giovedì 30 aprile 2020

Le centraline del Coronavirus


Per ora sono solo voci sulla gestione della cosiddetta  Fase 2. Però, molto credibili.  Rileviamo  un punto  particolarmente interessante del documento governativo (*) : l’adozione di uno schema  procedurale, sulla falsariga  - per capirsi -   delle chiusure anti-inquinamento  del traffico, dello stop and go insomma.  
Si legga qui ad esempio:

«[Adnkronos] Nel documento [del Governo]viene messo nero su bianco che "nei primi 15-20 giorni dopo la riapertura è atteso un aumento del numero dei casi". I 20 indicatori -con un occhio attento ai posti letto in terapia intensiva che non devono superare il livello di guardia del 40%, altro parametro decisivo perché spia della tenuta del sistema sanitario- danno vita a una matrice che definisce i rischi, la griglia del lockdown. Chi entra in zona 'rossa', con un rischio "alto" o "molto alto" di impatto del contagio retrocede alla fase 1. E torna ad abbassare le saracinesche.»

Si noti subito, che un parametro essenziale è rappresentato dai “posti letti in terapia intensiva”. Dunque da una questione organizzativa, assai cara al burocrate:  “la tenuta del sistema sanitario” che il governo populista usa come una clave per imporre misure restrittive.  
Il ragionamento  governativo  è il seguente:   si ha un occhio di riguardo per la “tenuta”  solo   per il bene di cittadini, perché, si dice  se si resta nei limiti, i cittadini  possono essere curati bene, altrimenti no; insomma, si morirebbe non per colpa del virus ma dei cittadini che si ammalano troppo, intasando  i reparti di terapia intensiva.
Non si ragiona, come  ad esempio  ha osservato il professor Paolo Gottarelli (nella foto),  su come evitare, grazie a tecniche  non solo di  monitoraggio ma  terapeutiche  dell’ossigenazione sanguigna, che la malattia progredisca,  tagliando in questo modo i  ricoveri in terapia intensiva. 
Secondo il professore gli strumenti diagnostici e clinici ci sarebbero tutti.  Eppure in nome dell’ignoranza scientifica e della prepotenza burocratica,  si preferisce introdurre criteri rigidi, burocratici, basati su parametri,  altrettanto inflessibili. E per quale ragione?   Evitare che si intasino i reparti di terapia intensiva (**).
Capito?  Si sceglie la soluzione  più facile dal punto di vista burocratico, per il governo come per molti medici.   Per dirla brutalmente: meno malati, meno brutte figure. Il ragionamento è identico a quello delle “dimissioni” del morituro, negli ospedali,  per non rovinare la media... Classico caso di organo che crea la funzione. E che protegge se stesso.
Maledetti burocrati. Perché un “disgraziato” deve finire in intensiva, se è possibile, evitare questo passo, gravissimo, ricorrendo a strumenti diagnostici e clinici, che sono alla portata dei medici,  come sostiene il professor Gottarelli? E, attenzione, senza bisogno di moltiplicare quei reparti di intensiva che costano denaro pubblico, e che in realtà  servono solo a moltiplicare, primariati e aiuti... Insomma, a far crescere il potere dei medici come gruppo di pressione. E in un sistema politico, dove la sanità è pubblica... Di qui il vicendevole darsi di gomito tra politici e medici. Possono  talvolta scontrarsi, ma l'ottica comune è di  tipo burocratico.
Un ultimo punto. se la procedura dello stop and go non funziona nell’ambito delle politiche di contenimento del traffico cittadino, dove provoca enormi danni economici, che cosa può accadere se lo stop and  go viene esteso all’Italia intera, aprendo e chiudendo le imprese sulla base per così dire dei dati giornalieri di   "centraline"  per il controllo dell’inquinamento da Covid-19…
Quanti altri miliardi di danni  potrà provocare all’economia italiana  una procedura che concentra il lato  peggiore dell’agire burocratico con l’ignoranza scientifica? E cosa più grave ancora , contraddistinta dall’indifferenza totale verso o pazienti? Ridotti a elenchi di cifre? Vergogna.

Carlo Gambescia

(**) Si veda “Linea Settimanale” n. 8, p. 2:  http://linea.altervista.org/blog/ (scaricabile gratuitamente).               

mercoledì 29 aprile 2020

Il giusto monito dell’agenzia di rating
Grazie Fitch!


L’economia, ossia la realtà, si vendica sempre. L’agenzia di rating Fitch ha declassato  l’Italia (da “BBB” a “BBB-”. Tradotto:  siamo a un solo passo dalla trasformazione del nostro debito sovrano  in  sovrana spazzatura.
Ovviamente, la destra nazionalista griderà al complotto plutocratico e demo-eccetera,eccetera. Mentre la sinistra populista, attualmente a governo, proverà a fare finta di nulla, giocando sull’outlook stabile (da negativo),  sventolando l’importanza dei finanziamenti pubblici a pioggia, per ora solo sulla carta ( ammesso e non concesso, che una  volta erogati funzionino), sui quali, si lascia intendere, l’Ue chiuderà un occhio.
Invece l’Italia dovrebbe far tesoro del declassamento. E capire che è sulla strada sbagliata.  Perché?  
Si legga l’intervista di oggi  al “Corriere della Sera”  di  Colao. Certo,  viene fuori il classico ritrattino del mediocre  burocrate che cerca di non scontentare chi  lo ha nominato.  Una cosa però dice, e interessante: parla di una crisi (probabilmente per difetto, per non dispiacere a  Conte)  che si prolungherà per dodici-diciotto mesi. Un’eternità dal punto di vista economico.

Se si continuerà a tenere tutto chiuso, o comunque a giocare con il fuoco economico della rateizzazione delle riaperture, l’Italia andrà a fondo. Si rischia la morte, per contagio  di imbecillità statalista, dell’apparato produttivo e commerciale italiano. Al punto che potrebbero  mancare  i denari per pagare stipendi e  pensioni.  Non solo:  una crisi prolungata  potrebbe ridurre di due terzi i valori immobiliari italiani: non dimentichiamo che un italiano su due ha una seconda casa (o comunque  un buco al paesello). Beni immobili che  si trasformerebbero in un peso, da svendere sul mercato per sopravvivere,  con conseguente crollo dei valori. 
Senza soldi, senza beni immobili,  appesi a un miserabile welfare della sopravvivenza:  questo potrebbe essere il futuro, neppure così lontano, degli italiani.  Se, ovviamente, si continuerà a ragionare in termini di  chiusure, blocchi, soprattutto indifferenziati. Colao, tra l’altro, in un momento di lucidità asserisce che si dovrebbe procedere invece per “micro-localizzazioni”,  neppure regionali, ma comunali, se non frazionali, nel senso di isolare solo le possibili micro-zone rosse, per consentire appunto al resto dell’Italia “di ripartire”. Cosa che però, aggiunge, richiederà  tempo. Non sia mai...
In realtà, l ’Italia, per due terzi o quasi con contagi ridottissimi, dovrebbe, confidando nel senso di responsabilità dei cittadini, di riaprire tutto e subito (escluse ovviamente le zone rosse). Si dovrebbe lanciare  un segnale forte, di coraggiosa normalità. Accettando il rischio a viso aperto, condividendolo con i cittadini, Senza buonismi e lamenti. 
Può sembrare una battuta,  ciò che stiamo per dire, ma non è così. L’atteggiamento del governo populista, sembra ritagliato su quello del grande chirurgo, che una volta terminato l’intervento, rivolgendosi ai congiunti del paziente in trepida attesa, parla di operazione perfettamente riuscita ma, purtroppo,  di malato morto. Ragionamento alla Brusaferro.

