoso al tempo stesso. Che cosa? La comune accettazione dell’ineluttabilità dell' obbligo morale (collettivo). E non importa qui analizzarne gli eventuali contenuti (etici). Va però fatta una precisazione: se l'obbligo etico ( fondato sull'idea del "crolli il mondo, ma io...") può avere valore e significato sul piano dei rapporti personali (da individuo a individuo), o su quello personale dell'esame di coscienza (l'individuo che riflette sul proprio comportamento morale), appena viene esteso ai rapporti tra collettività diventa pericoloso. Per quale motivo?
Perché le due parti si ritengono subito collettivamente depositarie di valori assoluti. E di conseguenza non possono non bollarsi reciprocamente come criminali e disumane. In questo senso, la logica della dialettica tra valore e non valore, implica una pericolosissima consequenzialità che attraverso un diabolico gioco al rialzo, spinge le parti in conflitto a "svalorizzare" progressivamente l’avversario, fino al suo annullamento totale.
Siamo perciò dinanzi alla schmittiana inimicizia assoluta. Che precede e implica necessariamente, ripetiamo, l’annientamento prima etico e poi fisico del nemico. L’inimicizia è tale, che qualsiasi prezzo da pagare per l’annullamento dell'Altro (collettivo), viene giudicato ragionevole . Il celebrato illuminismo delle leggi morali e delle libertà civili, appena si trasforma da individuale in collettivo, rischia perciò di divorare se stesso. E quel che è più grave i suoi fedeli...
Pertanto, l’esito finale del conflitto in atto, tra libertà di critica e imperio della legge, rischia di trasformarsi, prima in imbarbarimento collettivo, e poi nell’annientamento assoluto (etico e materiale) del più debole.
Quel che può essere eticamente giusto per il singolo, può essere catastrofico per la collettività. Di qui la necessità di un'etica della responsabilità ("quali conseguenze, se io, eccetera, eccetera?"), che tenga appunto conto del pericolo insito nei determinismi della "ragione collettiva" (o strumentale). E soprattutto della pericolosità sociale di ogni conflitto collettivo fondato sull'idea di obbligo assoluto verso qualsivoglia principio etico. Il che non è (e non sarà) mai facile, perché il richiamo delle grandi sfide etiche collettive affascina gli uomini, soprattutto se ricchi di ingegno e ambizione. Inoltre, l'etica della responsabilità, spesso transigendo troppo, favorisce la pura e semplice conservazione dello status quo, e dunque di certe storture sociali e politiche , giudicate come il mare minore.
Una cosa però è importante comprendere: la strada dell'etica (collettiva) dei principi, benché lastricata di buonissime intenzioni, è senza ritorno.

Carlo Gambescia

lunedì 5 febbraio 2007


Dopo i fatti di Catania
Tifo violento,  
sarà sufficiente la repressione?



Repressione, solo repressione. Dopo i fatti di Catania tutti sembrano essere d’accordo nell’auspicarla. Si liquida il tifo violento, che coinvolge in particolare i giovani, giudicandolo un fenomeno puramente delinquenziale. E non invece un fenomeno identitario, ritualistico e di folla. Che, indubbiamente, ha una sua pericolosità sociale, nessuno lo nega. Tuttavia se è comprensibile l’atteggiamento delle forze dell’ordine (che in fondo cercano di fare solo il proprio lavoro), non lo è quello di certi giornalisti e studiosi di scienze sociali.
E qui va fatta una breve digressione.
Le ricerche mostrano che il riflusso verso il privato degli anni Ottanta, ha implicato un progressivo calo di interesse verso la militanza politica. Un vuoto che i giovani hanno colmato “investendo” in altri settori del tempo libero, e dunque anche nell’ambito delle pratica sportiva e del tifo calcistico ( si veda il Quinto Rapporto 2002 sulla condizione giovanile a cura dell’Istituto Iard Franco Brambilla, http://www.istitutoiard.it/). Il mutamento di interessi si spiega con la crescente sfiducia verso partiti, istituzioni, forze dell’ordine. Se all’inizio degli anni Ottanta, due giovani su tre si fidavano delle istituzioni, oggi di fida solo un giovane su due. Questo dato fa il paio con l’accresciuta fiducia nei riguardi di famiglia e amici. E soprattutto con il diffuso apprezzamento (tre giovani su quattro) dell’amicizia come valore in sé. Ora, nessuno vuole sostenere che la sfiducia nelle istituzioni e la fiducia nel gruppo dei pari (età) si sia trasformata automaticamente in tifo calcistico e il tifo, a sua volta, in tifo acceso e violento. Ma in particolari condizioni di deprivazione culturale, isolamento sociale e incertezza lavorativa (un giovane su due tra i 25 e i 34 anni svolge un lavoro flessibile, e solo uno su due, tra i 15 e il 24 ha un’occupazione), il vischioso mondo del calcio e del tifo, incensato dai media sette giorni su sette e favorito dalle stesse società sportive, ha sicuramente rappresentato, per alcuni giovani “deprivati”, il terreno socioculturale perfetto per trasformarsi in ultrà.
Sotto questo aspetto, il tifo violento risponde perciò a una logica di tipo identitario. E spieghiamo perché. Il gruppo ultrà si riconosce e legittima, negando lo stesso diritto a un gruppo avversario (spesso altrettanto violento): è un riconoscimento “contro” qualcuno. E di questa contrapposizione identitaria, ne fanno le spese le forze di polizia, costrette istituzionalmente a frapporsi tra i due gruppi, come purtroppo è avvenuto a Catania. Inoltre, su questa forte logica di gruppo, si innescano i cosiddetti ritualismi collettivi (striscioni, cori, e coreografie varie), che agiscono da rinforzo psicologico, favorendo la “militarizzazione” del tifoso e la sua adesione a una visione mitologica e totalizzante della squadra di appartenenza. Il processo è questo: 1) l’isolamento socioculturale facilita l’aggregazione tra tifosi; 2) l’individuazione del nemico (l’ altro tifoso o il poliziotto), rafforza la coesione del gruppo; 3) il gruppo, grazie all’intervento del rito, acquisisce maggiore coesione e forza, espandendosi socialmente fin dove non incontra ostacoli (in genere istituzionali). La logica processuale del gruppo risulta perciò più importante dei suoi contenuti, che possono essere ripresi, in chiave occasionalistica, dalle ideologie più differenti. Pertanto, parlare di una curva di “stampo fascista” o “comunista”, è approssimativo e fuorviante, perché non consente di individuare la dinamica sociologica del fenomeno. In questo senso, il ferimento e l’uccisione di un tifoso avversario o di un agente di polizia (al di là della loro gravissima rilevanza penale), non sono fenomeni legati a una particolare ideologia politica, ma fatti simbolici. Perché assumono lo stesso valore rituale dell’uccisione del capro espiatorio. Infatti, come ci insegnano gli antropologi, si tratti di “atti” che fondano, rifondano, e consolidano il gruppo. Insomma, il gruppo ultrà è una vera e propria (micro)struttura sociale, che nell’universo hobbesiano del tifo violento, stabilizza e soddisfa, seppure in modo deviato e antisociale, uno spontaneo bisogno individuale di identificazione. E quanto più cresce lo stato di isolamento socioculturale in cui i membri del gruppo vivono, tanto più resta difficile impedire che i singoli cedano al richiamo protettivo “del branco” per dirla nel linguaggio sbrigativo di certi giornali.
Infine, lo stadio di calcio, è il luogo per eccellenza, dove i fenomeni di gruppo (fondati su identificazione e rito) si trasformano in fenomeni di folla. Perché?
In primo luogo, ogni individuo, anche se non appartenente a un gruppo di tifosi violenti, una volta immerso nella folla, acquisisce un pericoloso senso di onnipotenza: si sente psichicamente all’unisono con una grande quantità di persone, finendo per condividerne gli scopi immediati. In secondo luogo, certi sentimenti di odio e violenza, si trasmettono dal gruppo alla folla rapidamente, quasi per “contagio” psichico tra individui, per dirla con Le Bon. In terzo luogo, la folla subisce facilmente, come in stato di ipnosi, ogni improvvisa e nuova suggestione psichica (si pensi al panico che provocò tra i tifosi la falsa notizia della morte di un tifoso, diffusasi durante il derby Roma-Lazio nel 2004). Con tutte le tristi conseguenze del caso.
Questi tre fattori (identificazione attraverso il nemico, ritualità rafforzativa, trasformazione del gruppo in folla), sono alle origini di quel che è accaduto venerdì scorso a Catania. Ma identificazione e ritualità, sono fattori che rinviano a cause strutturali. Cosicché reprimere non serve a nulla. Mentre, sulla trasformazione del gruppo in folla si potrebbe intervenire, non chiudendo gli stadi, ma rendendoli meno anonimi e più vivibili sotto l’aspetto ambientale e architettonico.
In conclusione, il problema di fondo è quello di offrire alternative di vita a giovani che vivono in condizioni di isolamento e deprivazione socioculturale. Come? Tentando di sostituire alla logica del branco la logica della società civile. Il che non è certo facile, e nell’attuale situazione, può apparire degno di un utopista settecentesco. Ma puntare solo sulla repressione, senza almeno tentare di rimuovere le cause di fondo del "tifo violento", non è altrettanto irrealistico?

