giovedì 31 gennaio 2019

D’Annunzio, Céline, Houellebecq
Il fascino pericoloso del  decadentismo



Editori,  librai e lettori  stanno festeggiando l’uscita dell’ultimo romanzo di Houellebecq.  Non è un autore che apprezzo. E anche  Serotonina conferma la mia impressione.  Un romanzo filosoficamente mediocre.  Estetica della decadenza  per la decadenza, meglio D’Annunzio,  che nei suoi romanzi,  già più di un  più di  un secolo fa,  aveva individuato, e celebrato, il giro di boa,  verso la distruzione,   dell’individualismo umanitarista,  attenzione, non liberale.

Perché diciamo questo?  Per la semplice ragione che per la letteratura, a sfondo socialmente nichilista, sostanzialmente fondata sul risentimento,  si coniò a suo tempo il termine decadentismo. Che rinviava al crogiolarsi della letteratura   nel piacere intenso per la  dissoluzione di ogni ordine sociale. Al letterato decadente  non interessava se l’ordine sociale fosse o meno in crisi, oppure le possibili cause, interessava, tra vino, marmi e prelibatezze,  massacrare il borghese, che, a sua volta, ubriaco di umanitarismo   si lasciava massacrare con il sorriso stampato in faccia.
Una letteratura, che al di là dei destini personali dei singoli scrittori, andrà  a confluire  nelle torbide acque della  tentazione fascista. Con le disastrose conseguenze del caso.  Addirittura,  una volta  fatte, le debite osservazioni sugli stili diversi,  si potrebbe individuare il filo conduttore  che dal nostro  D’Annunzio, attraverso Céline, giunge fino a Houellebecq.   E non è necessario andare leggere Croce e Bobbio, ma basta sfogliare  La tentazione fascista  di Tarmo Kunnas.  Opera di uno storico serio, che la destra neofascista, nella sua ignoranza,  ha  trasformato in un libro cult. Ma questa è un'altra storia.    
Cambiano i nomi, gli scenari, le professioni dei personaggi,  ma il senso fondante dell’approccio decadente -   come odioso risentimento verso tutto ciò che sia borghese  -   è quello dell’autodistruzione individuale,  perché  -  si legge o intuisce -   la felicità non è di questo mondo. E quella borghese, così volgarmente a portata di mano,  è solo una ingiallita cartolina a colori.  
Attenzione, il decadentismo è l’alter ego dell’umanitarismo.  L’uno sottrae l’altro aggiunge. Ma  ambedue hanno indebolito  e indeboliscono  l’ordine sociale liberale.  Perché vanno a colpire le fonti vive dell’azione umana: il protagonista del libro di Houellebecq è un borghese di campagna, impasticcato ed erotomane, che non crede  più in nulla.  Andrea Sperelli, è un aristocratico annoiato, Ferdinand Bardamu,  un medico che ha visto tutto e sentito tutto. E Florent-Claude Labrouste, ripetiamo,  un agronomo disincantato. Tutti e tre odiano la borghesia e le conquiste della civiltà liberale. Un atteggiamento -  ecco il problema di fondo del decadentismo -  che attraversa il Novecento,  giungendo fino ai nostri giorni. E che scambia, e volutamente,  il liberalismo con l’umanitarismo, l’orgoglio delle conquiste liberali con  i singhiozzi  del liberale pentito senza motivo  e venduto alla causa del socialismo.
Del resto  i veri liberali tacciono. O magari,  si sforzano di trovare - colmo dell’autolesionismo intellettuale - qualcosa di positivo nelle pagine di Houellebecq … Alcuni professori invece,  solo per invidia da box office, provano timidamente  a criticarne lo stile…  I giornali si cimentano in strampalati collegamenti con l’attualità,  a colpi di gilet colorati…  Infine,  il lettore  medio, compra e legge avidamente, un romanzo che può indurre solo all’acquisto di  anti-depressivi. Proprio come fa il suo  protagonista. Chiamala se vuoi autodistruzione… O fascino pericoloso del  decadentismo.
Ora,  D’Annunzio e Céline, facilitarono e poi plaudirono l’ascesa del fascismo al potere.   E Houellebecq, piaccia o meno, si è incamminato sulla stessa strada, dove si scorgono, anche abbastanza vicine,  le stesse cupe ombre…   

Carlo Gambescia                    

mercoledì 30 gennaio 2019

Gli “interessi del popolo italiano” secondo Matteo Salvini
 Come governare con la paura...



Prima i fatti.

