martedì 31 maggio 2022

L’Italia finisce, ecco quel che resta: Draghi

 


Cari amici lettori, Prezzolini, uomo e scrittore non esente da debolezze, pubblicò un libro: “L’Italia finisce, ecco quel che resta”, anno di grazia 1948.  Un vero atto di accusa rivolto contro un popolo di voltagabbana, vili, traditori di tutti, disposti a fare qualunque cosa pur di vivere, o peggio sopravvivere. Come aveva ben capito anche Malaparte in quel ritratto impietoso dell’ Italia del 1943-1945 racchiuso ne “La pelle”.

Malaparte e Prezzolini: un anarchico conservatore e un conservatore anarchico, forse liberali senza saperlo. Oggi nell’epoca del Graphic Novel, sono due illustri sconosciuti.

Prezzolini, visse molti anni negli Stati Uniti, civettò con il fascismo, ma non troppo. Morì centenario in Svizzera, brontolando contro tutto e tutti. Malaparte, giunse fino in Cina, elogiando il comunismo, morì di cancro, dopo aver flirtato, non solo in senso figurato, con la famiglia Agnelli e Mussolini…

Però avevano capito tutto: o andarsene, cercando altrove il meglio, o restare cogliendo l’attimo fuggente, ma sempre con la pistola dell’intelligenza carica.

Ciò che invece non andava mai fatto era ed è commentare le imprese del principe e delle corti del momento. O peggio ancora, tacere e digerire tutto. Prezzolini e Malaparte rompevano i coglioni al potere. A prescindere. Ecco la lezione, grande lezione.

Dicevamo l’Italia che finisce. Quando? A che ora? Per Prezzolini e Malaparte nel 1945.

Probabile. Però si tratta di un’agonia lenta. Perché ieri, anzi questa mattina, sembra essere finita un’altra volta. Come? Dove? Perché? Dopo l’apertura dei giornali.

I Russi ci umiliano, diffondendo la notizia di aver distrutto una postazione ucraina armata di obici italiani. E i giornali tacciono. Si polemizza su tutto, si ride di tutto, ma non su Mosca. Che fa sul serio, ci sfida e calpesta. E noi zitti.

Si noti poi un’altra cosa. Cosa ha dichiarato ieri Draghi? Che l’importante è che Putin non vinca. Attenzione, non che perda, perché sarebbe una provocazione… Ma che non vinca… Un giro di parole per attenuare: mai essere crudi con i potenti. Mosca, invece, ci umilia e sfida, come a proposito del cosiddetto progetto di pace: umiliazione, silenziata dai giornali italiani. Come ieri a proposito degli obici polverizzati.

Noi siamo delle merde, ormai è risaputo, ufficiale diciamo. Ma due righe su quei soldati ucraini che combattono “anche” per noi?

Certo, l’importante è che Putin non vinca…

Sì, l’Italia finisce. Magari a puntate. Resta solo Draghi. Il becchino.

Carlo Gambescia

(*) Qui, pescata per caso nel quotidiano fiume di notizie inutili di Rai News: https://www.rainews.it/articoli/ultimora/Mosca-sito-con-armi-da-Italia-distrutto-71cd6dcc-8333-4096-91f2-03abc894b7f6.html .

lunedì 30 maggio 2022

Donbass, non tutte le autodeterminazioni dei popoli sono uguali

 


Prima i fatti.

«(ANSA) – ROMA, 29 MAG – “Il futuro dei territori dell’Ucraina dove la Russia sta conducendo la sua operazione militare speciale dovrebbe essere deciso dai loro cittadini”.Lo ha detto il ministro degli Esteri russo, Serghei Lavrov, in un’intervista alla tv francese Tf1 ripresa dalla Tass.”Non credo che saranno felici di essere di nuovo governati dal regime neonazista che ha rivelato la sua natura totalmente russofoba. Tocca ai cittadini stessi decidere”, ha aggiunto. (ANSA)» (*).

Il principio di autodeterminazione del popoli risale alla Rivoluzione francese. Strettamente collegato all’idea di sovranità popolare e al principio romantico dell’esistenza di un nesso tra popolo, lingua e nazione. L’idea era quella che a decidere i destini di ogni popolo non dovessero essere i monarchi ma i popoli. Come? Esprimendo con il voto l’ appartenenza a un determinato stato-nazione. L’autodeterminazione appunto.

In sintesi, tante lingue (quindi tante culture e storie differenti) quante nazioni (quindi unità di coloro che parlano la stessa lingua e hanno la stessa storia e cultura), quanti stati (quindi unità politico-amministrativo tra coloro che parlano la stessa lingua e hanno la stessa storia e cultura).

Il Risorgimento italiano fu un portato di tale idea, ma lo furono anche quello belga, greco, tedesco, balcanico, e così via fino all’inserimento del principio di autodeterminazione nei Quattordici  punti del presidente americano Wilson, principio che dopo la Prima guerra mondiale avrebbe dovuto inaugurare un’era di pace. Dal momento che il principale nemico dell’autodeterminazione dei popoli in Europa, l’Impero Austro-Ungarico, era stato spazzato via.

Purtroppo, la realtà si è vendicata, provando che la storia e la sociologia delle autodeterminazioni sono molto complesse. Come del resto provarono fin dall’inizio le difficoltà incontrate durante la stesura dei trattati di pace (1919-1920) dopo la Prima guerra mondiale a proposito dell’ applicazione del principio di autodeterminazione all’Europa Centrale e Orientale. Come pure comprovò  a suo tempo l’uso aggressivo che ne fece Hitler nel 1938 sulla dirompente questione dei Sudeti, che portò alla sparizione-spartizione della Cecoslovacchia. Poi toccò, l’anno dopo, per la quarta volta alla Polonia, fagocitata da comunisti e nazisti, come scolpito  nei  protocolli segreti del patto Molotov-Ribbentrop.