Carlo Gambescia

venerdì 2 febbraio 2007


(Meta) political comics
Libertà di caldarroste 
per tutti!



Qualche tempo fa, sulle pagine romane di una grande quotidiano nazionale è apparso uno di quei titoli che scompisciano, come diceva il grande Totò. Cito a memoria: “Caldarrostai, via libera alla sanatoria - Approvata al municipio tal dei tali la delibera per il rilascio di diciannove concessioni stagionali nel centro storico della capitale”.
Insomma, in un’Italia dove tutti si professano liberali e liberisti, da Berlusconi a Prodi, se uno decide di mettersi a vendere le caldarroste nel centro di Roma deve chiedere il permesso. Ed è inutile illudersi: quel che capita nel regno di San Veltroni da Pietralcina accade anche in altre città…
Il fatto è che quando uno legge certe notizie, non può non pensare che in Italia il “liberismo selvaggio” sia roba da venditori di fumo più che di caldarroste. Anche perché, a dirla tutta, di gretto corporativismo in giro ce n’è tanto, troppo. E ovviamente non mi riferisco agli ambulanti, che sicuramente non diverranno mai ricchi come Berlusca e De Benedetti (detto pure, dopo l'affondamento dell'Olivetti, "pochi (De)Benedetti e subito"), ma allo straripante corporativismo delle congreghe parasindacali, dei circoli ricreativi fasulli, dei birrai sociali, delle cooperative di plastica, eccetera. Troppo comoda prendersela solo con benzinai, tassisti e venditori di caldarroste, magari additandoli alle folle come nemici del popolo.
Per non parlare poi dei politici, di destra e sinistra, sempre pronti a favorire ogni forma di patteggiamento sottobanco: accordi, sanatorie, deroghe, condoni. Per poi andare da Vespa a difendere il libero mercato, con la coccardina del Rotary bene in vista.
Vedremo ora che succederà con le liberalizzazioni. Vedremo.
Eh sì, vita difficile, felicità a momenti... Soprattutto per chi avversa il liberismo ( ma anche lo statalismo), come il sottoscritto: non si riesce mai a trovare un nemico vero. Prevale il grigio: a parole sono tutti liberisti, ma di fatto inciuciano… Salvo poi far passare, come nel caso delle norme sulla flessibilità, il liberismo che piace ai poteri forti: massima mobilità per i dipendenti, minima o nulla per i pacchetti azionari. Pensate a quel che è accaduto a proposito della scalata di Ricucci e gnomi vari al Corriere della Sera: un bel pattone di sindacato, un bel pattuglione di magistrati, e l’Harry Potter dei Castelli Romani è subito ritornato alla casella di partenza… Magari con qualche miliardo in meno. E le ossa rotte... Gli stavano per sequestrare pure la consorte.
Certo, non vogliamo qui difendere gli “scalatori” alle pere cotte. Ma va riconosciuto che il capitalismo, quello vero (vedi gli Usa), è roba da mazzate: scalate fulminee, pacchetti azionari che cambiano di mano in pochi minuti, fortune che svaniscono in un attimo, gente che si suicida (oddìo pure da noi, ogni tanto…). Insomma, è una cosa seria, spesso tragica: e perciò ha una sua fosca grandezza... Nel paese di Rockefeller puoi vendere tutte le caldarroste che vuoi, dove vuoi, a chi vuoi, ma se il consumatore ti gira le spalle (perché le caldarroste sono care o cattive) vai a fondo come il Titanic. Altro che sanatorie circoscrizionali.
Vilfredo Pareto, forse uno dei pochi veri liberisti italiani, già un secolo fa si inferociva con gli industriali, da lui ritenuti vigliacchi, e soprattutto più amici dello stato che del mercato. Chi ha tempo e voglia si vada a rileggere le sue dense Cronache pubblicate sul Giornale degli Economisti. Anche all’epoca si sanava e si inciuciava, altro che libero mercato…
Lui, Pareto, ci si ammalò. Stanco di un' Italia che lo ingnorava, andò a insegnare economia e sociologia in Svizzera, a Losanna. E lì morì. Dopo essere stato abbandonato dalla prima moglie, una russa, scappata con il cuoco. Statalista pure lei? Boh...
Ma, per tornare agli ambulanti, va pure detto, che quest’anno per una, diciamo una, castagna arrosto chiedono 1 Euro.
Scrivete a Prodi.