Ecco, l’ insistenza del governo populista, sulla necessità di pervenire a un tasso vicino allo zero di contagiati e deceduti in tutta Italia,  rischia invece  di uccidere  l’economia italiana. Ciò che da un punto di vista astratto, epidemiologico,  può avere un fondamento teorico,  non lo ha da quello reale. Perché dando credito al rating cervellotico (questo sì) dell’ISS,   il rischio è di far morire di fame un’Italia che si dice guarita…      
Ecco perché il declassamento di Fitch  è un importante richiamo alla realtà. Che però, sospettiamo, sarà ignorato.


Carlo Gambescia                  

martedì 28 aprile 2020

Fase 2
Il liberalismo che non c’è


Mai in passato si  era avvertita come  oggi   la mancanza di una cultura liberale diffusa. Non parliamo del liberalismo macro-archico, semisocialista, negli Usa  definito liberal,  che impone i diritti a colpi di decreti e che evoca società, dove i gruppi (non più gli individui), gelosi dei propri diritti, soprattutto sociali, pagati dallo Stato, se le danno di santa ragione: abortisti contro non abortisti, “eutanasisti" contro "non eutanasisti”,  gay contro omofobi,  femministe contro misogini, eccetera, eccetera. Questa concezione con il liberalismo non  ha nulla a che vedere. E' una fotografia statale della società suddivisa in gruppi armistiziali, contrapposti: una società  pronta a  deflagrare da un momento all’altro.
Invece di quale cultura liberale parliamo?  Quella che, nonostante il clima mondiale di isteria,  ha consentito,  come in Svezia e in altri paesi, un approccio soft  al Coronavirus fondato non sul potere coercitivo dello stato, ma  sul senso di responsabilità dell’individuo. Si è  intervenuti solo con provvedimenti restrittivi localizzati, lasciando che le persone scegliessero liberalmente da sole come comportarsi.  
L’esatto contrario di quel che è accaduto in Italia, dove dalla sera alla mattina  il governo ha decretato gli  arresti domiciliari di sessanta milioni di cittadini, usando i poteri coercitivi dello stato.  In un paese a cultura liberale diffusa ciò non sarebbe stato possibile. Si veda, ad esempio, la varietà di reazioni politiche non costrittive, o comunque  semicostrittive,  negli Stati Uniti,  Gran Bretagna, Germania, dove esiste una cultura del rapporto tra stato e governo di tipo liberale.
Il nostro paese, in pratica, ha sposato il modello totalitario Cinese, estendendolo in poche ore  a tutto il territorio nazionale. E i cittadini, opportunamente terrorizzati,  si sono  piegati ai voleri dello stato. Fortunatamente da noi  - per ora -  c’è maggiore libertà che in Cina, e gli anticorpi liberali,  benché intossicati,  continuano a  circolare nel corpaccione statalista dell’Italia, come provano le reazioni, seppure timide,   alle cosiddette misure  della Fase  2.

Però di quale liberalismo si tratta?   
Un liberalismo, semisocialista, macro-archico, liberal, che  continua a ritenere che lo stato  sia la soluzione e non il problema.  
Invece di riflettere sull’ennesimo fallimento dello stato su tutto il fronte, da quello economico  a quello epidemico: i soldi promessi da due mesi nessuno ancora li ha visti; l’epidemia si sta spegnendo da sola. Invece di riflettere, dicevamo, si tende la mano  per ricevere qualcosa: il prete  vuole la messa con i fedeli, i parrucchieri i clienti a numero chiuso, le partite Iva un pugno di euro, gli esercenti le bollette,  gli industriali i finanziamenti pubblici, insegnanti e magistrati andare lo stesso in vacanza, i poliziotti gli straordinari, i  medici e gli  scienziati più soldi e più potere.
Tutti, ripetiamo, tutti, vogliono qualcosa dallo stato,  perché lo  ritengono onnipotente.  Sicché si ragiona inutilmente su come farlo funzionare meglio, non su  come metterlo nella  condizione di intervenire il meno possibile nella vita dei cittadini, insomma di non nuocere, come imporrebbe una autentica  cultura liberale.

E qui ritorniamo alle misure soft antivirus, al senso di responsabilità, all’importanza dell’individuo, all’accettazione anche del rischio, in tutti campi, quel rischio  che  rappresenta il sale della cultura liberale.  Una cultura che quando si è professori  implica la ferrea volontà di studiare sempre, accettando il conseguente rischio di rimettersi ogni volta in discussione. 
In Italia, invece, come provano i grandi quotidiani pseudoliberali, dalla “Stampa” a  “Repubblica”, dal  “Corriere della Sera” al “Sole 24 ore”, l’unica versione compatibile del liberalismo con la nostra antropologia culturale e sociale  è quella dell' individualismo assistito,  perché riconosce allo stato, cosa che piace a quasi tutti gli italiani, il ruolo di macchina distributrice di diritti e denari.
Se ci si passa la battuta, l’italiano vuole fare l’ individualista, non a spese proprie ma a spese dello stato. Si vogliono fare i propri comodi, ma con il paracadute pubblico. L'italiano non  ama  rischiare. O meglio non ama  le responsabilità insite in ogni scelta. Responsabilità che non possono non implicare il rischio di non farcela. E allora, pur di non fallire,  o non si agisce o  si vuole il paracadute. Dello stato.
Ed è questo lo spirito, purtroppo, con cui l’Italia sta affrontando la Fase  2. 