«"Il Senato e gli italiani devono decidere se sto facendo qualcosa che è nell'interesse del popolo italiano o no. Ci sono segnalazioni precise che sui barconi si infiltrano spacciatori, delinquenti, terroristi. In Tunisia ci sono almeno 3mila combattenti islamici. Ad ogni barcone che arriva in Italia illegalmente dirò di no. Se per qualche magistrato è sequestro di persona per me è difendere i confini del mio Paese". Lo ha detto Matteo Salvini a 'Dimartedì' su La7, in merito alla richiesta di autorizzazione a procedere sul caso Diciotti.»


Siamo davanti  a un ottimo esempio  di ciò  che significa  “Governo della Paura”, nel senso di un governo che usa la paura come unica risorsa politica. Quindi siamo  oltre  la  definizione  giornalistica di Salvini come "Ministro della Paura".  Il  fatto è strutturale. Sociologico.  E spieghiamo perché.     
Si agita un fantasma,  quello del terrorismo, dopo aver sventolato quello della criminalità, per spaventare la gente comune  e spingerla a sostenere un governo razzista.  Inoltre,  nel caso, del voto a Senato, Salvini e sodali pentastellati,   mostrano  di voler  preparare  il terreno per una delegittimazione, davanti all’ "amato popolo",   del Senato della Repubblica, in caso di voto contrario.
Insomma,  viene presentata come  pericolosa realtà  incombente  sulla testa dei “poveri” italiani,   quella che invece è una remota possibilità, come  la presenza a bordo  di terroristi,  così stupidi,  tra l’altro, di  nascondersi   su   una nave, che sarebbe sicuramente finita nel mirino dei media e della forze di polizia. 
Ora, per venire al punto strutturale, che i sistemi politici  rappresentino una forma di neutralizzazione della paura, è un fatto sociologico. In argomento esiste una letteratura vastissima che spiega, ad esempio,  le origini del welfare state come riposta alla paura da impoverimento. Oppure dello stato di diritto come  risposta alla paura di subire abusi. 
Ma, ecco il punto,  governare  non  rispondendo ma creando la paura, conduce direttamente all’uso della paura come mezzo ordinario di governo:   si crea ad arte  un pericolo  per giustificare la pura conservazione del potere. Si fornisce protezione per ottenere l' obbedienza.  Il che è un meccanismo politico che ha un senso, ma solo quando la paura è più che giustificata, quando sia reale non immaginaria. Per farla breve:  non costruita e strumentalizzata dal potere.
Naturalmente, non è  facile individuare il punto di confine tra paura reale e irreale.  Che però esiste.  
Si pensi, a un esempio classico per l’Italia.  Quello  dei famigerati appelli elettorali  democristiani  contro il pericolo comunista.  Allora però  il pericolo era reale. L’invasione  sovietica  non era una remota possibilità.  Il fatto che poi la Democrazia  Cristiana , dopo le elezioni,  favorisse il Partito Comunista italiano, come negli anni Settanta,  faceva parte di una strategia politica “dell’attenzione”  per ricondurre gli eredi di Togliatti nell’alveo del riformismo socialdemocratico.  Pertanto, l’uso della paura, aveva un preciso senso politico: quello di normalizzare, nel tempo,  i comunisti,  anche gli occhi degli stessi elettori democristiani. Quindi l’accento sul pericolo comunista,  faceva parte,  tutto sommato di una strategia dell' allargamento, in senso democratico, del sistema politico italiano.
Per contro, dietro il salviniano  uso della paura, c’è solo la  paura .  Non  c’è alcuna strategia politica, se non quella  di indicare all’ “amato popolo”, per spaventarlo,  i capri espiatori: i negri terroristi, le banche speculatrici, le élite gay e al caviale,  l’Europa “che comanda”.  Per andare dove? E qui viene il bello (o il brutto). Verso un rozzo assistenzialismo, politico e sociale,  a metà strada tra  le idee del fascismo e del cattolicesimo più conservatore. Quindi nell’ordine: nazionalismo, protezionismo,  razzismo  e integralismo sociale  e religioso.
E dal momento che l’alleato di Governo, il Movimento Cinque Stelle,  sull'  immaginaria paura di essere derubati dalla politica, dai famosi politici corrotti,  ha costruito la sua fortuna elettorale,  è facile intuire, come  il Governo giallo-verde  non possa giornalmente fare a meno di indicare nemici  e così  favorire una mentalità  da accerchiamento politico e da scontro permanente con  tutti  i "nemici del popolo".  
Una linea politica (parola grossa) che in prospettiva può condurre a  misure sempre più autoritarie  in nome della “salus” dell’ “amato popolo".   
Come ripeto da tempo, l’Italia è messa molto male. Sveglia!