Carlo Gambescia

giovedì 1 febbraio 2007


Macchina mediatica
E qui comando io! 



Sulla vicenda delle scuse chieste, e prontamente concesse da Silvio Berlusconi a Veronica Lario, sua consorte, non bisogna assumere un atteggiamento snobistico. Perché l’episodio può invece essere un’occasione per capire come funzioni la politica-spettacolo, e come sia uno strumento per far sì, che lettori e telespettatori restino alla larga, dalla politica. Quella vera, fatta di conflitti su problemi concreti.
In primo luogo, il meccanismo mediatico funziona oggi sulla base dell’agenda mediatica ( i temi che devono essere affrontati, secondo criteri politicamente corretti), e della possibilità di accrescere e monopolizzare l’interesse del pubblico e dunque gli introiti pubblicitari. E l’agenda, attualmente, impone la valorizzazione di vicende private, meglio se sentimentali e scabrose, da portare a conoscenza, per ragioni puramente commerciali, del più ampio numero di spettatori e lettori. Su queste basi, appena si presenta l’occasione ( ma spesso viene creata a tavolino, si pensi, appunto alla pubblicazione, non certo causale, della lettera di Donna Veronica su Repubblica), si mette in moto un meccanismo a spirale, che in pratica, costringe i media di ogni tipo a essere sulla notizia prima degli altri. Dopo di che entra in atto un specie di moltiplicatore al rialzo (approfondimenti, interpretazioni, ulteriori dettagli sensazionalistici). Cosicché la macchina mediatica procede a velocità folle, fin quando non interviene, per linee interne, un veto dalle alte sfere economiche e politiche, oppure, come spesso accade, una “saturazione del mercato” di "quella certa" notizia. Il sistema, nel suo insieme, è molto rozzo ma efficace.
In secondo luogo, e qui entriamo nello specifico, la lite tra Veronica e Silvio, chiamiamola così, ha subito rappresentato una ghiotta occasione. Per quale ragione? Innanzitutto, perché rifletteva i principali temi fissati e discussi dell’ agenda del politicamente corretto mediatico-politico: famiglia, diritti delle donne, Silvio, “fascista e macho”, Veronica “democratica e antifascista”, eccetera. E inoltre vista la notorietà dei due personaggi era in gioco la possibilità di trasformare il “salotto” di casa Berlusconi, in una specie di “salotto” mediatico nazionale: qualcosa a metà strada tra “il Grande Fratello” e “Anche i ricchi piangono”. E così è stato. Quest’ultimo l’elemento (il ricco che piange), rinvia alla politica-spettacolo, dove il politico si trasforma in attore e lo spettatore in curioso guardone e giudice (per una volta) delle vite dei più fortunati … Di solito, e in modo interessato, questo aspetto viene presentato come una forma di umanizzazione delle politica. Se ci si passa la battuta, chi si contenta gode…
In terzo luogo, ed è quel che è accaduto ieri, episodi del genere, se opportunamente “lavorati” (titoli a tutta pagina, aperture a ogni telegiornale, editoriali di rinforzo, speciali opportunamente mirati, alla Vespa o alla Lerner, ), possono “veicolare" l’attenzione del pubblico verso problemi, che in realtà non hanno alcuna importanza. Facciamo qualche esempio: è più importante la felicità dei coniugi Berlusconi o quel che stanno combinando gli americani a Vicenza? Sono più importanti le lacrime e lo sdegno di Donna Veronica o il fatto che la legge 30 sulla flessibilità rimarrà tale e quale? Sono più importanti le proteste contro la Tav (e il destino di quelle popolazioni) o le scuse del Cavalier Berlusconi? Insomma, il black-out informativo di ieri ( fino a notte fonda si è parlato solo della coppia “più famosa” d’Italia), mostra quanto sia facile per i mezzi di comunicazione sociale “veicolare” l’attenzione del cittadino verso tematiche di politica-spettacolo, prive di qualsiasi rilevanza politica concreta. Quel che è accaduto ieri è da manuale. E, soprattutto, mostra quanto sia pericolosa una macchina mediatica, funzionante, solo sulla base di criteri puramente commerciali. All’interessato coro mediatico, infatti, si sono subito uniti intorno, e trasversalmente, giornali, televisioni e radio, anche locali.
Il che dovrebbe far riflettere sulla forza dirompente della macchina mediatica. Che, ma questa è una nostra privata opinione, ormai sa benissimo da sola, quando aprire il fuoco, intensificarlo, e soprattutto smettere. Di qui la difficoltà di scoprire e dunque controllare democraticamente i suoi referenti politici (del resto ormai trasversali).
Probabilmente, oggi più che mai, i media, rispondono a un solo dio: il denaro.