Carlo Gambescia                      

lunedì 27 aprile 2020

Sulla disobbedienza civile al Governo Populista di Conte



“Conte non cambia nulla”, “Ripresa con il freno a meno”,  eccetera, eccetera.  Questi, più o meno,  i titoli dei giornali di oggi, che però, seppure condivisi, con toni da diversi da destra e sinistra,  non sembrano evidenziare il problema principale, che può essere condensato in una parola sola: ricatto.
Conte, presidente del Consiglio  del Governo Populista,  ieri sera ha gravemente minacciato gli italiani. Ricattandoli: “Se non rispettiamo le precauzioni la curva risalirà, aumenteranno i morti e avremmo danni irreversibili per la nostra economia”. 
Le minacciose  parole del Presidente Consiglio, mostrano il cupo volto illiberale  del Governo Populista che usa l’epidemia di Coronavirus per non ammettere che il lockdown, oltre a non aver inciso sul corso dell’epidemia che si sta spegnendo da sola, rischia di  provocare il crollo verticale del nostro sistema produttivo.  Non sapendo come uscirne, Conte,  addossa la colpa gli italiani, da due mesi agli arresti domiciliari  a causa di scelte politico-sanitarie irrazionali. Nelle quali, Conte, stupidamente,  come un dittatore sudamericano, come un Maduro qualsiasi,  pur di  non perdere la faccia, vuole perseverare.  Ricattando gli italiani a colpi di tamponi e positivi. La famigerata "curva"... 
L’Italia però non è il Venezuela. Credo sia venuto il momento della disobbedienza civile.
Che cos’è la disobbedienza civile?  Intanto, non è nulla di organizzato, di progettato,  come auspica certa destra, altrettanto populista, che al posto di Conte, avrebbe preso misure ancora più dure. E che se ora, con Salvini, parla di  manifestazioni, lo fa solo per  vili  ragioni di  tornaconto politico. La destra  populista  è illiberale quanto la sinistra populista. Mai fidarsi.
Allora che fare?  Individualmente, senza alcun piano preordinato,  “attrezzati” di mascherine e guanti, dobbiamo riprendere a uscire, liberamente, dobbiamo  tornare a respirare per quanto possibile, con una mascherina. A piedi o in auto. Riempire vie e piazze.  Rischiare, insomma.  E in tutti i sensi. 
Perché dove non c’è rischio, non c’è libertà.
Ovviamente, ogni cittadino  decida in libera coscienza. Chi scrive è uno studioso, non un politico o un organizzatore politico. Se parla, parla ai singoli,  e intellettualmente. Non ama e non odia il potere, semplicemente lo indaga.  Uno studioso però ben convinto che vi sono momenti in cui la paura bisogna metterla da parte. E prima che sia troppo tardi.

Carlo Gambescia

Che fare?

Contro un Governo che governa troppo e un' Opposizione che si oppone poco o nulla

Che fare?  

 Intanto,   tutti a leggere il   numero 9   di Linea (settimanale), scaricabile gratuitamente qui:







Articoli, commenti e  servizi di Carlo Pompei, Roberto Pareto, Carlo Gambescia, Giuseppe Caramelli, Federico Formica

Buona lettura! 



domenica 26 aprile 2020

Il 25 aprile e  gli italiani

Chiedere ai fascisti di celebrare il 25 aprile è come chiedere  ai soldati di Napoleone di festeggiare Waterloo. Non si può chiedere agli sconfitti di  celebrare una sconfitta. Come non si può chiedere ai vincitori di non celebrare un vittoria.  Però, ecco,  sorge allora una domanda: chi  vinse chi il 25 aprile? Sicuramente vinse l’antifascismo e perse il fascismo. E giustamente.  Ma l’antifascismo era un valore, già all’epoca,  “sentito” da tutti gli italiani?
Diciamo subito, che le masse, si distaccarono dal fascismo durante la guerra. Un immane conflitto che venne “sentito” dagli italiani, dal popolo insomma,  soprattutto come guerra fascista. E di conseguenza, una volta che le cose si misero male, con riflessi dolorosissimi (soldati caduti, razionamenti e fame, bombardamenti alleati, occupazione tedesca e nazista, guerra civile),  il fascismo che  aveva imposto e dichiarato la guerra  ne pagò le conseguenze ultime.
Sotto questo profilo, l’antifascismo, per il popolo   fu una specie di appendice rabbiosa e disperata, che innervò, soprattutto durante la guerra civile, la lunga attesa dell' enorme "area grigia" (De Felice), maggioritaria,  costituita  dagli italiani che rimasero trepidanti alla finestra in attesa che tutto finisse quanto prima .   
Durante il Ventennio, avanti la guerra, la gente comune, e i rapporti dei prefetti sono lì a testimoniarlo,  apprezzava, semplificando (per capirsi insomma), i treni in orario, l’ordine e la normalità.  La rinuncia alla libertà feriva, ma non  più di tanto,  neppure le  élite colte. Come provano la larga adesione al  giuramento dei professori universitari e gli applausi del gruppo di storici della volpiana Scuola romana in occasione della Proclamazione dell’Impero, anno di grazia 1936, in quel di Piazza Venezia. Poi divenuti quasi tutti rigorosi antifascisti.    
Il fascismo, prima dell’involuzione totalitaria, legata all’alleanza hitleriana e alla guerra, usò verso  gli intellettuali, ovviamente se spoliticizzati (almeno in pubblico), un occhio di riguardo. L’importante magistero morale e intellettuale di Croce è lì a provarlo. Ovviamente il fascismo era una dittatura  che colpì  con durezza gli avversari politici, e non importa se professori o meno. L’assassinio  dei fratelli Rosselli ne resta forse  la prova più atroce.

Probabilmente, se Mussolini, come Franco,  non fosse sceso in campo, il fascismo avrebbe seguito la sorte del franchismo spagnolo, spegnendosi lentamente in un lungo diluito e accidioso dopoguerra. Mussolini come Franco sarebbe morto di vecchiaia in pigiama e il fascismo si sarebbe decomposto lentamente, dividendosi in fazioni cattoliche, mussoliniane, monarchiche, conservatrici e progressiste. Anche la stessa  Monarchia non sarebbe caduta. La permanenza al potere  dei Savoia nel dopoguerra europeo  avrebbe addirittura  influito, forse in chiave illuminata,  sulla cosiddetta diarchia politica,   messa probabilmente a rischio negli anni Cinquanta da un re giovane,  più dinamico e “democratico”,  come Umberto II. Senza dimenticare l’inevitabile processo di modernizzazione  sociale ed economica che, come per la Spagna, avrebbe abbracciato anche l’Italia, mutando costumi e abitudini.
Insomma, le masse, senza guerra, non avrebbero voltato le spalle al fascismo, almeno non subito, o comunque fino agli anni Sessanta, quando Mussolini, classe 1883, avrebbe avuto quasi ottant’anni.
Il popolo italiano  fu prima fascista poi  antifascista per non belle (eticamente belle...)  ragioni di quieto vivere. Tiepidamente.  Purtroppo,  l’uomo -  diciamo l’uomo medio -  alla libertà preferisce sempre la sicurezza. E del fascismo, ancora oggi, si ricordano le misure sociali, quasi con piacere, dimenticando - o facendo finta di dimenticare -  la grave perdita di libertà.   

Diciamo allora che il  25 aprile, se per i fascisti resta una brutta pagina e per gli antifascisti rappresenta giustamente il ritorno della libertà, per gli italiani,  sul piano della conoscenza collettiva, quindi di ciò che è trasmesso per generazioni, non  è   che lo specchio deformato di una cattiva coscienza, che assolvendo il fascismo, o comunque minimizzando,  prova ad assolvere se stessa. Specchio, insomma, dentro il quale l’italiano, come popolo,  non vuole guardare.  E di certo, non fino in fondo. 
Il che però spiega  l’inevitabile carattere elitario  che continua ad assumere  la  celebrazione del  25 aprile.
Purtroppo,  mai chiedere ai popoli ciò che non possono dare.  Sia come fascisti, sia come antifascisti.