Carlo Gambescia                     
                                       


martedì 29 gennaio 2019

Sociologia dell’antiliberalismo
I profeti della paura

Cosa distingue un liberale da un antiliberale? Che il primo ritiene che  ognuno di noi sappia ciò che è bene per se stesso, mentre il secondo ritiene di  conoscere ciò che sia bene per tutti.
Si dirà che questa è una distinzione non di sociologia politica ma di filosofia politica.
In realtà  non è   così. Ad esempio,  si consideri il  “Prima gli italiani” di Salvini” o “il Prima  popolo” di Conte e Di Maio.  Si dà per scontato che le  categorie  "italiani" e "popolo"  siano un qualcosa che preceda tutto il resto.  Tradotto: quel che è bene per gli italiani e per il popolo deve essere bene per tutti. Alle minoranze che non si adeguino  restano il silenzio, e in prospettiva l’esilio, la prigione e l’eliminazione fisica.   
Sotto questo aspetto  il Dna del  populismo  e del sovranismo è totalitario, dal momento che ritiene che il  tutto debba  sempre prevalere sulla parte.  Di qui la pericolosità. Che purtroppo molti non capiscono o non vogliono capire. Probabilmente perché questi falsi profeti della società  chiusa   non sono che i classici  lupi totalitari  che amano  nascondersi  sotto le  pelli di agnello dell'amore verso il popolo disprezzato da fantomatiche élite.  Usate, ovviamente, come capro espiatorio.  
Ma, allora, se le cose stanno così,   il liberalismo, con  quell’enfasi che pone sulla libertà economica, sui diritti civili, eccetera, non cerca di imporre a tutti, come bene totalitario,  una visione liberale della società?  Non è un altro lupo, eccetera, eccetera?
Il liberalismo si limita a porre le condizioni della libertà, poi saranno i singoli a scegliere. L’antiliberalismo invece dà per scontato che i singoli non siano in grado di scegliere, e che le condizioni della libertà  siano inutili quando vanno contro la nazione o il popolo.
Ad esempio, dal mercato si può uscire, senza rischiare di essere ridotti al silenzio, esiliati, imprigionati o uccisi, dalla gabbia totalitaria, della nazione  e del popolo no.  Come ben mostra la storia della prima metà del Novecento. E, di rimbalzo, lo straordinario periodo di pace e benessere, edificato della liberal-democrazie nella seconda metà dello stesso secolo.
Ovviamente, la libertà di scelta  è faticosa, perché impone un alto senso di responsabilità.  Però, nonostante questo,  la società liberale non cessa di  credere nella possibilità che la libertà sia un utile esercizio o se si preferisce un metodo per  educare le volontà individuale alla libertà. Si chiama autodisciplina.  Qualcosa, di interiorizzato, in modo consapevole, che nessuno impone dall'alto.  
Il liberalismo accetta il rischio della libertà, che talvolta può far vincere i suoi nemici, l’antiliberalismo, rifiuta invece il rischio. E rifiutandolo uccide lo spirito  di  libertà, recidendolo fin dalle radici.
E, allora,  le prepotenze degli   oligopoli economici,  dei famigerati diritti sociali, spesso imposti dall’alto,  come si giustificano con l’esercizio della libertà?  
La questione è antropologica. L’uomo alla libertà,  di regola, preferisce la sicurezza, anche a costo di rinunciare alla libertà. La società liberale, in quanto società  aperta, è una specie di isola nell’oceano storico delle società chiuse.  
Gli oligopoli economici e il welfarismo  rappresentano dei compromessi sociali all’interno della società aperta tra liberalismo e antiliberalismo, dal momento che, per così dire, la pressione oceanica  della società chiusa è sempre fortissima  gioca sul bisogno umano di protezione e sicurezza, che purtroppo è fonte di conformismo sociale. 
Come si può ora capire in Italia stanno  prevalendo i profeti della società chiusa. Che giocano sulla paura.

Carlo Gambescia                      

lunedì 28 gennaio 2019

Come non far cadere il  governo razzista di Salvini e Di Maio...
 Blitz in gommone e manifestazioni pubbliche possono bastare?