Carlo Gambescia

mercoledì 31 gennaio 2007


Il libro della settimana: Niklas Luhmann, Osservazioni sul moderno, Armando Editore, Roma 2006, pp. 144, Euro 12,00

http://www.ibs.it/code/9788860810083/luhmann-niklas/osservazioni-sul-moderno.html

Il pensiero sociologico di Niklas Luhmann (1927-1998) è complesso ma molto interessante. Luhmann ha scritto, da solo e in collaborazione, circa una quarantina di libri. Tedesco, laureato in giurisprudenza e sociologo per scelta, alla non più verde di età di quarant’anni, dopo aver dato il meglio di sé, nell’amministrazione pubblica, come specialista in sistemi di archiviazione. Ma anche attento lettore, per tutta la vita, dei classici della sociologia. E in particolare di un “quasi classico” come l’americano Talcott Parsons, che conobbe personalmente. Anche per Luhmann la società risponde a una logica sistemica e funzionale. Il che rivela una sensibilità conservatrice, legata a certo organicismo sociologico: dove tutto si muove, secondo una logica d’insieme, che presuppone, come nel famoso apologo di Menenio Agrippa, l’ accettazione condivisa dell’ordine sociale. Non per niente, Luhmann venne definito da Habermas un conservatore. Per contro, lo stesso Luhmann, preferiva definirsi un puro e semplice sociologo: un osservatore che cercava di capire i fatti sociali, al di là delle possibili ricadute politica delle sue riflessioni. Pareto, diceva di sé, più o meno, la stessa cosa…
Una buona occasione per scoprirlo è rappresentata dalla lettura di Osservazioni sul moderno (Armando Editore, Roma 2005, pp. 144, euro 12,00). Dove sono facilmente individuabili, anche grazie alla scorrevole traduzione, i principali temi del suo pensiero.
In primo luogo, per Luhmann, il mondo moderno è un fenomeno complesso. Il che impone non la resa totale (come capita a sinistra), ma invece - proprio perché l’uomo ha bisogno di punti di riferimento (e qui si avverte l’influenza di Gehlen) - la riduzione della complessità. Come? Conferendo un senso culturale alle azioni umane. Tradotto: valori. Il che implica, che la politica si trasformi nello strumento comunicativo di un senso condiviso. In certa misura, la politica deve essere se non produttrice, almeno sicura interprete dei valori culturali del suo tempo. Per capirsi: attenta alle tradizioni, ma al passo con i tempi.
In secondo luogo, per Luhmann, il mondo moderno, come mai nella storia, è segnato dal rischio. Che significa? La complessità di tecniche e idee, impone la possibilità di una pluralità di scelte, e quest’ultima implica la possibilità di sbagliare. Ma il rischio di errare va accettato, perché legato alla decisione: solo chi non decide mai non rischia sbagliare…
Va detto - per amore di verità - che all’ interesse per la riduzione della complessità e per la decisione, si uniscono in Luhmann una minore attrazione per la storia e una certa tendenza a delegare al sistema più che all’uomo, il funzionamento dell’ordine sociale. Ma, come si è già notato, siamo davanti a una sensibilità, intelligentemente conservatrice, piuttosto che a una netta scelta politica. Ad esempio, la sua teoria sociologica del diritto, che sfocia in un elogio del proceduralismo, (benché di tipo sistemico), può lasciare perplesso chi si sia nutrito di letture schmittiane.
Ma ai grandi, quelli veri, qualcosa si deve sempre perdonare.
Carlo Gambescia