Per non parlare dell’estensione del principio di autodeterminazione alla decolonizzazione africana. Che scatenò terribili lotte tra un numero infinito di minoranze etniche.

Un inciso. Per l’Africa, la colpa venne addossata agli europei, che in epoca coloniale, si diceva, avevano diviso per egoistici conflitti di potenza, i popoli africani, secondo linee immaginarie. In realtà però, già prima dell’arrivo degli europei, la diffusione, non sempre pacifica, della fede islamica, aveva diviso l’Africa in tronconi da Nord a Sud. Per non parlare delle profonde divisioni, risalenti alla notte dei tempi, tra etnie nomadi e popoli sedentari. Il commercio degli schiavi, in prima battuta fu alimentato dagli stessi reucci dell’Africa subsahariana che vendevano, intere etnie sconfitte nelle guerre tribali ai mercanti arabi, spesso nordafricani (che trattavano anche schiavi cristiani). Mercanti che a loro volta trafficavano con gli europei (all’inizio portoghesi). Insomma, un quadro complesso.

Cosa vogliamo dire? Che applicare alla lettera il principio di autodeterminazione, sociologicamente parlando, significa includere ed escludere. Resterà sempre qualcuno che protesterà. E magari in modo violento.

Il che però significa che in una democrazia liberale, che parla e non spara (forza e debolezza del liberalismo, ma questa è un’altra storia), coloro che protestano saranno in qualche modo tollerati e  inclusi. Per contro, in uno stato autoritario, dove appena si parla di minoranze si pone mano alla pistola, i “localisti” saranno invece esclusi e oppressi. In Russia, fin dall’epoca degli Zar, interi popoli recalcitranti venivano deportati senza tanti complimenti e appena possibile sostituiti con i russi.

Parliamo di democrazie liberali consolidate. Anche perché la perfezione non esiste. Infatti, la repressione italiana del brigantaggio post-unitario fu durissima. Però non si poteva fare diversamente: l’ Impero Austro-Ungarico avrebbe approfittato del primo segno italiano di debolezza per riprendersi i propri diritti dinastici.

Diverso invece fu il trattamento delle  minoranze di lingua tedesche  in seguito agli accordi De Gasperi-Gruber (tra due Repubbliche, italiana e austriaca). Ma si pensi anche all’ intelligente legislazione speciale e statutaria per il Sud, dopo la caduta del fascismo, quando l’Italia repubblicana seppe attingere alle ritrovate tradizioni di uno stato liberale, che comunque, dopo il tumultuoso decennio, post-unitario, si era consolidato nella libertà.

Ora per venire al punto: Lavrov è il portavoce di uno stato autoritario che cerca di riprendersi con la forza militare il Donbass (come se oggi l’Austria rivolesse Trentino, Friuli e Veneto, con la forza). Perciò che valore può avere, in un contesto del genere, politico (stato autoritario) e militare (occupazione armata),  il principio di autoderminazione? Crediamo, pari a zero.

Oggi certa storiografia italiana, nostalgica dei Borboni, parla del processo risorgimentale come di un processo di colonizzazione militare. In realtà, basta leggere le opere di Giuseppe Galasso, in particolare la Storia del Mezzogiorno da lui diretta, come pure l' eccellente Risorgimento in Sicilia di Rosario Romeo, per capire come l’Unità d’Italia fu fortemente voluta dai liberali meridionali e dai ceti riflessivi e produttivi, già aperti all’Europa, quindi non solo all’Italia. Diciamo che il Mezzogiorno italiano era già oltre la stessa unità d’Italia, dal momento che guardava all’Europa come a un’unità politica ed economica. Questa la lezione italo-europea, diciamo, dei Galasso e dei Romeo.

E nonostante ciò, il primo decennio post-unitario non fu facile. Coscrizione e nuovi e regolari tributi favorirono il brigantaggio. Fu la rivolta, comprensibile, di contadini, ai limiti della sopravvivenza, che  non conoscevano  servizio militare, perché la guerra era appannaggio di truppe mercenarie, né i tributi, perché sostituti dalle corvée feudali al monarca, al principe e alla chiesa. Ma la reazione, come detto, non poteva non essere inflessibile. Durezze della storia.

Ora, il Donbass non è il Mezzogiorno d’Italia nel 1860, socialmente arretrato, quindi conosce e apprezza la libertà civile e di mercato, come del resto la Russia non è una democrazia liberale, né un’ardente seguace della globalizzazione economica. Anzi, non perde occasione per deridere i valori liberali dell’Occidente.

Quindi i ruoli si sono invertiti, semplificando: un Sud moderno (il Donbass e l’Ucraina), un Nord, arretrato (la Russia).

Cosa potrà succedere all’indomani della “liberazione” e della cosiddetta autodeterminazione evocata da Lavrov?

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2022/05/29/lavrov-cittadini-decideranno-il-futuro-delle-zone-liberate_b2d81de5-9ecf-4604-9118-960d478717a9.html .

domenica 29 maggio 2022

L’ invasione russa dell’Ucraina secondo Vilfredo Pareto

 


Vilfredo Pareto è un sociologo che va letto e riletto perché fornisce sempre chiavi concettuali utilissime per comprendere la realtà (*).

Si pensi alla sua divisione delle azioni umane in logiche e non logiche. Si dirà astrattezze… In realtà, l’invasione russa dell’Ucraina rientra pienamente nell’ambito del non logico.