Per capire quel che sta accadendo in Italia non bisogna perdere tempo con i  retroscena di cui oggi sono pieni i giornali,  ma guardare al paradigma cognitivo-politico.  Insomma, non crediamo bastino tre onorevoli in  gommone per salvare l'Italia dai razzisti.
Paradigma. Il lettore non si spaventi del parolone. Il paradigma cognitivo-politico rinvia  a un modello di riferimento delle credenze  dominanti,  dunque ritenute “normali” dalla gente,  e dai  conseguenti meccanismi comunicativi.    
Oggi, dispiace dirlo, ma  siamo dinanzi a una specie di  rovesciamento di storiche alleanze intellettuali. E quindi  al mutamento del paradigma cognitivo-politico.   Idee ritenute fino a qualche anno  fa  lunatiche, come il signoraggio, l’inutilità dei vaccini, il superamento del Parlamento, la difesa della razza italiana, per citare solo alcune delle pericolose tossine  entrate nel  circolo sanguigno della comunicazione politica, sembrano ora  godere di crescente consenso. O comunque, se ne parla, con grande serietà,  come se, per fare un esempio,  fosse normale discutere della "piattitudine" della Terra. 
In qualche misura lo schema sociologico è quello della mobilitazione della masse,  che al  di là delle frasi a effetto sul “potere del popolo”,  rimanda sempre all’ opera  di minoranze organizzate.  Uno schema mobilitante, volto al mutamento di paradigma,  che in passato  caratterizzò  il fascismo, il nazismo e il comunismo,  schema  basato  sull’introduzione di slogan politici chiari e comprensibili da tutti.  E proprio per questo  di una superficialità estrema.
Ieri, sulla nostra pagina Facebook accennavano  a un video sul signoraggio, trasmesso dalla  nuova Rai sovranista e populista,  nel suo genere, tecnicamente perfetto, in vero stile pubblicità progresso per ragazzini di dodici anni: i ministri  liberali ed europeisti  dipinti  come gangster,  le famigliole, tratteggiate  con graziosi pupazzetti in lacrime, perché vittime dell’euro, e così  via.  
Per ora siamo nella fase dello stravolgimento della realtà -  al  cambiamento cognitivo  dei nomi delle cose  -   che rischia però  di  giustificare vere e proprie svolte autoritarie. 
Facciamo qualche esempio:   se gli immigrati affogano la colpa non è del governo razzista che ha chiuso i porti, ma  delle Ong, organizzaioni  umanitarie per eccellenza,  liquidate invece come bande di trafficanti di esseri umani; il reddito di  cittadinanza, che in realtà non è un reddito di cittadinanza, ma un reddito di inserimento sconfiggerà,  si proclama,  una  povertà che in realtà, come attestano  le statistiche, non è povertà, in quanto tale,  ma  rischio  di  impoverimento a causa della disoccupazione, tra l'altro limitata a lavori scarsamente qualificati  e al rifiuto della mobilità geografica. E via dicendo.
La sinistra, che ormai  è  programmaticamente  “al caviale”  (secondo il Nuovo Politicamente Corretto di Destra), oggi  organizza una manifestazione, davanti a Montecitorio, contro le stragi nel Mediterraneo.  Manconi, che ha lanciato l’appello “Non siamo pesci”, si è sentito chiedere da un giornalista: “Lei  gli immigrati li porterebbe a casa sua?” . Capito?   Come se l'attività  politica fosse il naturale prolungamento del  francescanesimo un tanto al chilo  dell’aggiungi un posto a tavola.     
Ora, il solo  chiedere una cosa del genere a  un politico,  significa  che si  ha una visione della politica a dir poco semplicistica. E se tale visione informa le domande di un giornalista, compiacente al nuovo potere,  vuol dire  che a livello collettivo il semplicismo, come nuovo paradigma cognitivo-politico,  è aggressivo e  diffuso.  Gli eretici abbondano quando una religione è dominante, non quando è caduta o è  lì  per cadere, come sta accadendo.  
Ciò implica alcune cose, dal rilievo pratico, di una gravità assoluta. Quali?  Al posto della competenza, l’imperizia; al posto delle parole misurate, gli sproloqui; al posto della prudenza la temerarietà, e così via.
Si tratta di un ciclo politico-cogntivo, che sembra trovare forza in se  stesso. E più dura più si rafforza. E qui si pongono due questioni.
La prima riguarda, la natura cognitiva dell’opposizione a questo governo:  non basta un' opposizione puramente politica, serve un’opposizione cognitiva, al paradigma intellettuale sovranista-populista. Però, ecco il punto, come rendere di nuovo  appetibile, cognitivamente parlando,   il paradigma liberale  in una società di  dodicenni fessi (non troviamo altro termine), sempre più  antiliberale?   
La seconda, rinvia a Machiavelli,  e alla possibilità  di rovesciare, prima o poi,  i profeti disarmati. Ma i sovranisti-populisti sono disarmati?  Quindi possono bastare per rovesciare il governo giallo-verde, la richiesta di Manconi di una Commissione parlamentare d’inchiesta sui  disperati morti nel Mediterraneo? O un blitz, per carità spettacolare, come quello di ieri sulla Sea Watch, di tre parlamentari dell’opposizione? 