Carlo Gambescia                      

sabato 25 aprile 2020

Riflessioni
Psicologia, sociologia e storia  dello statalismo


 Che cos’ è lo statalismo? Chi  è statalista? Come individuare le caratteristiche dello statalista tipo?  Quali sono le forze sociali e politiche stataliste?  Qual è la sua storia? Qual è la sua sociologia?
Innanzitutto, statalismo significa ritenere  che le competenze dello stato debbano estese a tutti i campi della vita sociale, dall’economia alla morale, dalla religione alla cultura, perché, come si legge spesso,  solo lo stato avrebbe le risorse e le capacità prospettiche per intervenire  e risolvere qualunque problema. 
Pertanto lo statalista è colui che crede nel ruolo dirimente dell’intervento statale.  Le caratteristiche principali dello statalismo sono rappresentate dalla riduzione progressiva, fino alla soppressione, delle libertà individuali. Le forze politiche  che nel mondo attuale difendono lo statalismo, vanno dal “democristianismo” al liberalsocialismo, ai rottami dei socialcomunismo,  del fascismo e  nazionalsocialismo, per finire con l’ecologismo  e l’ambientalismo.  Senza però dimenticare che appartengono alla famiglia statalista  anche  populisti e sovranisti,  tutti nervosamente dalla parte dello stato.  
Quanto più la società è regolamentata tanto più la forza dello statalismo tende a soverchiare la libertà individuale.  Di regola, il punto di equilibrio reale tra regolamentazione  e libertà è di natura storica. Tuttavia, storicamente parlando,  mentre non si sono mai avute società totalmente prive di regole, soprattutto scritte ( se non agli albori della storia), sono  invece  esistite  società totalmente regolamentate: dalle monarchie idrauliche orientali ( e medio-orientali) ai grandi imperi dell’Occidente, dallo stato assoluto allo stato totalitario del Ventesimo secolo.

La regola storica è la regolamentazione ( si scusi il bisticcio di parole).  E per secoli, proprio a causa della regolamentazione, i progressi economici e sociali sono stati limitatissimi. E ciò perché la regolamentazione ha natura politica e rinvia al rafforzamento del potere delle élite governanti. Consolidamento che viene rappresentato, dalle stesse élite,  come necessario per perseguire il bene comune. E così è avvenuto per migliaia di anni attraverso guerre e conquiste manu militari. Il modo più semplice per redistribuire: massacrare e rubare agli altri popoli, per dare al proprio.
L’idea di deregolamentazione ha pochi secoli di vita e si sposa, non a caso,  con  una visione non polemogena  del potere, visione  sorta dopo le guerre di religione, quando si  riconobbe  all’individuo la libertà di fede. Dall’idea di tolleranza religiosa sono discese   tutte le successive libertà politiche, economiche e sociali.  Un fenomeno che in seguito - e attenzione  in  assenza di qualsiasi teorizzazione dall’alto -   si è denominato liberalismo. Un esperimento ancora in corso,  accettato (ma non da tutti), perché ritenuto migliore, dal punto di vista evolutivo e funzionale, di altri sistemi storici. Per ora, ovviamente.
Lo statalismo, che viene da lontano, sorta di archetipo antropologico-sociale, rappresenta una minaccia costante  e ricorrente che nelle nostre società, una volta battuti i totalitarismi nazista e comunista,  si va profilando sotto varie forme, molto pericolose:  del welfare state, del fiscalismo, dell’ecologismo,  del militarismo, del nazionalismo; tutte dottrine che dichiarano a priori (a differenza del liberalismo che si rimette alle scelte individuali)  di sapere a menadito ciò che sia bene per l’individuo:  “l’obbligo di una salute di ferro”, “l’eguaglianza delle fortune”,  “un pianeta incontaminato” “l’onore militare”, “la razza e l’identità, “la fede in un dio che è più dio di qualsiasi altro dio”.


A questo punto ci si potrebbe chiedere come funzionano le società, storicamente parlando. Secondo i principi statalisti o individualistico-liberali?  Un passo indietro. La sociologia insegna che gli individui interagiscono e perseguono i propri interessi senza avere alcuna visione generale. Tuttavia  alcuni individui più forti, tendono a imporre i propri interessi su quelli altrui, aggregando altri individui, promettendo in ricompensa la redistribuzione di risorse materiali e culturali.  La redistribuzione implica  però strutture redistributive, che per  migliaia di anni sono state rappresentate e monopolizzate dallo stato.  Negli ultimi secoli,  senza alcun disegno precostituito, si è scoperto( quindi dopo) che la redistribuzione attraverso il mercato (vera  miniera d'oro per migliaia di anni inesplorata) funziona meglio della redistribuzione attraverso conquiste e guerre.  
Lo scambio tra privati,  in precedenza  giudicato un’area marginale della vita sociale,  si è così  ritrovato  spontaneamente al centro dell’universo sociale. Questa centralità  ha consentito (ripetiamo, dopo la formazione del libero mercato, quindi ex post)  di  scoprire  il   valore della libertà individuale.  Quella stessa  libertà,   che pur essendo un importante fattore sociale (magari elogiato in passato  da qualche solitario poeta per eccentrici) il dominante pensiero statalista  giudicava pericolosa.

La modernità liberale e individualista, che ha  tre o quattro secoli al massimo, si trova perciò dinanzi un  pericoloso avversario, lo statalismo, che ha dalla sua un potente fattore antropologico-sociale.
Certo, la sociologia insegna che  l’individualismo è un fattore sociale importante, reale. Ma asserisce pure che  l’individualismo sta vivendo la sua infanzia, forse adolescenza. Di qui, se ci si passa la metafora, quel suo piegarsi, talvolta riottoso,  a  forme di individualismo protetto, paternalistico, ben rappresentate dal welfare state. Uno statalismo dolciastro ma non meno pericoloso di quello duro e puro.
Concludendo, sebbene la terminologia non sia di nostro gradimento, la "guerra" antistatalista dell'individuo è ai suoi inizi. Perdere qualche battaglia - basti vedere ciò che sta accadendo in questi giorni - non si significa perdere la "guerra". Ce n'est qu' un debut, continuons le combat. Coraggio amici liberali! 
Carlo Gambescia

venerdì 24 aprile 2020

Cambio della guardia a  “Repubblica” e  “Stampa”…
Anche i direttori dei giornali italiani sono scelti da Putin?