Un piccola premessa: le azioni logiche sono quelle fondate sul calcolo mezzi fini e rinviano all’agire economico. Mentre quelle non logiche, che rimandano a un agire istintivo, sentimentale, spesso mascherato dall’ideologia e (come vedremo) da una pseudo razionalità mezzi-fini, sono di competenza della sociologia.

Va detto che Pareto introduce un’ulteriore differenziazione: quella tra la logicità di chi osserva e la logicità dell’osservato. Ad esempio, per un antico greco, sacrificare prima di una battaglia, per guadagnarsi il favore degli dei protettivi della sua città, era perfettamente logico, per un generale moderno, è roba da ridere, anche se, la benedizione di un cappellano militare, continua a non guastare.

Risparmiamo al lettore, per non confonderlo, ulteriori spiegazioni sulla classificazione dei residui o sentimenti che presiedono alle azioni non logiche. Ne ricordiamo solo due, chiedendo scusa ai colleghi specialisti, perché in effetti semplifichiamo troppo: a) istinto delle combinazioni (discorsi e grandi parole per convincere o imbrogliare l’interlocutore); b) persistenza degli aggregati (fedeltà ai costumi e alla propria identità). Per capirsi (forse però Pareto non gradirebbe): l’istinto delle combinazioni è di sinistra, la persistenza degli aggregati, di destra.

Ora se i russi avessero fatto, come si dice, due calcoli economici, quindi agito logicamente, da paese degli undici fusi orari, quindi ricchissimo di risorse a prescindere dalla conquista dell’Ucraina, non avrebbero puntato sulla guerra, anzi avrebbero scelto, già da un pezzo, di integrarsi nella libera economia mondiale, per accrescere il proprio benessere, pacificamente, eccetera, eccetera.

Invece, hanno agito in chiave non logica, lasciandosi dominare dalla persistenza degli aggregati, dall’istinto di conquista in nome dell’identità slavofila. Qualcosa, ammesso e non concesso, che può valere per i russi ma non per altri popoli. Per capirsi, l’ideologia divide, non logicamente, mentre l’economia unisce logicamente.

Un passo indietro. Dicevamo del giudizio di logicità da parte di chi osserva e da parte dell’osservatore.

Dal punto di vista dell’osservatore – mettiamo un economista – la Russia si è comportata in modo illogico, addirittura rovinoso, perché, a prescindere dal risultato sul campo, rischia di avviare una spirale di guerre di riconquista, eccetera, impegnando risorse, che invece potrebbe impiegare pacificamente, migliorando le condizioni di vita del popolo russo, eccetera.

Però, dal punto di vista dell’osservato – i russi – l’azione è del tutto logica, perché – qui il lettore faccia attenzione – risponde al criterio mezzi-fini come un’azione logica. Nel senso: questi i mezzi necessari (la guerra) per conseguire un dato fine (la conquista dell’Ucraina).

Il che però è vero e falso al tempo stesso, perché la relazione mezzi-fini c’è, ma è posta al servizio di un’ azione illogica fondata non sul calcolo economico ma su rovinosi residui istintuali di tipo non logico, come la persistenza degli aggregati. Perciò risponde al criterio logico, ma solo apparentemente.

A chi faccia notare ai russi la natura non logica della guerra all’Ucraina, si sente però rispondere, in termini di istinto delle combinazioni, di fratelli ucraini, di nazisti, e altre (pardon) menate del genere.

In qualche misura i russi, auto-ingannandosi e ingannando gli altri, cercano di giustificare logicamente, però alla stregua dell’ antico greco che sacrificava al dio della città, prima di una battaglia…

Come se ne esce? Purtroppo, quando si scivola nel campo del non logico, e addirittura in quello del confronto militare, ad azione non logica non si può non rispondere con azione altrettanto non logica. Perché, il nemico rifiuta la logica. In qualche modo lo si deve prima “piegare” alla logica. Insegnarla, diciamo, dopo una buona razione di calci nel sedere.

A buon intenditor…

Carlo Gambescia

(*) Ovviamente la conoscenza del pensiero paretiano, impone la lettura del Trattato di sociologia generale (1916), quasi duemila pagine (si consiglia l'edizione Utet, curata da G. Busino). Per una scorciatoia si veda V. Pareto, Trasformazione della democrazia(1921), Edizioni Il Foglio 2018, con una nostra introduzione:https://www.ibs.it/trasformazione-della-democrazia-libro-vilfredo-pareto/e/9788876067693

sabato 28 maggio 2022

La Russia, il fasciocomunista e la sindrome Drieu la Rochelle

 


Negli ambienti intellettuali (parola grossa) fasciocomunisti (per semplificare) circola una versione dell’invasione russa dell’Ucraina concretatasi addirittura in saggi, pamphlet, o come si dice “instant book”.

Si tratta della tesi dell’accerchiamento, che riflette la vulgata di Mosca. Il che in sé non è preoccupante, perché rinvia alla rubrica del collaborazionismo ideologico, prezzolato o meno, il cui valore scientifico è pari a zero.

Tuttavia, non si dimentichi mai che un intellettuale, se tale, quindi libero, non può stare dalla parte, come nel caso della Russia, di un stato autoritario, se non addirittura autocratico, che reprime la libertà di pensiero.

Certo, sono comunque scelte personali, però intorbidite dalla sindrome Drieu la Rochelle: in sintesi, da un odio verso la società liberale, che portò ad apprezzare, pur di combatterla, da parte di un collaborazionista fascista, addirittura il comunismo sovietico monopolizzato da Stalin (*).

Il vero problema dell’approccio fasciocomunista – e ovviamente russo – è quello di una visione bellicista contrabbandata come realista, che in realtà privilegia i cannoni al burro.