martedì 30 gennaio 2007


Analisi
La censura?  
Un brutto vizio



Quando si legge delle disavventure distributive che colpiscono certi film “politici”, non ci si deve stupire più di tanto. E qui si pensi a quelle subite, due anni fa da un film come quello di Michael Moore, Fahrenheit 9/11 : un vero e proprio atto di accusa contro Bush. Certo, le nostre sono società formalmente democratiche, ma ciò non significa che non possano essere distinte, come ogni altro gruppo sociale (storico o meno), da una pratica antica come l’uomo, quella della censura.
Ma iniziamo dal significato del termine.
La censura è una forma di controllo sociale, basata sul principio, secondo cui, determinate idee, opinioni, informazioni possono minare l’ordine costituito (morale, religioso, politico, eccetera). Ogni epoca ha avuto le sue vittime. E in ogni società la censura ha sempre trovato numerosi amici e nemici. I primi di solito tra i governanti e i secondi tra i governati. Un esempio classico è quello del conflitto tra paganesimo e cristianesimo. Prima di Costantino ( e a più riprese) i cristiani avevano subito ogni tipo di vessazione. Con la parificazione giuridica (chiamiamola così) tra cristiani e pagani, voluta dallo stesso imperatore, si ebbe un periodo di tregua e tolleranza, Ma appena il cristianesimo divenne religione ufficiale ricominciarono le persecuzioni, ma questa volta, contro pagani ed eretici. Sia chiaro, non intendiamo dare alcun giudizio morale (pro o contro i contenuti ideologici delle persecuzioni): ci limitiamo a osservarle e descriverle, come un geologo marino, deve osservare e descrivere il flusso e il riflusso delle maree.
Questo, per dire, che dove vi è società, purtroppo, vi è anche censura, Il bisogno di ordine, o comunque di stabilità, insito in ogni gruppo sociale ( a prescindere dal suo credo, e da quello di chi scrive), implica il conformismo, imposto dall’alto, magari con la forza, o accettato in basso per convenienza, fede o persuasione razionale. Ovviamente, come in ogni fenomeno sociale, vi è un minimo e massimo di durata, estensione e tollerabilità da parte dei singoli. Ad esempio, la Chiesa Cattolica della seconda metà del XX secolo (malgrado molti sostengano il contrario) è molto più “liberale” di quella della prima metà del XII secolo (tralasciando l’aspetto della sua creatività teologica, massimo in quell’epoca). E in questo senso ha subito (almeno per alcuni) un’evoluzione positiva. Il totalitarismo sovietico, con i suoi apparati costrittivi è durato poco più di settant’anni. Insomma, oltre certi limiti di umana sopportazione non è possibile andare: stabilità e conformismo devono perciò venire a patti con il libero giudizio dell’individuo. Altrimenti invece dell’ordine si crea il disordine, e si finisce per favorire il declino culturale, sociale ed economico.
Da questo punto di vista la società moderna presenta alcune caratteristiche particolari. Innanzitutto, delle tre forme tipiche di censura (politica, morale-sociale e religiosa) ha conservato quella politica. Viviamo in una società che celebra la massima libertà individuale di costumi e consumi. La censura si è perciò secolarizzata: si possono seguire le pratiche sessuali e di acquisto più eccentriche. Ma, attenzione, non si possono porre domande che mettano in discussione il “sistema” in quanto tale, come appunto, faceva Michael Moore, a suo tempo, attaccando Bush e il suo gruppo di potere. Inoltre, la censura si è fatta più capillare, sottile e complessa. Soprattutto attraverso l'opera dei media, sempre rivolti a celebrare i valori del consumo di ogni tipo di merce (anche umana) e del profitto. Si cerca di creare abitudini tali, da rendere impossibile, o poco praticabile, ogni forma alternativa di valori, pensiero e comportamento. A ciò si aggiunge una “compattezza” di interessi economici, sulle due sponde dell’Atlantico, che non ha eguali nella storia dell’Occidente. Guai perciò a parlare male, della globalizzazione e dell’imperialismo Usa, come appunto cerca di fare, tra mille difficoltà, certa cinematografia indipendente. Perché si viene subito isolati e attaccati dai cosiddetti poteri forti dell’economia (in questo caso le major hollywoodiane). E, purtroppo, siamo giunto al punto, che non si accettano più, neppure sottili (sì, sottili, perché è necessario andare oltre le immagini forti) indagini sul potere, come quella di Mel Gibson (si veda il post dell'11 gennaio 2007)
Quali conclusioni?
Come abbiamo già sottolineato, esistono limiti, oltre i quali la censura, anche quella dei “moderni”, non può spingersi, pena la sopravvivenza stessa del gruppo dirigente che la pratica e dei governanti che la subiscono. Generalmente quando la censura si fa più severa, soprattutto in politica, come nel mondo tardo ellenistico, o tardo imperiale romano, significa che il “sistema", pur espandendosi o consolidandosi economicamente, è entrato in una fase di transizione (che può anche preludere alla dissoluzione, ragionando però per secoli…). Ma non è detto che sia sempre così. Ad esempio, oggi siamo appena all’inizio di una nuova fase di sviluppo imperiale. Indubbiamente, la nostra società ha risorse tecnologiche e militari sconosciute agli antichi. Ma tecnica e forza pura (applicata), da sole non bastano Come prova l’interesse mondiale suscitato, a suo tempo, dai film di Moore.
Ciò però non significa che anche coloro che oggi sono dalla parte di Moore, o se si vuole i critici della “globalizzazione”, come si dice,  a guida americana, non possano, una volta giunti al potere ricorrere, per restarvi il più a lungo possibile alla pratica delle censura. Perché, purtroppo, il potere tende sempre a riprodursi.
Perciò, può piacere o meno, ma le società ( e la censura) funzionano così.
Carlo Gambescia

lunedì 29 gennaio 2007


Rapporto Eurispes 2007
Un' Italia schizofrenica 
(tanto per cambiare)