In prima battuta, il cambio della guardia tra Giannini e Molinari, due direttori che appartengono a giornali dello stesso gruppo editoriale (semplificando:  alla famiglia Agnelli-Elkann  con quella  De Benedetti ormai in posizione minoritaria *),   potrebbe essere  visto come un slittamento  su posizioni centriste  di “Repubblica” (ora diretta da Molinari), al quale  risponde lo spostamento  più a sinistra della “Stampa” (ora diretta da Giannini).
In realtà, si tratta di  sfumature, forse di cambiamento di  toni, anche perché la chiassosa e pittoresca destra salviniana resta comunque  invisa a “Repubblica” e  “Stampa”.  Con la Meloni, che probabilmente sarà trattata meglio da Molinari. Forse  avremo su “Repubblica” più interviste alla ruspante Giorgia, in versione  "destra caviale". Vedremo.
In realtà, al di là delle questioni “politichesi”, il fatto che sconcerta e di cui oggi si parla poco,  anzi si tace proprio,  è  un altro. 
Molinari viene rimosso dalla carica in quattro e quattr’otto, dopo aver trascorso una vita alla “Stampa,” come inviato e  corrispondente da New York, nonché direttore negli ultimi quattro anni.
Perché?   In realtà, Molinari  ha subito  pesanti attacchi da parte russa, addirittura con minacce fisiche (“chi si scava la fossa, ci cade dentro**)  per aver pubblicato un articolo di Jacopo Iacoboni, all’inizio di aprile.  E, cosa evidentemente più grave ancora, per averlo giustamente difeso. Nell’articolo di Iacoboni si  avanzavano dubbi sull’utilità e  genuinità etica, per così dire, dell’aiuto russo all’Italia, aiuto in medici militari in occasione dell’epidemia di Coronavirus.
Molinari, che ha sempre difeso giustamente l’Occidente quale comunità di libertà e grande esempio di società aperta,  è un caso da manuale: il classico giornalista atlantista e filo-israeliano - magari ce ne fossero di più -  malvisto ovviamente da Putin e fedeli cani da guardia.  
Attenzione però:  poiché si tratta, di uno scambio  alla pari di direttori, tra testate ugualmente importanti, i russi non possono gradire... E probabilmente, alla prima occasione,  Molinari sarà attaccato di nuovo.

Il fatto deve far riflettere su certe debolezze costitutive, diremmo caratteriali, della grande  editoria italiana,  che  tra l’altro si considera furba, illudendosi  di poter accontentare i russi, gente che non si tira indietro davanti a nulla,  con un semplice “giro di valzer”.  
Sono veramente mezzucci degni di un mondo editoriale meschino.   
Al posto di Molinari non avremmo accettato il nuovo incarico: meglio dimettersi e denunciare subito l’imbroglio politico. Anche perché i russi torneranno all’attacco fin quando non saranno riusciti  a mettere sul podio  un direttore “amico”. E Molinari che farà? Dovrà subire o dimettersi o “essere dimesso”.
L’ “irresistibile”  ascesa di  Marcello Foa alla Presidenza Rai  è lì a documentare la prepotenza dei russi…  Eppure.     

Carlo Gambescia

P.S. Il coevo spostamento di Mattia Feltri alla direzione di  HuffPost  merita trattazione a parte quale tratto più che altro di tipo fumogeno...   Ferme restando - cosa ovvia  - le sue buone capacità professionali..                      



giovedì 23 aprile 2020

Correva l’anno 2020
La “reinvenzione” sociale
del Coronavirus


Il peggiore vizio del nostro tempo si chiama faciloneria o superficialità.  Ben incarnato dalla pretesa di dare risposte facili a domande complesse. Ad esempio,  di un evento  sociale  si vuole subito sapere come andrà a finire.  Come i se i tempi della realtà storica  fossero quelli di una miniserie televisiva.  
Per un verso,  l' atteggiamento è frutto della cultura di massa, che dovendo parlare a tutti, deve semplificare il messaggio, tradurlo in semplici icone  o simboli sociali;  per l’altro dipende dalla rapidità comunicativa,  veicolata  dai  mass media,  portati in automatico a privilegiare, semplificando a loro volta,  la velocità  rispetto  all’esattezza e completezza della notizia.  
Infine, con lo sviluppo del digitale e dei cosiddetti Social i  fenomeni della semplificazione e della “velocizzazione” comunicativa hanno raggiunto il culmine, devastando  il discorso pubblico, oggi ridotto  a scontro tra belluine tifoserie a colpi di slogan e di striscioni.
La classe politica (quindi tutte le forze politiche) invece di opporsi, si è adattata  al  fenomeno. Il populismo, oltre che essere l’affermazione di una visione retriva dei rapporti politici, è  il punto di arrivo politico  della semplificazione  digitale.
Il Coronavirus  rappresenta la prima epidemia all’epoca della semplificazione politico-digitale.  Il che spiega, come un’ epidemia stagionale, forse poco più di un’ influenza ma gestibile in condizioni normali (diciamo prima dell’avvento della semplificazione politico-digitale), si sia trasformata, a causa di decisioni politiche prese sull’onda  incontrollata delle emozioni (altra forma di semplificazione psicologica) in una  fiction catastrofista dai distruttivi effetti di ricaduta, soprattutto economici.

L’epidemia? Ci sterminerà tutti…  Misure da prendere? Le più dure possibili, proprio per ridurre il numero dei morti. E quanti saranno? Miliardi… L’economia? Cosa volete che sia di fronte alla scomparsa della razza umana…
Ecco le  superficiali domande e risposte  che hanno trasformato - ripetiamo -  un’epidemia stagionale di influenza in una pandemia da fiction catastrofista.  Con conseguenze reali  che sono però sotto gli  occhi di tutti. Che diventano di giorno in giorno più serie, a causa del pieno e rigoglioso sviluppo del  romanzo (di appendice digitale) sul Coronavirus.  
Una letteratura popolare (e populista...) che  ha necessità di  stereotipi positivi: i medici eroici con le stampelle,  le infermiere in lacrime,   le fosse comuni cercate con il lumicino, le file  di bare in prima pagina, le vecchine aiutate dal volontario pagato dal comune,  il tricolore  delle finali della Coppa del Mondo alle finestre, il patriottismo alimentare, il bravo cittadino che denuncia i passeggiatori abusivi.  Ma anche di stereotipi negativi: il  liberista che taglia la sanità,  l’Unione Europea matrigna  che  nega  carrozza e denari, le multinazionali che hanno fabbricato il virus per arricchirsi,  il bieco  evasore fiscale che, ammalatosi,   approfitta dell’intensiva.   