Di qui però il gran parlare di “scenari geopolitici”, di “alleanza tra Russia e Cina”, di “logica imperiale”, di "grandi spazi",  come se fosse un gioco da tavolo o il calciomercato. Soprattutto tra i fasciocomunisti, qui in Italia, più esaltati, malati, spesso inguaribili, di romanticismo politico. Ne parlano però soprattutto tra di loro, perché ufficialmente, sfilano per la pace, facendo comunque il gioco dei russi. Che invece parlano meno perché fanno parlare le armi.

Si rifletta: ma è credibile, proprio sul piano della logica dei fatti concreti, la storia della Russia buona assediata dall’Occidente cattivo, che vuole depredarla e dividerla?

Sul piano economico, si tratta dell’ennesima riproposizione della teoria marxista e populista della dipendenza, applicata in passato ai paesi dell’America latina. Il cui mancato sviluppo, come hanno mostrato gli studi di Hirschman e di altri, è dovuto all’assenza di un ceto borghese moderno. Che invece dove in qualche misura presente, come in Argentina, Brasile, Cile e Uruguay, ha favorito, anche se in modo incompleto una modernizzazione liberale e una crescita del tenore di vita. Insomma, quanto più ci si chiude, tanto più, la borghesia indipendente (non quella di stato, dipendente, che è un sottoprodotto, del protezionismo nazional-socialista) muore addirittura in fasce.

Il problema della Russia non risale al 2014 o al 1991, date preferite dagli analisti (altra parola grossa) fasciocomunisti e russi per indicare l’inizio dell’ “invasione dell’Occidente”. Sono date che servono a giustificare la reazione militare russa (comunque rozza e spropositata).

In realtà il problema russo risale al 1917, quando l’assalto al potere del bolscevismo cancellò quell’inizio di trasformazione economica, se si vuole di modernizzazione, che tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, era tumultuosamente esplosa in Russia.

Il 1917, purtroppo, indica l’anno di decesso del ceto borghese russo, allora ancora in fasce ma promettente. Certo, la produzione industriale, tra gli anni Venti e gli anni Trenta, sarebbe tornata ai livelli anteguerra, ma in che modo? Lo spiega molto bene Solženicyn in “Arcipelago Gulag”: penalizzando il consumo, puntando su un’economia di stato, sui lavori forzati di massa, e sull’industria pesante, in particolare  armamenti. E ovviamente, sulla repressione di ogni libertà, liquidata come borghese.

Fu fatta allora la scelta di fondo: cannoni invece di burro. Tra Stalin e Putin non ci sono grandi differenze sul piano della cultura dei cannoni che inevitabilmente rinvia all’ideologia dell’accerchiamento e alla inevitabile distruzione di un ceto borghese, l’unico in realtà capace di modernizzare il paese.

Un inciso interessante: i cosiddette “oligarchi”, alcuni veramente corrotti, altri meno, altri ancora, pochi, sinceramente liberali, paradossalmente, sono le vere vittime delle sanzioni occidentali, che vanno a colpire, non l’economia dei cannoni, ma quel che si è faticosamente formato, con gravi ricadute nella borghesia di stato, dell’economia del burro.

Detto questo, resta il fatto che la sindrome dell’accerchiamento, che rinvia a un impasto di valori arcaici, addirittura zaristi, e militaristi – un mix di modernismo militare e cultura reazionaria, inaugurato da Stalin – detta tuttora la linea aggressiva della Russia.

Sotto questo punto di vista, per Mosca, qualsiasi mutamento in Europa orientale di costumi sociali e di pratiche economiche in senso liberale, viene visto come un tradimento, dietro il quale c’è l’Occidente cattivo, che vuole smembrare la Russia. Per farla breve, il solo immaginario occidentale, viene scorto e dipinto come una specie di covid culturale.

Si faccia attenzione su un punto: invece di accettare la sfida dell’Occidente, e per capirsi ( e semplificando), inventare un’ industria del lusso russa oppure di cercare o almeno provarci, ma seriamente, di “invadere” pacificamente l’Occidente con cantanti, automobili, computer, elettrodomestici, la Russia ha scelto la strada monoculturale dell’ economia esportatrice di un’unica materia prima, l’energia, di cui lo stato è gestore. Infatti, per ora le importazioni – e qui vale la teoria della dipendenza – sono da borghesia di stato “compradora”, poca roba insomma, e per quei i ricchi che condividono la politica aggressiva di Mosca.

Per quale ragione? Per continuare a investire i profitti nei cannoni e tenere sotto controllo la popolazione, come ai tempi dell’autocrazia zarista, che pure nell’ultima fase aveva intuito le ragioni dell’economia borghese, poi cancellata dai comunisti.

Su questo punto, in qualche misura, la Cina è addirittura più avanti della Russia: Pechino comprende l’importanza, seppure in un’ ottica di controlli statali, dell’impresa privata e della necessità, per crescere, della creativa opera di un ceto borghese produttivo.

La Russia scorge invece una minaccia in tutto ciò che può rappresentare una sfida creativa, certo non facile, faticosa (perché non si tratta di un semplice premere il grilletto): quella di aprirsi al mercati mondiali.

Minaccia, ma per chi? Non certo per la popolazione russa ( soprattutto le giovani generazioni) che vuole cambiare, ma per l’apparato militare e industriale, che per tenersi in piedi ha necessità di un capro espiatorio. Ora è il turno dell’Ucraina.

Ovviamente, l’intellettuale fasciocomunista vede nella Russia il nemico del proprio nemico, l’Occidente liberale. Quindi, come dicevamo, continua a soffrire della sindrome Drieu la Rochelle e, se ci si perdona il termine, a scrivere stronzate.