Carlo Gambescia
                     

domenica 27 gennaio 2019

Giornata della Memoria
Quelli che “la Shoah sì, ma bisogna condannare tutti i totalitarismi”



In Italia i cedimenti della sinistra azionista, potentissima nel mondo mediatico e culturale, verso il partito comunista, ben documentati da Galli della Loggia, hanno permesso, tra gli anni Sessanta e Novanta del Novecento (ma tuttora persistono sacche di conformismo), di trasformare l’antitotalitarismo, tipico di una cultura liberale, in anticomunismo e di riflesso in filofascismo.
Sicché, particolarmente in quel periodo,  chiunque osasse collegare il  comunismo al totalitarismo veniva subito liquidato come fascista.  Anche se liberale.

Detto questo, per ragioni di onestà politica e culturale, perché tirare in ballo il totalitarismo “rosso e nero”  nella Giornata della Memoria,?  Un giorno che rinvia alla Shoah,  al genocidio nazista degli ebrei?  Un evento unico nel suo genere per il disumano retroterra culturale  e per  le iper-razionali tecniche organizzative? Due esempi, Salvini e Veneziani. Il primo dice di  onorare  la Shoah,  ma aggiunge  di voler   onorare “TUTTE LE VITTIME, di tutti i regimi rossi e neri” (si noti il maiuscolo, sul web simbolo del gridato).  Il secondo “piange per la Shoah”  ma “dice no al monopolio della memoria”.  
Salvini  è uno che nella vita  si comporta da fascista. Veneziani,  proviene dal neofascismo, e ne parla tuttora  la lingua di legno.  Cosa pensare?  Che si comportano come quelli che affermano “io non sono razzista, ma…”.  Tradotto: “io condanno la Shoah, ma i comunisti, proprio come i fascisti,  non li voglio in casa”.
Il che,  se lo dicesse  un liberale, ovviamente non nella Giornata della Memoria,  che, come ricordato, ha  un suo carattere di unicità, a cominciare dalla ricorrenza giustamente  “dedicata”,   potrebbe avere un senso. Ma  (è il nostro turno)  qui pontificano  un razzista, almeno secondo la magistratura,  e un celebrante di  Evola,  pensatore non banale, ma principale teorico del razzismo fascista.  
Per essere chiari. Anche Nolte sosteneva, e con una cultura storica straordinaria,  la tesi del totalitarismo rosso e nero, ma era liberale. Quindi con un Dna  al di sopra di ogni sospetto. Invece, Salvini è un razzista, Veneziani nella migliore delle ipotesi un criptofascista. 
La cosa maleodora di opportunismo politico al quadrato. Salvini e Veneziani usano la Giornata della Memoria come  ricerca del  capro  espiatorio politico.   E  trattano  gli ebrei  come un mezzo per attaccare e saldare i conti, con  ciò che resta della cultura azionista-comunista: la cosiddetta sinistra al caviale, come adesso impongono le denominazioni racchiuse nel  Nuovo Vocabolario del  Politicamente Corretto di Destra.
Ora, se  la Shoah diventa un mezzo e non un fine, che differenza culturale  c’è tra  Hitler, Salvini e Veneziani?      

Carlo Gambescia     




sabato 26 gennaio 2019

La riflessione
Che cos’è la guerra?




La guerra, tra forma e contenuti
Innanzitutto va respinta la visione romantica della guerra, quella ad esempio dei fascismi tra le due guerre. Ma anche quella demonizzante dei pacifismi novecenteschi. Ovviamente, il culto degli eroi, attraversa la letteratura dell’Occidente, fin dai tempi di Omero. E, sebbene con sfumature diverse,  quelle di altre civiltà.  Del resto anche  la pace è idealizzata fin dall'antichità.    
In realtà, la guerra, sociologicamente parlando, dal punto di vista delle forme è uno dei modi di declinazione del conflitto. Di conseguenza,   va distinta da altre  modalità (o forme) di conflitto,  come la competizione politica, la concorrenza economica,  l’opposizione o contesa tra le idee.
Rispetto alle altre modalità o forme del conflitto,  la guerra implica la possibilità dell’eliminazione fisica dell’avversario, che sotto questo punto di vista, è rappresentato come nemico  dalle parti in conflitto,  dal momento  che la possibilità di soppressione  fisica, che ha valore di minaccia, risponde a un criterio di  reciprocità.
Dal punto di vista della sostanza, ossia dei suoi contenuti,  la guerra può scatenarsi  per differenti motivi che si possono riassumere in motivazioni di tipo materiale e/o ideale: dalla conquista di territori allo zelo religioso, da una pozza d’acqua alla conversione dei non credenti. 