Insomma, tutto un immaginario, ben gestito dai professionisti del Coronavirus  (per parafrasare Sciascia),  che, per quanto riguarda l’Italia (dai politici ai giornalisti e intellettuali, dagli scienziati  al mondo dello spettacolo)  hanno trasformato alcuni episodi pilota a Bergamo e Brescia  in una gigantesca fiction nazionale.  Tutti chiusi in casa davanti alla televisione e al computer.
Sotto questo aspetto si puà parlare di “reinvenzione” del Coronavirus. Ovviamente, anche all’estero, le cose non sono andate meglio,  dal momento che da tempo  siamo tutti immersi nella semplificazione politico-digitale.  
Il che, attenzione non significa, che non vi siano stati medici, infermieri, volontari, eccetera, che si sono sacrificati, ma più semplicemente, vuol dire, che  la semplificazione politico-digitale  ha bisogno come il pane  di buoni e cattivi e soprattutto di eroi e che quindi, come per forza propria,  non può non  imporli, persino  a costo di falsare la realtà, tramutando un’epidemia stagionale nella peste del Terzo Millennio.  Una fiction però, come insegna la legge di Thomas, dalle conseguenze reali.
Gli storici dei prossimi secoli  non potranno  non interrogarsi sulla  “reinvenzione” sociale  del Coronavirus,  perché di questo si tratta.  Di indagare, insomma, l' ondata di follia collettiva  che colse l'Italia e il mondo quando correva l’anno 2020…

Carlo Gambescia                      

mercoledì 22 aprile 2020

Il Ministro Boccia sulla Fase 2
Il virus populista e il “passato che non tornerà”


La terribile  forza del virus  populista  è racchiusa  nella dichiarazione del  Ministro Boccia  per gli Affari Regionali: “Dal 4 maggio non c’è il ritorno al passato, finché esiste il virus il passato non tornerà. La nuova normalità prevede ancora tanta pazienza, compresa l’autocertificazione” (*).
“Non c’è il ritorno al passato”. In questa espressione è  coagulato tutto il sadismo del potere populista allo stato puro.  Una volontà di tormentare i cittadini. E di poter così dispiegare la famigerata potenza di fuoco  populista contro il liberalismo, suo nemico  principale,  puntando su stili di vita  da società chiusa, pre-liberale.  
Si tratta di un tratto sadico che ha ormai contagiato tutti i partiti, compreso quello Democratico (che pure un tempo aveva una saggia "cultura di governo"),  partito al quale  appartiene Boccia.  Il punto è che il populista, parente stretto del democraticismo giacobino ( o meglio “cordigliero” e  “arrabbiato”), si ritiene il depositario e difensore unico  della volontà popolare.
Ma attenzione, il populismo  rinvia a una forma mentis politica che viene da lontano, quale  odio puro verso il liberalismo. Se nei secoli passati, fino alle tre grandi  rivoluzioni (inglese, americana, francese), i sovrani si ritenevano  depositari di un potere assoluto  di natura divina, che  consentiva al monarca di ottenere l’obbedienza dei sudditi, così oggi un potere che deriva da un’entità altrettanto divinizzata, il popolo, consente a coloro che sono al comando di governare  in modo altrettanto assoluto nei riguardi dei cittadini, proprio come i sovrani di un tempo
Il pericolo  nasce dalla divinizzazione del principio politico dai cui discende il potere: un tempo dio, oggi il popolo.  Ovviamente i governanti populisti come i monarchi di un tempo,  approfittano inevitabilmente del potere,  in primo luogo  perché la carne è debole, in secondo luogo,  perché l’abuso  è nella natura stessa del potere, soprattutto  quando  mancano  freni e contrappesi  di natura liberale, o  perché rimossi o perché ignorati.  Il che spiega, per tornare  all’oggi,  il sadismo del Ministro Boccia, tanto più gratuito quanto più il potere è assoluto.
Naturalmente, se la monarchia assoluta  poteva contare sull' acquiescenza della Chiesa (cosa di cui ha goduto, tra l’altro, anche il potere populista in questi difficili mesi), oggi la democrazia assoluta  può contare sulla connivenza della Scienza, altra divinità riconosciuta come un tempo la Religione.
Il ragionamento ufficiale del Ministro Boccia è semplice, ricorda quello dei Crociati: finché Dio ce lo chiederà combatteremo i Mori. Che cosa dicono i populisti?  Finché la Scienza ce  lo imporrà, combatteremo il Coronavirus.  Naturalmente, come allora si battagliava per il  Bene di Dio, oggi si  lotta contro il Virus per il Bene del Popolo.  
       
L’unico rimedio  politico  contro la Politica Assoluta, sia del sovrano, sia del  populista,  è rappresentato dal liberalismo, ossia, da un sistema di libertà individuali, politiche, sociali, economiche, tutelato dalla legge e dai giudici, nel senso che le libertà individuali sono  considerate come preesistenti   e inattaccabili  dalle  pretese sadiche come abbiamo visto,  di un potere divinizzato o  dall’alto (dio) o dal basso (il popolo).

A differenza del credo politico divinizzato, non è assolutamente necessario divinizzare le libertà individuali, perché fanno parte, come mostrano la storia, la sociologia, l’antropologia e perfino la biologia, del bagaglio umano. Senza la libertà,  uomini e società appassiscono: l’intera storia umana può essere interpretata come un conflitto tra il potere e l’individuo, anche quando l’uno e  l’altro non furono consapevoli  né  del conflitto stesso né della divinizzazione del potere.
Il liberalismo, sorta di esperimento storico, senza che nessuno lo ritenesse tale,  per la prima volta nella storia umana ha posto consapevolmente il grandissimo problema della libertà umana dinanzi al potere.  Di qui  le rivolte  contro la ragione liberale, un tempo  dei monarchi assoluti, che  temevano di essere privati del potere, oggi dei populisti assoluti, ansiosi di esercitare il potere nel nome del popolo. Naturalmente il fenomeno totalitario (dal fascismo al nazismo e comunismo fino al fondamentalismo religioso) è  basato  sulla divinizzazione di entità collettive  (stato, razza, comunità di fede).

Come si può capire il liberalismo, vera e propria isola felice della storia,  "emersa" da pochi secoli,  ha sempre avuto tanti nemici. Il populismo non è perciò  che l' epigono, forse il più pericoloso,  di una  serie di ideologie antiliberali. 
Purtroppo, come evidenziano le parole di Boccia,  l’uso politico dell' epidemia di Coronavirus, per giunta prolungato nel tempo, da parte di un governo populista, non contrastato  da un’ opposizione, altrettanto populista,  rischia di sommergere come una gigantesca onda oceanica, e da tutti i lati,  la piccola striscia di terra liberale.
E, purtroppo, come mostra  Pitirim Sorokin (**), in un saggio sul rapporto tra emergenze e totalitarismo, la salvezza dell’isola liberale  potrebbe addirittura non dipendere più da noi.