Carlo Gambescia

(*) Qui un nostro articolo al riguardo, in cui si spiega, eccetera: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2009/01/gaza-e-la-sindrome-di-drieu-la-rochelle.html

venerdì 27 maggio 2022

Italiani carogne, dov’è finita la dignità nazionale?

 


La Russia respinge il progetto di pace italiano, in verità una specie di stupida fuga in avanti nello stile subdolo e vigliacco dei famigerati furbetti del quartierino, all’insegna di un si salvi chi può. Ma quale Ue… Ma quale Nato… Noi siamo più furbi di tutti…

E invece, volano, da parte russa, parole pesanti sul piano stesso. Secondo Medvedev non sarebbe serio, campato per aria, addirittura scritto sotto dettatura ucraina. Insomma, offende. E l’Italia che fa? Silenzio. Si sorvola. Di Maio, tace, guarda altrove.

Ieri, si apprende – nuova telefonata di Draghi a Putin – che la Russia “ha intenzione di non interrompere le forniture di gas alll’Italia”. Però non si capisce a quali condizioni. Draghi non riferisce. Ma la diplomazia segreta non era antidemocratica?

Inoltre, alla domanda di Draghi di sbloccare il grano, Putin ha risposto che prima vanno revocate le sanzioni, e che, d’altra parte, i porti sono minati. Ovviamente, Il leader russo si è dimenticato di dire che il porto di Odessa è stato minato dai russi. Una faccia di bronzo colossale. Superiore a quella di Draghi.

Diciamo che la  Russia ha trattato l’Italia male,  quasi come una camerierina alle prime armi, in crestina,  che abbia servito il caffè in anticipo: “Come si permette, Italia, non siamo ancora al secondo, e lei già serve il caffè. Licenziata!”.

Che ne pensano  Salvini e Meloni, le destre nazionaliste, pardon sovraniste?  Che parlano di identità nazionale solo quanto si tratta di buttare a mare gli indifesi migranti?

Ma la sinistra non sembra essere da meno. Come detto nessuna reazione. Facilitata dal silenzio stampa. I giornali oggi, alla stregua dei politici, ignorano, se ci si passa l’espressione, il calcione nel sedere ricevuto dall’Italia.

Ma sono gli stessi italiani, stando anche ai sondaggi, che accettano tutto questo, perché temono di non poter accendere condizionatori… La paura di vedere il proprio tenore di vita andare in briciole. Sicché l’Ucraina si può anche sacrificare sull’altare dell’automobile ibrida da quarantamila euro.

Italiani carogne, lo stile di vita, in certi momento storici, si deve difendere con la spada. Hitler e Mussolini, il razzismo e l’imperialismo, furono sconfitti, non con le chiacchiere pacifiste, ma con gli eserciti schierati e vittoriosi.

Dov’è finita la dignità nazionale? Forse, e duole dirlo, a parte le bellissime pagine risorgimentali, è sempre mancata.

Che tristezza.

Carlo Gambescia

giovedì 26 maggio 2022

La feroce furbizia della Russia

 


Ma come si può stare dalla parte dei russi? A poco a poco che i giorni trascorrono si scopre la feroce furbizia, se si vuole spregiudicatezza, di questa gente, caratterialmente a metà strada tra mongoli, ottomani e bizantini.

Sul piano militare la tecnica dell’accerchiamento delle città e dell’Ucraina, tagliata fuori dai suoi porti, rigorosamente minati, è di tipo ottomano. Ma si può andare ancora più indietro per parlare di derivazione turco-mongola. Si pensi al famoso Khanato dell’Orda d’oro che dominò la Russia nei secoli XIII-XVI, dopo averla invasa e assediata. Si voleva e si vuole prendere il nemico per fame. Una tecnica, ovviamente, non inventata da mongoli e turchi, ma che, ad esempio, fu alla base dell’ espansione ottomana nei Balcani e in Medio oriente. Vienna fu assediata per ben due volte.

La scelta di trattare, fingendo di trattare perché le condizioni sono sempre quelle russe, è tipicamente bizantina. Si dice che si vuole la pace, però ci si guarda bene dal mollare la presa sul terreno di battaglia. Ovviamente, sono tecniche diplomatiche, antiche quanto l’uomo, reinventate dai Bizantini. Però non si dimentichi mai che grazie al mix di tecniche militari e diplomatiche, l’Impero romano d’Oriente, sopravvisse, bene o male, quasi altri mille anni. La Terza Roma moscovita, probabilmente punta a durare ancora di più, a spese di una specie di nuovo e decadente Impero romano d’Occidente. Non dimentichiamo che Costantinopoli, per non esserne invasa, dirottò le popolazioni barbariche verso Occidente.

Comunque sia, l’Occidente euro-americano, imbevuto di principi e timoroso di fare la guerra, crede alle parole dei russi, lasciando fare sul campo.

I russi capiscono solo le maniere forti, alle quali l’Occidente, come prova tutto il processo di decolonizzazione, ha rinunciato da più settant’anni. Le fiammate delle ultime guerre del Golfo, Bosnia, Afghanistan, sono l’eccezione, sull’onda dello sdegno, che conferma la regola del declino. Del resto il vergognoso disimpegno in Afghanistan ne è prova evidente. Infine, la cosiddetta guerra contro il Daesh è stata in larga parte demandata a russi e turchi. Per non parlare, della disunione euro-americana sulla gestione della crisi libica, prima e dopo la caduta di Gheddafi.

L’Occidente ha paura di battersi, e perciò rischia di finire irretito nelle maglie culturali mongoliche, ottomane e bizantine dei russi, che sanno perfettamente quello che vogliono.