Una breve premessa. Spesso i giornali non ne parlano, perché si tratta di questioni troppo tecniche. Ma è bene che il lettore sappia e capisca. Che cosa? Che gli annuali ritratti, tracciati dall’Eurispes (http://www.eurispes.it/.), sono dal punto di vista del metodo particolarmente interessanti. Perché puntano sulle differenze di comportamento degli italiani, piuttosto che sulle conformità. Infatti, il suo presidente Gian Maria Fara ama parlare, in modo immaginoso, di un metodo d’indagine che si ispira alla “dialettica degli opposti”. Probabilmente perché è proprio questa, la chiave antropologica giusta, che consente di decifrare meglio i comportamenti degli italiani. I quali, più di altri popoli, usano da sempre dividersi e ricomporsi, in modo schizofrenico, tra essere e apparire.
E, sotto questo aspetto, anche il Rapporto 2007, non delude. Perché illustra chiaramente, quanto questa “polarità” sia ancora assai diffusa nei comportamenti. Iniziamo, dando però, qualche dato sintetico.
Secondo il Rapporto - che si basa su interviste a campione - un italiano su due sente di avere meno soldi in tasca: la metà delle famiglie dichiara un reddito inferiore a 1.900 euro al mese. Ma al tempo stesso si asserisce che la principale preoccupazione non è il costo della vita ( il 15,8 % contro il 23,6% del 2006). Di conseguenza il 25 % degli intervistati afferma di continuare a viaggiare per turismo, come e più di prima. Lo stesso accade per il tempo libero: il 20,7% afferma di essere stato costretto ad annullare le spese per le attività ricreative, ma il 27,5% dichiara di non aver modificato le proprie abitudini. La risposta probabilmente è nella crescita del credito al consumo: le erogazioni delle sole banche alle famiglie, tra il 2000 e il 2006, sono cresciute del 77 % . Anche i prestiti delle società finanziarie sono aumentati nello stesso periodo dell’84 %. All’ indebitamento, corrisponde l’aumento del fatturato delle imprese: gli italiani continuano a “comprare” (magari a rate…) Crescono anche i profitti delle grandi imprese quotate in borsa. Mentre diminuiscono i redditi da lavoro dipendente.
Interessanti, anche i dati sui diritti civili postmoderni: un italiano su tre è favorevole al matrimonio tra omossessuali. Il 67% dice sì al Pacs. Diminuiscono i contrari all’eutanasia (dal 1987 ad oggi sono passati dal 40,8 % al 23,5 %). Ma il 60,7% si dichiara vicino alle posizioni dottrinarie della Chiesa, benché il dato sia in calo rispetto al 2006.
Crescono i matrimoni misti: si passa dal 3,3% del 1993 al 14,3% del 2005. Tuttavia il numero delle coppie che divorziano è elevato. In pratica una coppia mista su tre si separa, mentre il tasso dei divorzi è il doppio di quello delle coppie italiane. Restano, perciò, alcuni dubbi sulla reale volontà degli italiani di creare una società multietnica, solida e duratura. Anche perché due italiani su dieci continuano ad attribuire solo agli stranieri il presunto aumento della criminalità.
Inoltre, sono oltre 2.130.000 i soggetti che hanno "sniffato" cocaina almeno una volta nella vita, e quasi 700mila, coloro che lo hanno fatto nell’ ultimo anno. Il prezzo medio della "polvere bianca" è diminuito da 99 a 87 euro nel corso degli ultimi 4 anni: il costo cala e il consumo aumenta. La crescente popolarità di questa droga riguarda soprattutto gli uomini tra i 25 e i 34 anni; dal 2000 al 2005 gli utenti in carico presso i Sert sono più che raddoppiati (rispetto al totale) raggiungendo la quota record del 13,2 %.
Infine, l'evasione fiscale arriva a superare i 210 miliardi, ed è pari a circa 6 volte la Finanziaria 2007. Secondo stime Eurispes, nel 2007, il maggior carico per color che pagano le tasse sarà tra 9,5 e 10 punti in più rispetto alla pressione consueta. Il 69,1% degli italiani ritiene molto grave l'evasione fiscale. E quasi due italiani su tre si dicono d’accordo con l'affermazione secondo cui “è indispensabile pagare le tasse allo Stato perché la collettività possa avere un livello accettabile di servizi pubblici". E qui è facile concludere che gli italiani predicano bene ma razzolano male …
Quanto alle istituzioni, resta alta la fiducia nelle forze dell’ordine (il 73,5 % degli intervistati); segue quella nel presidente delle Repubblica, Giorgio Napolitano (il 63,2%); nella magistratura (il 39,8 %); nel governo (il 30,7 %); e infine nei partiti (12,6 %). Però, circa il 47 % del campione intervistato, dichoiara, rispetto al 2006, di avere maggiore sfiducia nelle istituzioni in quanto tali.
E, ora, le nostre conclusioni.
Che dire? un italiano su due continua a non sentirsi povero. E uno su quattro a non avvertire alcuna crisi. Evidentemente, è proprio l’ economia del debito che riesce a mantenere a un livello di tollerabilità sociale spese e morale degli italiani. E di riflesso quello delle imprese. Le quali, rispetto al 2006, hanno addirittura aumentato gli ordinativi del 9,3 % . Mentre, come tradizione vuole, un italiano su due, continua a non fidarsi dello Stato ( e sempre meno delle istituzioni politiche: governo e partiti). Infine, incrociando le diverse percentuali, si scopre che tre italiani su dieci, finiscono per risultare favorevoli, sia alla morale cattolica tradizionale, sia a quella relativistico-postmoderna, incarnata dai pacs.
Insomma, gli italiani, cercano di tenersi a galla in tutti modi, ricorrendo (se capita) all’evasione fiscale e (sempre più) al credito al consumo. Mentre sul piano dei diritti civili e delle scelte morali si persevera nell’etica dell’occasione: nella stessa persona, soprattutto di età matura, (dal momento che gli anziani, over 65, sono il 20% della popolazione, e i giovani tra i 15 i 34 anni, il 25%), continuano a convivere in modo schizofrenico, e secondo convenienza, l’evasore e il cittadino modello, il cattolico all’antica e il relativista postmoderno, il gaudente e il povero. E perché no? Anche l’ottimista e il pessimista…
Ma fino a quando? Di sicuro, sul piano economico, fino a quando l’indebitamento al consumo non diverrà un peso insopportabile per singoli e famiglie. Invece, su quello dei comportamenti morali e sessuali, potremmo vederne delle belle (o delle brutte, secondo il punto di vista): il relativista postmoderno potrebbe anche avere la meglio sul cattolico all’antica… Quanto alla sfiducia nelle istituzioni potrebbe, anzi dovrebbe, andare sempre peggio. Ma questa non è una grande novità.
Carlo Gambescia

venerdì 26 gennaio 2007


Urbanizzazione e capitalismo
 Nostalgia delle  "zone depresse"




Franco Battiato in una canzone degli anni Ottanta, Zone depresse, colse molto bene il problema. Quale? Quello dell’arrivo “della modernità” e del conseguente fugone verso le grandi città. Nel Sud italiano, nota Battiato, la fine della cultura tradizionale, giunse quando qualcuno chiese per la prima volta “un po’ di vino con l’idrolitina”... Con le bollicine arrivarono la città, la cultura urbano-consumistica e il lavaggio dei cervelli: la città è ricca, la campagna povera; la città è bella, la campagna brutta; la città è moderna, la campagna antiquata; il cittadino è sveglio, il contadino stupido, e così via…
Stando a libri molto belli, come quello di Mike Davis (La città degli slum, Feltrinelli 2006), nel Sud del Mondo le cose sarebbero andate proprio così: in Asia, Africa, America Latina, l’ultimo mezzo secolo, o giù di lì, avrebbe visto i contadini impoveriti, richiamati, come zanzare impazzite, dalle luci della città, trasferirsi in grandi centro come San Paolo, Nairobi, Phnom Phen, sovraffollandoli. Dove non hanno trovato una “vita facile e moderna”, ma solo fatiscenti bidonville. Si tratta di un miliardo di persone.
Con chi prendersela? Col capitalismo? Certo. Il modello di urbanizzazione selvaggia, oggi in atto, è lo stesso che i contadini inglesi, provarono sulla propria pelle, durante la rivoluzione industriale, tra il Settecento e l’Ottocento. Nelle fasi di avvio, il capitale ha sempre necessità di manodopera a buon mercato e batte le campagne, svuotandole. Pertanto nulla di nuovo sotto il sole. Se fosse tutto così semplice, si potrebbe sperare nel lieto fine: come inglesi ed euroamericani, anche i cambogiani, tra un secolo, o giù di lì, potrebbero godersi i frutti del capitalismo maturo. E invece no. Perché la rivoluzione industriale in Occidente non conobbe avversari, mentre i poveri cambogiani dovranno vedersela un po’ con tutti. Perciò campa cavallo mio…
Insomma, fin quando durerà il mito della città, alimentato culturalmente dall’immaginario capitalista, che su di esso prospera, sarà molto difficile che le baraccopoli mondiali svaniscano. Per chi è povero, rinunciare alla città, significa far cadere anche la speranza in quella vita migliore che promette, la suadente pubblicità, ieri dell’idrolitina, oggi di un telefonino, domani di una vacanza su Marte.
Il gioco è al rialzo. E difficilmente un capitale sempre più globalizzato, smetterà, a sua volta, di vendere sogni a rate. Per due ragioni: uno ci guadagna; due, chi consuma o spera di consumare, vuole godersi, in ogni caso, i fuochi d’artificio, e raramente si prende la briga di disturbare l’artificiere.
C’è però una controindicazione. Le luci della città, sotto sotto intristicono l’inurbato. Come hanno sottolineato i demografi: chi si trasferisce in città, anche in una bidonville, dopo un po’ finisce per fare meno figli. Cosicché quel miliardo di cui sopra, potrebbe aumentare di poco, restare tale, o perfino diminuire. Molti ex contadini, assaliti dalla febbre della nostalgia, potrebbero tornare al paesello natio. Per bersi un bicchiere di vino senza idrolitina.
Purtroppo, il problema è che quelli rimasti al paesello, potrebbero invece continuare a sognare il vino con le bollicine. E a fare figli...
Carlo Gambescia