La lezione della storia universale
Chiunque studi la storia universale, non può non notare come la guerra sia un fenomeno ricorrente, inspiegabile dal  punto di vista  di una logica  umanistica, ossia di preservazione della vita umana. Di qui,  secondo alcuni studiosi,  la sua irrazionalità.
Però, altrettanto poco convincenti   sono  le spiegazioni  di tipo strutturalistico, che studiano la guerra dal punto di vista, non più dell’individuo, ma, secondo altri osservatori, della preservazione del sistema, quindi di una super-razionalità, che sfuggirebbe ai singoli.
Se la spiegazione umanistica privilegia l’individuo, quella strutturalistica, predilige fattori impersonali e funzionali come la demografia, la potenza politica ed economica, la creatività culturale. 
Esistono infine spiegazioni tautologiche, che tentano di ricondurre la guerra  a misteriosi istinti bellicosi insiti nell’uomo.

Metapolitica della guerra
Il punto è che non c’è alcuna spiegazione esaustiva. Dobbiamo accontentarci di spiegazioni parziali, come ad esempio quella  metapolitica,  che scorge nella  ricorrenza storica e sociologica della guerra, il manifestarsi  di una  forma-conflitto, che,  di volta in volta, assume contenuti-storici diversi, ma sempre di natura materiale  e/o ideale.
Sotto questi ultimi  aspetti, sociologicamente parlando, vanno ricordate le tipologie ricorrenti di giustificazione delle guerre da parte degli attori politici direttamente coinvolti (e ovviamente anche della pace). Esercizi retorici  che magnificano il sacrifico dei singoli: dal favore degli dei a quello del dio monoteista;  dal merito di appartenere  a un ordine  sociale alla  deificazione riconoscente  dello stato-nazione,   della  razza e  del  proletariato.    
La  guerra  può essere studiata razionalmente in due modi: interno, che rinvia alla strategia e alla tattica militari;  esterno, come  fin qui illustrato,  che rimanda alla metapolitica e allo studio delle forme e della loro ricorrenza.  
Al di fuori di queste linee guida euristiche, l'osservatore  rischia di  tramutare  ogni discorso sulla guerra   in  puro e semplice romanzo sulla guerra.

Forze centrifughe e centripete
Torniamo all'approccio metapolitico. La ricorrenza può essere spiegata attraverso il metaconflitto, che rinvia a due precise costanti metapolitiche: i processi centripeti e centrifughi,  ossia  di unificazione  e divisione delle istituzioni politiche.  L'unificazione e  divisione implicano sempre  la forma conflitto, sia nelle fasi di costruzione, mantenimento e decostruzione di  un ordine politico. Non esistono  "paci imperiali"  a livello macro-politico o   "paci  autarchiche"  a livello  micro-politico.  Nessuno può fare a meno di nessun altro, sia quando si confligge, sia quando si coopera.  La realtà sociale è dinamica, mai statica. E la guerra è solo una  delle forme di quella potremmo chiamare dinamica del conflitto (e di riflesso, della cooperazione: perché, ad esempio, anche il conflitto implica la cooperazione interna).
Cambia solo la forma  "del non  fare a meno" che può essere  dettata dalla concorrenza economica, dalla competizione politica, dal contrasto ideale e dal conflitto  polemico (della guerra vera e propria).
Negli ultimi due secoli, semplificando al massimo,  hanno dominato, non solo in Occidente, le costanti centripete dello stato-nazione, come in passato quelle della città-stato e dello stato regionale.  Sullo scenario  mondiale degli ultimi duecento anni si sono  alternate  concorrenza economica (1815-1914 e  1945- ...) e  conflitto polemico (1914-1945).    

Mano invisibile e guerra
Non  esiste un ordine preciso, ossia la possibilità di poter  prevedere, in chiave quantitativa,  la periodicità delle guerre (e di riflesso dei periodi di pace: di cooperazione non a fini bellici). Il motivo è semplice, le categorie sociologiche, qui impiegate, sono sempre ex post, seguono i fatti non le precedono.   Per fare alcuni esempi: prima si è esplicitato storicamente  il feudalesimo, poi la sua teorizzazione; prima si è esplicitato storicamente  il capitalismo, poi la sua teorizzazione. E lo stesso ragionamento si potrebbe estendere ad altre  forme istituzionali.  Gli antichi Romani non sapevano che stavano costruendo un Impero.  Lo stesso i cristiani, per la loro religione. E così via. Non bisogna commettere l'errore costruttivista  di  rappresentare il capitalismo, il feudalesimo,  l'idea di impero, eccetera, come istituzioni costruite a tavolino, magari dando pugni sulla scrivania, e  poi calate nelle realtà.    
Che cosa vogliamo sostenere? Che al di sotto dei processi sociali, ma vitalizzandoli senza un preciso perché, si muovono le micro-azioni individuali di miliardi di uomini che perseguono i propri interessi, in senso lato (materiali e ideali),  senza alcuna finalità di tipo collettivo o generale. La logica di base della mano invisibile -  una logica a posteriori, impiegata da chi osservi l'agire umano ex post  -   si fonda sull'imprevidibilità  delle azioni individuali. Di qui, spesso l'eterogenesi dei fini che invece colpisce il costruttivismo politico  che si rifiuta di fare in conti con  l'insondabilità delle azioni umane a livello individuale. Ad esempio, si vuole imporre dall'alto, ex ante,  la pace,  e invece si causa la guerra.  E viceversa, ovviamente.    