Se si dovesse definire con un’ espressione del viso l’atteggiamento dell’Occidente, si potrebbe parlare di “stupore”. Si pensi a una forte sensazione di meraviglia e sorpresa, tale da togliere qualsiasi capacità di agire: “Possibile che la Russia voglia la Guerra?”, “Come si può volere la guerra, quando ci sono tante altre cose più belle?”, “Come si può rifiutare la pace?”, “Sì, prima o poi la Russia, accetterà di trattare…”.

I russi non sono come noi. Temono solo le maniere forti. E ridono delle nostre remore pseudo morali.

Che triste spettacolo, quello dell’Occidente querulo.

Come si può dire che la decadenza abbia un suo fascino? Che fascino c’è in questo Occidente molle e piagnucoloso che non vuole opporsi efficacemente alla Russia? Che fascino c’è nella vigliaccheria? Nel fare finta di difendere la libertà di un’Ucraina sotto le bombe?

Probabilmente, come altra volta nella storia del Novecento, ci si arriverà a opporsi, ma tirati per i capelli.

Con tutte le tristi conseguenze del caso.

Carlo Gambescia

mercoledì 25 maggio 2022

L’Occidente subisce l’iniziativa russa

 


Sono già passati tre mesi. A mano a mano che i giorni trascorrono, crescono in modo esponenziale le responsabilità della Russia. Perché stupirsi della guerra per il grano, come titolano i giornali? La crisi economica mondiale in atto non è che un portato, più che prevedibile, dell’invasione russa dell’Ucraina.

Del resto, cosa veramente grave, l’iniziativa, come volontà di raggiungere un fine determinato, resta saldamente in mani russe: cosa gravissima dal punto di vista strategico e politico. Perché l’Occidente euro-americano invece di dettare la linea, subisce in modo neghittoso le decisioni russe. Insomma, l’Occidente, al massimo reagisce, ma di sicuro non agisce.

Spiegazioni. Un passo alla volta però.

Innanzitutto le guerre non hanno mai favorito il libero scambio e il benessere dei popoli né prima, né durante, né dopo, perché accrescono il ruolo dello stato in tutti gli ambiti e la centralizzazione dell’economia. Certo, è vero che dopo le guerre avvengono le cosiddette ricostruzioni, ma l’abbandono dei principi economici liberali, come prova la storia del Novecento, prima o poi, si fa sentire. Quindi quanto più durerà la guerra tanto più la crisi economica si farà dura.

Si dirà, che per tornare alla pace e ai buoni affari, basterebbe cedere, facendo pressione sull’Ucraina, per favorirne il ritorno nell’orbita politica della Russia

Non crediamo. La Russia ha aggredito l’Ucraina, innanzitutto, in nome di un’ ideologia autocratica (“Decido, io, Russia, chi sia russo o meno, e quali siano i miei giusti confini geopolilitici”), militarista (“La guerra è la soluzione di tutti i contrasti”), tradizionalista (“Dio, patria e famiglia”). E, cosa non secondaria, la Russia ha approfittato della debolezza economica post Covid dell’Occidente, accentuatasi, anche politicamente, dopo la disfatta in Afghanistan e il ritorno con Trump dell’isolazionismo americano.

Il problema non è Putin, che comunque, individualmente, non è un santo, ma un blocco ideologico, militare, sociale ed economico, che continua a vedere – almeno da due secoli abbondanti – nell’Occidente il nemico naturale.

La crisi ucraina mette in grave discussione il modello di vita occidentale, al momento, già compromesso in misura crescente nell’ambito economico.

Cedere alla Russia,  cosa  che significa  lasciarle l’iniziativa, vuole anche dire rassicurare la Russia circa la bontà della sua politica aggressiva verso l’Occidente, quindi favorirne l’appetito politico verso gli stati baltici e dell’Europa orientale, nonché in prospettiva verso la stessa Europa occidentale. Che la pacifica e pacifista Svezia – passi, si fa per dire, per la storicamente disgraziata Finlandia – abbia chiesto di entrare nella Nato, indica tutta la gravità della situazione e soprattutto il timore di un’iniziativa, non solo militare, lasciata nelle mani della Russia.

In Occidente non ci si vuole rendere conto che per la mentalità russa la guerra è un normalissimo strumento di risoluzione dei conflitti politici ed economici come pure di appropriazione e saccheggio di tutte le risorse del nemico. Quanto viene riferito sui saccheggi e sullo smantellamento del sistema produttivo ucraino, industriale e agricolo, conferma la tesi dell’ approccio militare russo alla soluzione dell’approvvigionamento economico. Si tratta, purtroppo, di un sistema antico quando il mondo, che, prescindendo dalle risorse di cui gode lo stato conquistatore, consiste nello sfruttamento diretto dei popoli vinti, per la semplice ragione che i popoli vinti, proprio perché tali, quindi inferiori, vanno sfruttati.

Gli ultimi a mettere in pratica nel Novecento, e in modo radicale, questo “metodo” furono i nazisti e i comunisti russi. Con una differenza: Hitler lo aveva scritto nel  Mein Kampf, mentre Stalin e i suoi successori lo nascondevano sotto il manto pseudo-pacifista dell’internazionalismo proletario. Per contro, la Russia contemporanea, pur muovendosi nella scia Stalin, ha recuperato, sostituendola all’internazionalismo, l’antica ideologia panslavista. Quindi nessuna pietà per i vinti.

L’errore dell’Occidente, in particolare dell’Europa, è quello di aver creduto che il coinvolgimento economico della Russia, dopo la dissoluzione del comunismo, avrebbe favorito la sua modernizzazione culturale e sociale. Purtroppo ci si è dimenticati della forza nascosta e profonda dell’ideologia panslavista, che tuttora anima la dirigenza politica russa e in larga parte quella economica. Si legga a tale proposito l’opera di Dugin, La Quarta Teoria Politica, rappresentativa, quanto meno degli umori, delle classi dirigenti russe (*).

