C’è qualcosa di irresistibilmente grottesco nel vedere Giorgia Meloni, erede politica di una tradizione che varò le leggi razziali e applaudì alla politica antiebraica di Hitler, oggi posare come grande amica del popolo ebraico.
Foto, abbracci, dichiarazioni d’amore per Israele: il tutto condito da indignazione morale contro i “nuovi antisemiti”, che sarebbero — guarda caso — i manifestanti pro-Palestina e la sinistra.
Una sceneggiata degna di un teatro di provincia, ma molto ben calcolata.
Dopo l’11 settembre, certa destra europea, quella limitrofa al fascismo, ha scoperto che Israele poteva diventare un simbolo perfetto: non più “l’ebreo cosmopolita” delle sue arcaiche ossessioni, ma l’ ideale avamposto dell’Occidente contro il “nemico islamico”.
Si pensi anche all’esperienza della destra radicale francese. Mentre Jean-Marie Le Pen faceva scuola di antisemitismo e negazionismo, sua figlia Marine ha scoperto che Israele è un’ottima carta politica da giocare: basta dichiararsi “amica di Gerusalemme” per sembrare rispettabile agli occhi dell’elettorato. Se il padre correva da Saddam , la figlia flirta con Netanyahu.
In Francia come in Italia è bastato cambiare bersaglio: dall’ebreo al musulmano. Così l’antisemitismo, formalmente archiviato, si è riciclato in islamofobia. Un’operazione di cosmesi ideologica utile e redditizia, che in Italia ha assunto un valore aggiunto: servire da lavacro per la destra post-fascista.
Sostenere Israele oggi significa, per Fratelli d’Italia, due cose insieme: ripulire la propria biografia storica e colpire la sinistra.
Da un lato ci si accredita come forza moderna e “occidentale”, un Occidente mezzo crociato, mezzo Decima Mas, prendendo le distanze — almeno in apparenza — da quel neofascismo mai del tutto estirpato.
Dall’altro si brandisce Israele come clava morale: chi critica Netanyahu o manifesta per la Palestina viene accusato di antisemitismo, e quindi di barbarie. Un ribaltamento perfetto. Per dirla alla buona, due piccioni con una fava: gli eredi di Salò promossi a difensori dell’ebraismo, e i laici progressisti trasformati in nemici degli ebrei.
In realtà, si tratta di un’ipocrisia calcolata. La destra non ama Israele: ama la sua immagine di fortezza, di confine invalicabile, di stato armato e disciplinato. Ama l’ordine, non la memoria; la forza, non la giustizia.
L’ebraismo, con la sua storia tragica e universale, è solo un pretesto simbolico, buono per ripulirsi e per marcare il terreno, come un doberman in punta di catena, pronto a mordere chiunque osi avvicinarsi: l’Islam e una sinistra che deraglia come un treno a trecento all’ora su binari costruiti nell’Ottocento.
Perciò la sinistra, in questa storia, non fa sempre una bella figura. In molte piazze pro-Palestina si alternano analisi serie e scivolate pericolose nella violenza: l’equiparazione tra Israele e “gli ebrei”, gli slogan facili, i rimandi all’“imperialismo ebraico” che maleodorano di vecchio pregiudizio travestito da studi post-coloniali per studenti ripetenti e somari, frequentatori dei centri sociali.
Non si tratta di antisemitismo organizzato, ma di confusione culturale: la perdita della capacità di distinguere tra stato e popolo, tra critica politica e identità storico-religiosa. Ed è proprio da questi inciampi che la destra trae linfa per la sua recita morale.
Così, la scena pubblica si capovolge. Si chiamano anche paradossi storici: chi discende dal fascismo si erge a tutore della memoria, e chi parla di diritti dei palestinesi finisce sotto accusa. È la vittoria della finzione politica: la storia trasformata in scenografia, la coerenza sostituita dall’apparenza.
La verità è che, in questo gioco di ruoli, nessuno è innocente. Ma almeno sarebbe il caso di smettere di scambiare la propaganda per morale. E di ricordare, per una volta, che la memoria non si usa: si custodisce.
Carlo Gambescia


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