L'Europa e la guerra
Lo studio della forma-conflitto  insegna a distinguere il conflitto polemico  dalle  altre forme di conflitto. Mentre l’analisi della periodicità spiega  che la caratteristica principale della guerra è la sua ricorrenza. La dinamica tra forze centrifughe e centripete  spiega invece il perché della guerra, senza però poter individuare il quando,  dal momento che il sociale, in ultima  istanza,  dipende  dalla mano invisibile. Tuttavia l’esistenza di varie forme di conflitto e  il fenomeno della ricorrenza  indicano che sia le tesi belliciste che quelle pacifiste non sono nel vero, perché esistono altre forme di conflitto meno  onerose umanamente,  che si alternano alla guerra, e  periodi di pace e progresso civile tra una guerra  e l’altra.
Storicamente parlando, e per venire ai nostri giorni, l’Europa, grazie alle liberal-democrazie, uscite vincitrici da un gigantesco conflitto,  ha goduto di un lungo periodo di pace e benessere. Ora però sembra che il vento stia girando. Tutti gridano, di nuovo,  nazione, nazione, nazione... Che  la mano invisibile si  vendichi?   Si voleva  l'Europa unita, attraverso un processo di unificazione economica e politica, pacifico perché basato sul contratto, e si è ottenuto l'esatto contrario: la rinascita dei nazionalismi e il rischio di nuove guerre.
E questo perché, azzardiamo un'ipotesi,  milioni di europei probabilmente ritengono che lo stato- nazione soddisfi meglio  i loro interessi individuali.  Già è accaduto una volta nel Novecento.
Che dio, se esiste, li protegga.
     
Carlo Gambescia  
                      

venerdì 25 gennaio 2019

Matteo  Salvini tra autonomia della  politica e stato di diritto
Sarà la magistratura
salvarci dal populismo?




Caso Diciotti.  Salvini a processo dal Tribunale dei Ministri.  La destra grida  all’attacco politico, la sinistra celebra indipendenza  della magistratura. Il Giostraio Mancato ride tra i baffi, perché vive di campagne elettorali, sicuro di farla franca, pur gridando alla persecuzione,  mentre  i suoi oppositori   pregustano una possibile, ma non probabile, defenestrazione in stile Berlusconi.
Inutile tentare di difendere le ragioni degli uni e degli altri, il problema è un altro e  più profondo. Quale? Quello della progressiva erosione  dello stato di diritto che risale a Tangentopoli,  ai processi nelle piazze televisive  del 1992-1994. 
A dire il vero, non è  che prima dei trionfi mediatici del pool  milanese,  l’Italia fosse un modello di neutralità  giudiziaria e politica.  Ma la classe dirigente (politica e non) della Prima Repubblica, sapeva saggiamente fin dove spingersi.  Perché, una cosa deve essere chiara: la famosa “autonomia della politica”, di cui tanto si parla oggi,  non è altro che  il   prolungamento della saggezza  e maturità delle classi politiche: un pre-requisito che deve distinguere e accomunare le forze di  maggioranza come di  opposizione. Se viene meno  l’ "immaginazione del disastro", che è  di natura politica (perché va a innervare la sfera decisionale),  su  ciò che potrebbe accadere quando  il saggio equilibrio tra poteri separati  viene a mancare,  il sistema politico liberal-democratico  rischia di  avvitarsi  su stesso e sbriciolarsi come le Torri gemelle.
Insomma, il governo delle leggi non esclude, anzi impone, l'autonomia della politica, come supplemento di saggezza, con conseguenze decisionali (dunque  "autonome").  Lo stato di diritto non è un formula astratta, ma rinvia, non solo al rispetto delle procedure, eccetera, eccetera,  ma alla consapevolezza, condivisa da tutte le forze politiche, che se si forza, in senso giustizialista e antipolitico,  la macchina giuridica,  si rischia  che nessuno creda più nello stato di diritto,  in quanto tale, e  che vi scorga, soprattutto,  uno strumento da  assecondare o meno  in base alle convenienze politiche. E le parole con con cui si ammantano le ragioni rappresentate,  nobili o vili  che siano, sociologicamente parlando, lasciano il tempo che trovano. Pareto le chiamava derivazioni. Detto altrimenti,  razionalizzazioni ex post. Inutile infilarsi in una specie di termitaio ideologico.  
L’Italia, come detto,   è su questa strada da un pezzo.  E  il  populismo giallo-verde, ora al  governo, ne sa qualcosa. Inutile baloccarsi, su possibili fratture intra-giustizialiste tra leghisti e pentastellati: il "grasso" del potere, come si dice, è un cemento fortissimo.  Ma anche le opposizioni, quanto a opportunismo giudiziario, sembra si difendano bene.  Pare, insomma,  che quasi tutti i politici stiano facendo del proprio meglio, come provano anche le prime pagine di oggi, per assecondare  o  criticare la magistratura in base alle necessità politiche del momento. E i giudici, o comunque buona parte,  a loro volta, non si fanno pregare.  Un bel cortocircuito.
Chi scrive,  reputa  Salvini (e accoliti) un pericolo per le istituzioni. Ma la riposta deve essere o  politica, con il voto, frutto di un libero convincimento,  o iperpolitica, ad esempio con  un colpo di stato,  nel senso di  una violazione in piena regola dello  stato di diritto,  in nome però dello stato di eccezione, per poi tornare, una volta superato il pericolo per le istituzioni,  alla normalità liberal-democratica. 
Lasciare invece che sia la magistratura  a fare il lavoro sporco, plaudendo  in linea teorica  ai grandi principi, per poi asservirli in linea pratica all’ideologia,  populista o antipopulista,  significa solo accrescere la confusione, completare la distruzione dello stato di diritto,  fare il gioco degli  agenti  del caos, come Salvini.  Che dalla distruzione dello stato di diritto,  ha  tutto da guadagnare, o comunque da  far mettere a profitto, volente o nolente,  a coloro, probabilmente ancora più eversivi, che potrebbero farsi strada tra le macerie del  terremoto populista.       
Perché quel che è riuscito, in chiave giustizialista, con  Forlani, Craxi, Berlusconi, potrebbe non riuscire con Salvini e Di Maio.  Questa volta sono al potere i populisti.   E  rispetto agli uomini  politici della Prima e della Seconda Repubblica,  esiste  una differenza di specie non di grado.  Ciò significa che  la reazione  dei populisti alle inchieste  della magistratura  potrebbe essere atipica, rispetto alla routine liberal-democratica.  
Cosa vogliamo dire? Che oggi le prime pagine si occupano del Venezuela del populista Maduro, sull'orlo della guerra civile.  Un mondo che  però sembra lontano.  In realtà, non è così.  Basta farsi un giro dalle parti di Palazzo  Chigi.