Il punto è che la Russia, grazie alle risorse economiche e all’estesa capacità di controllo sociale sulla sua popolazione, può sostenere a lungo la guerra, alternando fasi di stallo a fase aggressive. Pertanto l’attendismo dell’Occidente, in particolare la tesi pacifista che i russi gireranno le spalle a Putin, è totalmente irrealistico e controproducente.

Per fare un esempio storico, nel 1917, per il cambiamento di regime, furono necessari tre anni di guerra mondiale, con milioni di morti, e altri quattro di guerra civile, con altrettanti milioni di morti. Mutamento istituzionale, per modo di dire, perché il comunismo russo fu in pratica la prosecuzione dello zarismo su larga scala . Non va dimenticano che tra gli oppositori del regime zarista si contavamo uomini – nel bene e nel male – della statura di Lenin, Stalin, Trotsky e un intero partito, il bolscevico, organizzato in base a criteri militari da eccellenti quadri politici.

Oggi, l’unico vero oppositore Alexei Navalny , ha subito una condanna a nove anni (dopo, tra l’altro, un tentativo fallito di avvelenarlo, roba da Russia profonda…). Condanna confermata ieri, che dovrà espiare in prigioni, dove a differenza di quella zariste nel 1917, le guardie carcerarie non solidarizzano con i detenuti, come riferisce, il sociologo Pitirim A. Sorokin nei suoi diari sulla Rivoluzione russa (**).

Concludendo, la Russia sa perfettamente ciò che vuole e come perseguirlo, l’Occidente euro-americano, no. La Russia, non teme la crisi economica, l’Occidente euro-americano, sì.

Ciò significa che l’iniziativa è nelle mani della Russia. Perciò la guerra continuerà, con effetti devastanti sull’economia e le istituzioni politiche occidentali, fino a quando la Russia non deciderà diversamente.

Carlo Gambescia

(*) Qui un nostro articolo in argomento: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2019/07/la-quarta-teoria-politicadi-aleksandr.html .

(*) Cfr. P.A Sorokin, Leaves from a Russian Diary – and Thirty Years After (1950), Kraus Reprint, New York 1970, pp. 117-132.

martedì 24 maggio 2022

Il Salone del Libro di Torino e l’editoria di massa

 


Il Salone del Libro di Torino, il 34°, ha chiuso i battenti con 168 mila visitatori all’attivo, il numero “più alto di sempre”, riferiscono gli organizzatori (*).

Il libro di successo stampato in milioni di copie rinvia, anche simbolicamente, alla modernità per eccellenza. Come pure l’idea che il libro formi, oltre che lettori colti e preparati, il cittadino perfetto.

Dietro l’idea del libro di massa, in grado di arrivare a tutti, c’è una grande idea di trasformazione sociale: che l’istruzione, quindi soprattutto la lettura, come tramite educativo, possa incivilire e ingentilire gli uomini, evitando guerre, se non addirittura conflitti, favorendo il pacifico confronto delle idee.

Dal punto di vista della storia delle idee, la “cultura politica del libro” rinvia all’Umanesimo, al Rinascimento, all’Illuminismo, insomma, come detto, alla parte più nobile e bella della modernità cognitiva.

Negli ultimi cinque secoli gli uomini sono migliorati? La lettura ha favorito l’ingentilimento dei costumi? Difficile dire. Il libro, come altri strumenti tecnologici, rinvia all’uso, come del resto ogni forma sociale rimanda al suo contenuto storico.

Per capirsi, la forma lettura (il libro e l’alfabetizzazione per leggerlo), rimanda al contenuto ( che può variare, da Pinocchio al  Mein Kampf e al  Manifesto).

E purtroppo, in nome di Pinocchio magari no. Però in nome del Mein Kampf e del Manifesto, non pochi uomini sono stati perseguitati, imprigionati e uccisi.

Pertanto, per rispondere alla domanda, nella migliore delle ipotesi il libro nulla ha tolto nulla aggiunto alla “sociale asocievolezza” dell’uomo (Kant).

E qui però veniamo all’aspetto ideologico ed economico del libro, due fattori che hanno contribuito alla rappresentazione della cultura del libro come prolungamento della cultura tout court.

Le idee si traducono sempre in fatti sociali. Cosa vogliamo dire? Che l’idea del libro che rende consapevoli sul piano sociale si è inevitabilmente tradotta nell’editoria di massa. Che proprio perché tale, nel senso di dover giungere a tutti, non poteva e non può privilegiare la semplificazione e l’uso di stereotipi sociali.

Inoltre, anche dal punto di vista dei costi economici, come giusto che sia, un libro deve garantire profitti, e per garantirlo deve essere venduto in grande quantità di copie. Ciò significa – non siamo i primi a dirlo – che un libro quanto più è raffinato, complicato per capirsi, tanto meno venderà.

Di qui, come anticipato, l’uso di stereotipi sociali, dal punto di vista editoriale e critico. Insomma, la chiusura del cerchio sociale. Si potrebbe parlare di veri e propri cicli editoriali, legati a mode e ideologie, condivise da editori, critici e lettori. Che mutano nel tempo, non mutando però nell’opera di semplificazione.

Riassumendo, la cultura del libro, dalla quale ci si aspettava la trasformazione dell’uomo in gentiluomo (semplificando), ormai invece rispecchia solo uno degli ambiti della semplificazione sociale che governa la società di massa, quello editoriale. Pertanto il famoso obiettivo della consapevolezza rinvia al conformismo dell’uomo massa verso mode, ideologie e pseudo-personalità carismatiche della cultura. Ennesima prova degli effetti perversi delle azioni sociali, magari animate da buonissime e illuminate intenzioni.

