Che la destra, in particolare quella di derivazione fascista, nutra verso giornali e giornalisti una profonda antipatia, se non addirittura odio, è un dato di fatto. Anche storico: il fascismo distrusse la libertà di stampa e per vent’anni sull’Italia calò il silenzio. Si poteva alzare la voce solo per celebrare il "Duce".
Basti ricordare che fu proprio il fascismo a introdurre l’Ordine dei giornalisti: per avere la tessera, e quindi lavorare in un giornale, serviva quella del partito. Detto tutto.
È dunque difficile immaginare che un partito come Fratelli d’Italia, nato da una tradizione postfascista, possa guardare con simpatia al conduttore di “Report”, Sigfrido Ranucci, ultimo dei mohicani di sinistra in Rai. Le sue inchieste hanno spesso infastidito il governo di Giorgia Meloni. Anche mafia e camorra sono nel mirino di Ranucci.
Tuttavia – sia chiaro, si tratta di una nostra ipotesi puramente giornalistica – la bomba rudimentale esplosa dinanzi alla sua abitazione, un chilo di polvere da sparo con accensione a miccia, una specie di superbomba carta (come riferisce “Domani”), non fa pensare a un cartello criminale organizzato, ma piuttosto a qualche cane sciolto dell’estrema destra per cui Ranucci, una “maledetta zecca” (come si dice in certi ambienti), rappresenta un nemico simbolico. E, detto per inciso, avrebbe potuto ferire gravemente, o addirittura uccidere, chiunque si fosse trovato a passare, a cominciare dal direttore di “Report”.
È improbabile che vi siano stati ordini dall’alto: più verosimile che si tratti di mine vaganti. Ma – ed è questo il punto – da quell’ambiente politicamente complessato, attraversato da rancore e risentimento, dove per ideologia si disprezzano giornalisti e giornali, possono uscire, come dicevamo, “cani sciolti”.
Escluderemmo quindi la pista mafiosa, e anche quella anarchica, che pure fa uso di esplosivi artigianali, ma che, appartenendo a un’altra area culturale e politica, difficilmente annovererebbe Ranucci tra i nemici. Certo, come piazza Fontana insegna, le infiltrazioni sono sempre possibili. Vedremo.
Purtroppo i fantasmi di Matteotti, don Minzoni, Amendola, Gobetti, dei fratelli Rosselli e di tanti altri antifascisti ci ricordano che la destra nostalgica e il terrorismo nero del dopoguerra si sono sporcati le mani di sangue.
Conosciamo già la risposta puerile: “E allora la sinistra?”. Si finge di dimenticare che l’Italia ha brevettato il fascismo e, per forza di cose, anche il suo antidoto: l’antifascismo. È vero, nel campo antifascista – soprattutto nelle sue frange leniniste – è germogliato anche il terrorismo rosso. Ma quella è una deviazione, non la regola: una degenerazione di quell’idea umanitaria che, nella tradizione socialista e riformista, ha comunque cercato di costruire una società più giusta.
Per contro, il fascismo ha sempre teorizzato la violenza come elemento costitutivo: una reazione all’umanitarismo e all’internazionalismo socialista. È una concezione del mondo dura a morire, che ancora oggi avvelena non solo la destra dei “cani sciolti”, ma talvolta anche quella istituzionale, come mostra l’accanimento – non solo retorico – contro i migranti e la fortissima simpatia per il modello nazionalista.
Ecco perché, sì, c’entra eccome con l’attentato a Sigfrido Ranucci. E non è una questione di attestati di solidarietà: atti dovuti.
Il punto è che pesciolini con la miccia e pescioloni in doppio petto nuotano nella stessa acqua ideologica: in alto più limpida, in basso più torbida, ma sempre la stessa acqua.
E finché la destra che oggi governa l’Italia non farà i conti con il proprio passato fascista, la libertà di pensiero e di parola – e chi le incarna – resteranno in pericolo. Proprio come accadde a Matteotti, don Minzoni e a tutti gli antifascisti trucidati dai sicari di Mussolini.
Carlo Gambescia




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