Carlo Gambescia





(**) Il saggio sorokiniano (L’emergenza totalitaria: cause e fluttuazioni) può essere scaricato gratuitamente insieme al numero 8 di “Linea settimanale” qui:  linea.altervista.org/blog/

martedì 21 aprile 2020

 Le conseguenze dell' emergenza Coronavirus 
Né con Agamben né con Litta Modignani

Invitiamo  alla lettura di due articoli interessanti, non di per sé,  ma perché indicano due posizioni da evitare  dinanzi alla grande questione del controverso rapporto tra poteri pubblici italiani (ma non solo) ed  "emergenza" Coronavirus.
Per Agamben, autore del primo testo, il virus ha messo in luce le debolezze e contraddizioni dell’ Italia e dell' Occidente moderno e liberale. Per contro, secondo  Litta Modignani,  l'epidemia ha evidenziato la  forza e prudenza della società aperta.  Per Agamben si rischia un nuovo nazismo, per Litta Modignani, una volta passata l’epidemia, tutto tornerà come prima, o comunque saremo "liberi di tornare  a cercare la felicità"(*).
Semplificando, l’atteggiamento di Agamben è adorniano quello di Litta Modignani  deweyano: pessimismo culturale vs pragmatismo liberale. Due atteggiamenti che però non colgono nel segno.  Perché viziati da una mancanza di approfondimento della  dinamica sociologica.  In poche parole, non si guarda al ruolo delle istituzioni, insomma  dei poteri pubblici. Ruolo che risponde a  dinamiche profonde che, dal punto di vista delle conseguenze indesiderate o  volutamente ignorate dal decisore politico, possono provocare  veri e propri terremoti politici, di regola micidiali per le libertà dei singoli cittadini. 
Per capirsi: implementare la legislazione d’urgenza implica sempre conseguenze  sociali importanti, capaci di  tramutare  la socialità contratto  in socialità compulsiva.
Ci spieghiamo  meglio. I decreti sulla sicurezza e sull’economia comportano inevitabilmente attività sanitarie, di polizia di assistenza e credito, attività che innescano meccanismi  interpersonali  tra individui  che vivono in segregazione, anche economica,  e  operatori di polizia,  impiegati pubblici e privati, dalla sanità al  credito: soggetti, i secondi, che pretendono, dai primi,  deferenza e obbedienza sociale in situazioni-limite.  Il che di regola  causa  l’insorgere, nei primi,  di reazioni auto-difensive e di crescenti conflitti con i secondi, conflitti che  rinviano  a ulteriori implementazioni e regolamentazioni pubbliche, rivolte a provocare nuovi conflitti, come risposta alle  misure precedenti, e così via verso una socialità di tipo compulsivo.  Il circolo socio-centrico dei conflitti si autoalimenta  lungo la spirale regolamentazione-rifiuto e/o resistenza alla regolamentazione: spirale che al contratto, via colpi e contraccolpi,  sostituisce la costrizione.

Ciò significa che l’emergenza Coronavirus, da subito altamente contraddistinta da una notevolissima regolazione politica, rischia di aprire una fase sociale di crescente  instabilità. L’accentramento dei poteri pubblici, la chiusura o limitazione dei mercati,  il peggioramento della situazione sociale, l'estendersi di una condizione di sfiducia verso il futuro  non possono non causare, come spiega la sociologia storica dei conflitti sociali,  crescenti e disastrosi contrasti sociali, dagli esiti compulsivi (in tema si veda il paradigmatico libro sulla Francia di Charles Tilly, La Francia in rivolta, Guida 1990).
Ovviamente, il Coronavirus (e conseguente emergenza), ha un’intensità polemogena ridotta rispetto ad esempio ai dopoguerra novecenteschi,  saremmo perciò dinanzi a un evento emergenziale in scala più ridotta,  però -  mai dimenticarlo -  il meccanismo sfida-risposta sociale,  dal punto di  vista del potere riproduttivo della mentalità compulsiva, è analogo. Molto, ovviamente,  dipenderà dalla capacità di rientro e mediazione della classe politica.  
E qui veniamo a un altro punto. Finora la classe politica italiana (dalla destra alla sinistra, in verità) non ha dato buona prova, anzi pessima.  In primo luogo, per le modalità di dichiarazione dell’ emergenza, e in secondo luogo, per le difficoltà  - e  siamo solo all’inizio  -   di uscirne, considerata soprattutto la durezza delle misure prese e i pesanti effetti ricaduta economica e sociale.
Come abbiamo già detto, quanto più i poteri pubblici si accentrano tanto più diventa difficile  gestire i conflitti che insorgono, se non attraverso successivi giri di vite, che rinviano inevitabilmente alla compattezza  dei poteri pubblici come delle forze di resistenza sociale, in un  quadro complessivo, comunque la si metta,  di tipo compulsivo.  Si chiama, come il sociologo sa bene,  effetto indesiderato delle azioni sociale. Si vuole il "bene" (la salute pubblica), si ottiene il "male" ( autoritarismo e sommovimenti sociali). 
Prudenza perciò impone a una classe politica, degna di tale nome, di sottrarsi a  sfide del genere. Come dire? Inutilmente estreme. Infatti,  i conflitti tra lealtà e disobbedienza,  se esasperati dalle pessime condizioni economiche e sociali,  conducono sempre  al grado zero della socialità, al livello compulsivo, della costrizione, cui ricorrono inevitabilmente, una volta scelta la via della forza e del dirigismo, tutte le parti in causa, dal potere costituito al potere costituente.  Una condizione pericolosa, perché rappresentata dal confronto diretto, sovente fisico,  tra esercito, poliziotti, medici, burocrati da una parte e cittadini in fibrillazione dall’altra. Insomma se ci si passa   l’espressione, prudenza imporrebbe  di non  tirare mai  troppo la corda.    
E qui il giudizio concerneva e concerne la valutazione della gravità dei rischio Coronavirus, e alle modalità di cui parlavamo.  Rischio che per Agamben non era così evidente, mentre per Litta Modigliani  reale.

Chi scrive  -  la cosa è pubblica -   la pensa come Agamben, ma non sposa assolutamente le sue spiegazioni. Che sono quelle del tipico filosofo, o presunto tale,  che non vede l'ora di ballare sulle macerie della modernità liberale.  Il vero punto era ed è che si doveva essere prudenti - sia  Governo che Opposizione -  sulle  modalità  di dichiarazione dell’emergenza (e della successiva e pesantissima legislazione d’urgenza),  puntando su una strategia morbida, e comunque sia non certo sul modello cinese.  Proprio per evitare  di innescare la spirale sociologica, simile a una bomba a orologeria, della crescente compulsione. Dalla quale poi è difficile tornare indietro. E invece Governo e Opposizione hanno giocato al rialzo, rispolverando, i desueti e pericolosi  schemi di un  patriottismo dolciastro (Governo) o di un nazionalismo quasi  duro e puro (l'Opposizione di destra).  
Comunque la pensi Litta Modignani,  rischio epidemico e  rischio di una involuzione autoritaria come della rivolta sociale, o comunque del peggioramento netto del conflitto sociale, andavano e vanno sempre soppesati politicamente, secondo lo schema del liberalismo archico.  
La scelta, per un vero politico liberale, non è mai tra vita e morte,  soprattutto in questo caso,  anche perché basta conoscere un pochino di storia  delle epidemie (si veda il classico lavoro di McNeill) per scoprire che l'uomo, finora, si è mostrato sempre più forte di qualsiasi virus (lo "sterminio della razza umana" lasciamolo  alle fiction). La  vera  scelta  è  tra vita degna di un uomo libero, secondo contratto, e vita allo stato ferino, secondo compulsione  imposta dal conflitto tra potere costituito e costituente. La vera scelta è  tra il placido contrattualismo  liberale e il totalitarismo ferocemente dirimente da qualunque parte esso  provenga, dall' alto, vicino al "potere" o in basso a fianco del "contropotere". L'unico  vero rischio, insomma,  resta il rischio totalitario.
Riuscirà il  Governo Conte a  individuare una credibile exit strategy  dal vicolo cieco  in cui ha "cacciato" l’Italia?  Difficile dire.  Il populismo, che purtroppo oggi è condiviso da destra e sinistra, implica un approccio schizofrenico alla politica, non alieno, a prescindere dalle scelte del momento, dall'uso della socialità compulsiva,  negli Stati Uniti come in Italia, in  Polonia, come Ungheria, in Brasile come in Spagna, e così via.
Parliamo di una situazione  internazionale molto seria, segnata al momento dalla "preferenza compulsiva", che l'uso politico prolungato, in chiave illiberale (anche quando ci si dichiari  "liberali") del Coronavirus,  può rendere ancora più grave.  Situazione che forse almeno in Italia si poteva "prudentemente" prevedere. Sarebbe bastato,  invece di ascoltare  - o comunque non solo -  i virologi,   sentire la parola del sociologo (sia chiaro,  non ci riferiamo alla nostra persona).
Ovviamente,  pensiamo al sociologo autentico, magari di vecchia scuola, attento alle conseguenze indesiderate delle azioni sociali, comprese quelle ufficialmente rivolte al cosiddetto "bene pubblico". Non certo pensiamo  al sociologo-tamburino dello stato sociale oggi così richiesto.    
Ma questa è un’altra storia.