giovedì 25 gennaio 2007


Il cinema italiano secondo Rifondazione Comunista
Autarchico 




La proposta di legge  del Prc  sull’introduzione di un tetto alle pellicole extraeuropee rappresenta soprattutto un tentativo di tenere sotto controllo l’invadenza economica e culturale del cinema Usa. Dal momento che il "pericolo",  per ora, non proviene  assolutamente dalla cinematografia asiatica e africana
Ora, la domanda è questa: la (quasi) autarchia culturale che ruolo può giocare in un mondo dove basta connettersi a internet per immergersi nel brodo culturale hollywoodiano? La nostra riposta è sicuramente sgradevole per i fautori e sostenitori del provvedimento. Infatti, una legge di questo tipo, può svolgere un ruolo secondario, soprattutto se la cultura, diciamo così, che tenta di “chiudersi”, è già profondamente imbevuta degli stessi valori che vuole respingere…
E qui vanno subito ricordate due cose.
In primo luogo, la percezione dei processi socioculturali dei firmatari del disegno di legge risulta piuttosto superficiale. Innanzitutto, non basta chiudere i “rubinetti”. Perché - se ci passa la metafora non particolarmente raffinata - va prima messo controllo l’intero apparato idrico, per scoprire le eventuali perdite… Insomma, la cultura hollywoodiana non è “passata”, e “passa”, solo mediante il cinema. Ma circola anche attraverso la televisione, la letteratura, eccetera. E’ un po’ come - per restare in metafora - tentare di turare le falle di un impianto idrico in pessime condizioni. Inoltre, spesso la resistenza a idee che non sentiamo nostre, nasce proprio per contrasto: magari vedendo un film, leggendo un libro, eccetera. E, allora, perché non credere nelle capacità critiche dell’individuo? Anche perché il rapporto tra idee e società si svolge su due livelli: quello della recezione (nel senso di accogliere: guardare semplicemente il film), e quello successivo del recepimento (condividerlo e meno criticamente). Insomma, non poi è così scontato, che lo spettatore di una pellicola Usa, possa meccanicamente trasformarsi in un sostenitore (di tipo robotico) del modello di vita americano. Del resto come i cinefili ben sanno, esiste negli Stati Uniti un cinema indipendente e molto critico verso l’establishment e il sistema di vita americano.
In secondo luogo, ammesso e non concesso, che la legge possa (iniziare a) funzionare, resterebbe il problema dei valori socioculturali sostitutivi. Per farla breve: esiste una cinematografia (e in senso più generale un cultura europea) in grado di contrapporsi a livello di massa (perché il cinema parla a tutti) a quella americana? E qui non è facile rispondere in senso affermativo. Perché, è vero che i cosiddetti film di autore europei, veicolano valori critici e interessanti, ma si tratta di un cinema per pochi eletti. Mentre il resto della produzione cinematografica è piuttosto triviale (si pensi solo a certi “film natalizi” italiani), e già da tempo imbevuta di valori edonistici, consumistici, e ispirati alla pura spettacolarizzazione della violenza, secondo il modello hollywoodiano-americano. E, anche ammesso e non concesso, che il cinema europeo possa prima o poi risollevarsi grazie alla (quasi autarchia), come sostengono gli ottimisti, all’inizio, potrebbe essere molto dura. Il cinema perderebbe spettatori. Mentre gli stessi valori combattuti continuerebbero a circolare in altri settori mediatici. E la sua crisi, già evidente da anni, potrebbe avvitarsi su stessa. Tra la protesta di produttori e distributori. E lo scontento di un pubblico ipnotizzato, ormai da alcuni decenni, dai muscoli di Rocky Balboa.
Che fare allora? I provvedimenti autarchici (o quasi) nazionali, non servono molto. Il discorso andrebbe aperto in sede europea, approntando controlli più generali (continentali) sulla domanda e offerta di cinema Usa. E soprattutto sviluppando politiche di sostegno diretto alle produzioni europee. Ma sul piano europeo esiste unità di intenti sotto questo profilo? Per il momento pare di no (a parte l’eccezione francese). Inoltre, resta il problema della cultura “alternativa” di massa. Una cultura da creare di sana pianta. E sulla base di valori europei. Ma, ripetiamo, quali? Religiosi, laici, liberali, socialisti, comunitaristi, individualisti, locali, nazionali, eccetera. E come veicolarli in un’economia di mercato, dove conta solo il profitto e ogni intervento pubblico viene condannato? Purtroppo, nel campo della cultura di massa il patriottismo costituzionale non è sufficiente.
Dispiace dirlo, ma come una sola rondine,  anche una sola legge non fa primavera…