Dalla società pre-moderna, regno dell’analfabetismo, dove il libro era un bene elitario, apprezzato e usato da pochi intenditori e specialisti, si è passati alla società moderna, alfabetizzata, dove il libro è un bene di massa, a disposizione di tutti, intenditori e non.

Di conseguenza, le diverse élite degli intenditori e degli specialisti continuano a parlare tra di loro, selezionando pochi libri ma difficili, stampati in poche copie, mentre le masse alfabetizzate si nutrono di libri semplici, se non addirittura semplicistici, stampati in milioni di copie. La cultura, la vera cultura, non è per tutti. Ci si deve rassegnare.

Va detto, che nonostante la visione salvifica della cultura del libro, le masse non hanno mai risposto adeguatamente, anche perché volontà di sapere, spirito di concentrazione e capacità critiche sono doti elitarie, che appartengono a pochi. Di qui la perenne crisi dell’editoria e il tentativo, che ha un suo fondamento dal punto di vista economico, di stabilire la convergenza tra offerta e domanda al livello più favorevole, come contenuti semplificati, per il consumatore. Il che ha ulteriormente abbassato la qualità dei libri.

Concludendo, il fatto che il numero dei visitatori del Salone di Torino sia stato il più alto di  sempre non rappresenta che una boccata d’ossigeno per l’editoria di massa. E certamente non per la cultura, che è cosa “di” e “per” pochi.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2022/05/23/salone-libro-chiude-con-168mila-visitatori-mai-cosi-tanti_5553dc7d-544c-4325-ad90-a8846e5ee19b.html  .

lunedì 23 maggio 2022

La strage di Capaci e la macchina mitologica

 


Sebbene sulla strage di Capaci sia stata fatta piena luce, come si può capire dalla chiusa dell’omonima voce wiki, la costruzione della macchina mitologica del complotto occulto mantiene tuttora il suo fascino perverso.

Intanto, qui, le conclusioni dirimenti di Sergio Lari, procuratore di Caltanisetta:

«Infine nel 2013 la Procura di Caltanissetta archiviò definitivamente l’inchiesta sui “mandanti occulti” poiché le indagini non avevano trovato ulteriori risultati investigativi: “Da questa indagine non emerge la partecipazione alla strage di Capaci di soggetti esterni a Cosa nostra. La mafia non prende ordini e dall’inchiesta non vengono fuori mandanti esterni. Possono esserci soggetti che hanno stretto alleanze con Cosa nostra ed alcune presenze inquietanti sono emerse nell’inchiesta sull’eccidio di Via D’Amelio: ma in questa indagine non posso parlare di mandanti esterni” »
(Sergio Lari, procuratore di Caltanissetta, in un’intervista al “Giornale di Sicilia” aprile 2013 *)

Oggi, come ogni 23 maggio, si celebra l’anniversario della tragica morte di Giovanni Falcone, della consorte e degli uomini della scorta. E come ogni 23 maggio non si riflette sulla forza del mito, anzi della macchina mitologica, per usare il termine valorizzato da Furio Jesi.

Innanzitutto del mito repubblicano, ormai rappresentato da Giovani Falcone, giustamente celebrato per carità. In secondo luogo dal mito del romanzo criminale sulla mafia tentacolare, politicamente tentacolare.

Si ripete spesso come la politica, dopo la caduta dei totalitarismi novecenteschi, sia tornata finalmente ad essere una attività razionale. In grado di tenere sotto controllo l’uso del linguaggio mitologico.

Linguaggio che invece parla all’immaginazione, allontanandosi dalla realtà delle cose: una specie di macchina musicale, una misteriosa music box che conquista i cuori ma brucia le menti. Una macchina che piuttosto che essere a guardia dei fatti, punta alla coesione di una comunità immaginaria. La macchina mitologica fagocita il concetto di pubblica opinione, traducendolo in comportamento di massa, nel rituale del crucifige.

Ad esempio, uso della ragione significa respingere, nel bene come nel male, qualsiasi idea di carisma, elemento mitologico fondamentale. Non credere, insomma, nelle misteriose virtù taumaturgiche dei capi, buoni o cattivi che siano. Per dire una cosa sgradevole, ma incontrovertibile, la deificazione mitica di un re, di un eroe, di un criminale, risponde alla stessa macchina mitologica del superuomo: cambia solo il contenuto non la forma della macchina che rinvia ai linguaggi e ai comportamenti stereotipati del pro o del contro.

D’altra parte essere dalla parte di una ragione, che lucidamente analizza le cose, significa rinunciare, per usare un termine alla moda, a qualsiasi di forma di deificazione individuale, come pure di complottismo rituale.

Oggi la mafia in Italia non è più vista come un’ organizzazione criminale, un fatto sociologico, ma come una mitologica piovra dai tentacoli invisibili, che naturalmente arrivano fino a Roma.

Ci si dovrebbe perciò interrogare sui danni irreversibili all’intelligenza italiana causati dal romanzo sulla mafia (**). Non solo però: si pensi anche ai danni provocati all’idea di una liberal-democrazia, laica, lucida, razionale, in una parola sciasciana, capace di battersi contro la mafia evitando accuratamente di restare prigioniera dei meccanismi della macchina mitologica.

Purtroppo le cose non vanno così, e anche quest’anno si ripetono a pappagallo  i copioni  sui  "depistaggi" e su  "tutto quello che non torna".

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://it.wikipedia.org/wiki/Strage_di_Capaci   .
(**) Qui alcuni miei articoli dedicati alla questione del “romanzo criminale” sulla mafia: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/search?q=romanzo+criminale .