Carlo Gambescia


lunedì 20 aprile 2020

Fase 2, fase 3, fase 4…
Fase… 8.
È uscito il numero 8 di Linea (settimanale), scaricabile gratuitamente qui


Questa settimana  Linea pubblica  un articolo di   Piero Visani,  valoroso  collaboratore di Linea, per onorarne la memoria


 In omaggio un saggio di Pitirim A. Sorokin  in cui il grandissimo sociologo del Novecento,  spiega,   senza peli sulla lingua,   gli inevitabili  risvolti totalitari delle  emergenze…
Da non perdere, uno studio di grande attualità 



Libro e settimanale sono scaricabili gratuitamente qui:



Inoltre editoriali,  articoli, servizi di Carlo Pompei, Roberto Pareto, Carlo Gambescia

Buona lettura! 

domenica 19 aprile 2020

Ricordo intellettuale
di Fabio Brotto

Oggi desidero parlare  della mia  “amicizia” con il  professor Fabio Brotto e del suo significato. Nulla di definitivo, impressioni a caldo dettate dalla sua improvvisa scomparsa.
Un’amicizia particolare perché non ci siamo mai  conosciuti di persona, neppure “telefonicamente”, come con altri. Un'amicizia intellettuale coltivata a lungo per circa quindici anni, prima come reciproci frequentatori dei rispettivi blog, poi negli  ultimi sei anni sulle nostre pagine  Facebook.
Ricordo che il suo blog  mi fu segnalato, forse nel 2006-2007, da un bravissimo e sanguigno  scrittore,  Valter Binaghi, scomparso prematuramente nel 2013. 
Di Brotto mi colpirono subito due cose: le letture sterminate e la capacità di argomentazione, nonché una terza dote, caratteriale, che non guasta mai, l’umiltà cognitiva, spontanea e perciò fonte di mitezza. Rammento che nel 2007-2008, al mio invito a partecipare al battesimo di un  blog collettivo, egli rispose che  non si sentiva portato per avventure del genere  a causa del suo ipercriticismo, anche verso se stesso…  Su ogni argomento, egli  aggiunse,  “individuerei le posizioni pro e contro, con il rischio di una critica autodissolvente dal punto di vista della comunità” (più o meno queste le sue parole).
Però Fabio Brotto non era un relativista (e tanto meno un nichilista): egli  credeva, nonostante tutto,  nell’ uomo (questa in fondo la sua “religione”), nonché  nelle capacità di auto-organizzazione e organizzazione degli esseri umani,  rifiutando però   millenarismi e ricadute demagogiche.
Per scendere sul piano politico, credo Brotto temesse  ogni forma di totalitarismo, fascista, comunista e… mercatista.   Di qui  il suo apprezzamento della democrazia liberale,  però con abbondanti correttivi sociali di natura pubblica.  
Cosa quest’ultima, che come sociologo, consapevole della necessaria natura imprevedibile e spontanea del sociale,  non condividevo e condivido.   Tuttavia -  e  finalmente vengo a ciò che ha rappresentato per me l'amicizia di Fabio Brotto -  le sue argomentazioni, ovviamente di segno contrario, mi  spingevano e spingono a mettere in discussione le mie idee,  forse troppo empiriste  sul sociale.  
Il richiamo di Brotto a non perdere di vista nell’analisi sociale la presenza, talvolta nascosta,  di   alcuni archetipi  (in primis di tipo girardiano),  costituisce tuttora  per me un monito intellettuale, quindi un’ eredità preziosa.  Al di là delle regolarità sociologiche e politologiche (metapolitiche), mio cavallo di battaglia  cognitivo, esistono  - ecco  la lezione di Brotto -   modelli filosofici e comportamentali, trans-storici,  come ad esempio  l’ “archetipo” antropologico  reinventato da René Girard, del "capro espiatorio":  un  vero e proprio fattore, quest'ultimo,  maieutico e ciclico, che ci ricorda che nel  divenire sociale, nonostante il progresso tecnologico, sono insiti,  nel bene come nel male,  limiti di natura antropologico-sociale.  Limiti  che   dettano all'uomo,  quasi in termini stoici (ma, crediamo, persino di filosofie orientali, di varia estrazione), un percorso contraddistinto da nascite e rinascite,  progressi e cadute, glorie e miserie.
Al di là di questa preziosa lezione antropologica, di Brotto   apprezzo  il romanziere  (inedito), con notevoli capacità volterriane di osservazione e introspezione, doti quest’ultime che invece ricordano l’ironica  pagina sveviana. Nonché il poeta byroniano (pubblico e multilingue) su Facebook, che eroicamente, ma  non senza   nostalgia, affronta con coraggio quel che di decadente scorge  nei nostri tempi.
Un intellettuale, Brotto, sospeso tra illuminismo e romanticismo, tra consapevolezza della forza della ragione (di qui il suo umanesimo critico e  riformista) e nostalgia di un mondo pre-girardiano (che forse non è mai esistito). Una specie di dialettica cognitiva che  spiega  la sua  ricerca, pur schermata-schernita, di un “centro” cognitivo, che egli attribuiva, come necessario,  persino alla società:   ricerca che ha distinto il suo intero cammino intellettuale  
Naturalmente, le mie, ripeto,  sono solo impressioni, per così dire letterarie, che  non ho avuto modo  di esplicitare a Brotto, come dicevo, di  persona.  E perciò discuterne con lui,  magari davanti a un calice di buon vino.  E questo è un mio rammarico.


Carlo Gambescia