Carlo Gambescia

martedì 23 gennaio 2007

Il libro della settimana. Jeffrey C. Alexander, La costruzione del male. Dall'Olocausto all'11 settembre, il Mulino, Bologna 2006, pp. 239, Euroa 15,00.

https://www.mulino.it/isbn/9788815108951

La costruzione del male. Dall’Olocausto all’11 settembre (il Mulino, Bologna 2006, pp. 239, euro 15.00) è uscito nel giugno dello scorso anno. E finora, purtroppo, è passato inosservato. Il che è un peccato, perché si tratta di un libro importante, e almeno per due ragioni.
In primo luogo perché permette di scoprire la ricchezza della ricerca teorica di Jeffrey C. Alexander, docente a Yale, dove è anche co-direttore del Center for Cultural Sociology. L'autore, un sociologo, ha scritto da solo e con altri, una trentina di libri. Tra i quali l’importantissimo Theoretical Logic Sociology (1982 -1983, 4 voll.), l’ intrigante raccolta su Durkheim (Durkhemian Sociology: Cultural Study, 1988), nonché un dissacrante saggio dedicato a Pierre Bourdieu (racchiuso in Fin-de-Siècle Social Theory: Relativism, Reduction and the Problem of Reason, 1995). Oltre, ovviamente, ad altri notevoli lavori dedicati alla sociologia culturale. Una disciplina, che Jeffrey concepisce, non tanto come analisi delle istituzioni (compito che già appartiene alla sociologia della cultura), quanto dei codici narrativi e discorsivi, che caratterizzano in termini funzionali, interagendo tra di loro, ogni cultura. Di conseguenza, la cultura viene vista come insieme di pratiche, volte alla riproduzione del sistema sociale. In questo senso, anche il sociologo vive immerso nella culura, anzi lui stesso, studiando e insegnando, fa cultura, o, appunto, sociologia culturale. Per chi desideri saperne di più sull’Alexander “teorico”, si consiglia la lettura della voce Funzionalismo e neofunzionalismo (da lui scritta in collaborazione con Paul Colomy), in “Enciclopedia delle Scienze Sociali”, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1994, pp. 199-214. Anche perché, finora, Alexander, al di là degli ambienti specialistici, è poco noto. La costruzione del male, se ricordiamo bene, è il suo terzo libro tradotto in italiano.
In secondo luogo, la sociologia culturale, non è solo “roba” da professori. La costruzione del male, ribadisce come ogni società abbia proprio nella cultura il suo centro vitale. Un cuore pulsante, dove si mescolano emozioni, speranze, paure. Tutti sentimenti che, inevitabilmente, si traducono in narrazioni, che spesso assumono valore normativo. Dal momento che l’uomo sociale è capace di "costruire" il bene come il male”. Attenzione : non solo di “fare” il bene e il male, ma di “rappresentarli”, attraverso determinate strutture culturali, normative. Di qui il funzionalismo al contrario di Alexander, che si volge allo studio del male, che in apparenza, può sembrare “disfunzionale”. Mentre in realtà non lo è: perché svolge una precisa funzione identitaria e culturale. Certo, si tratta di un'antica idea filosofico-teologica, quella della dialettica tra bene e male. Ma Alexander ne fa una lettura sociologica, privilegiando il lato del male. Come nel caso dell’Olocausto, del quale, e giustamente, non viene mai messa in discussione in tutto il libro la verità storica. Alexander ne studia la rappresentazione culturale che i superstiti e le generazioni successive ne hanno dato. Sotto questo aspetto anche l'Olocausto diviene uno strumento simbolico, che come ogni strumento di questo tipo, ha fornito, dopo il 1945, senso storico e morale alle sue vittime, fornendo codici linguistici, letterari, cinematografici, giornalistici, dei quali il sociologo di Yale ricostruisce, molto attentamente origini e sviluppo. Tuttavia, come capita alle rappresentazioni collettive, a un certo punto, come scoprirà il lettore, anche la rappresentazione dell'Olocausto assume forza propria, andando oltre gli iniziali desiderata umani. E così i codici che avrebbero dovuto favorire il superamento del “dramma traumatico”, legato all’ evento-storico-Olocausto, e lenire funzionalmente le ferite, ottengono l'effetto contrario. Perché? Alexander pone l’accento sul “dilemma dell’unicità”. Lasciamolo parlare: “ Fu proprio questo status - di evento unico - che alla fine lo fece diventare generale e departicolarizzato. Questo perché come metafora del male radicale, l’ Olocausto forniva un criterio di valutazione per giudicare il male delle altre manifestazioni. Fornendo un tale criterio di giudizio comparato, l’Olocausto è diventato una norma, e ha dato il via ad una successione di valutazioni metonimiche, analogiche e legali, che l’hanno deprivato della sua unicità stabilendo il grado di somiglianza o differenza da altre possibili manifestazioni del male” (p. 103).
Per metterla in termini teorici generali: per un verso, la costruzione sociale del male subito, divenendo fonte di identità, può stabilizzare una collettività, spingendola ad andare oltre il suo passato, per quanto doloroso; per altro verso, la forzata "unicizzazione" del male subito, favorendo comparazioni e conflitti (non solo interpretativi) con altri gruppi sociali , può finire per porre in discussione la verità storica del male subito. Ma anche, di riflesso, minare la capacità di tale gruppo, dal punto di vista della costruzione sociale, di individuare un punto di equilibrio tra la "medicazione" di ferite ancora aperte e il suo naturale bisogno (collettivo) di identità.
Ovviamente, abbiamo fornito una ricostruzione molto semplificata di un libro complesso, ma ricco di stimoli, non solo sociologici (si leggano le interessanti pagine dedicate all’ “idealizzazione americana dell’11 settembre”. Che aiuta a capire - scivolando purtroppo nella triste attualità politica italiana - che il disegno di legge Mastella per punire il negazionismo della Shoah, se approvato, finirà per non giovare alla stessa comunità ebraica, e in prospettiva, alla causa di Israele. Perché, essendo basato sull' idea dell' unicità, moltiplicherà le comparazioni e i conseguenti conflitti, e per giunta, consentirà ai negatori ideologici dell’Olocausto di atteggiarsi a perseguitati.
Un vicolo cieco.

Carlo Gambescia