Carlo Gambescia 

giovedì 24 gennaio 2019

 “Libero”, dal Gay Pride al Gay Spread
Modernismo reazionario

Di che parla la gente comune?  Di programmi televisivi, vacanze, immigrati e politici ladri. Poi c’è la sfera dei rapporti personali con i micro-problemi  che sono i problemi di tutti: figli, famiglia, malattie, lavoro, eccetera. Insomma, i gay non sono il principale argomento.  Alcune  ricerche asseriscono che  i giudizi, e fortunatamente,  sono mutati: il moralismo cattolico  di un tempo ha lasciato spazio  al  relativismo sessuale, ovviamente  più al Nord che al Sud, con il  Centro a fare da bilancia, più nelle grandi città che nelle piccole. 
Pertanto il quadro italiano testimonia una  evoluzione culturale, in sintonia, con  il placido  modernismo  sessuale dell’Occidente, così inviso ai tradizionalisti delle varie religioni monoteistiche, che, indefessi, continuano a  evocare Sodoma, Gomorra  e derivati. 
Va però  detto  che, pur non essendo all’ordine giorno, le cronache spesso  riferiscono di esplosioni di violenza contro i gay. In sintesi, il quadro è in evoluzione, come detto, però crediamo, che come capita per il razzismo, anche per i gay,  non sempre vi sia rispondenza tra l’affermazione di non essere razzisti e il razzismo di fatto. Insomma, di non avere nulla contro gay, salvo ogni tanto gonfiarne uno.
Ora, il titolo  di “Libero” indica, che quella che dovrebbe essere la parte più civile e acculturata dell'Italia,  rappresentata da chi scrive per mestiere, è ben lontana dall’ aver abbandonato certi grossolani pregiudizi. Anche se  nel caso di “Libero” si può notare un affinamento. Parleremmo, di modernismo reazionario. Perché nessuno  finora aveva individuato un rapporto diretto tra Pil e scelte sessuali... Roba ultramoderna, altro che Sodoma e Gomorra...  In qualche misura,  Feltri, anche se procede a braccio,  è un genio.  Del male naturalmente.  
Tuttavia, un titolo del genere quanti  danni cerebrali può provocare? Diciamo che  il tessuto cerebrale collettivo degli  italiani è già abbastanza compromesso, come prova la  grande quantità di voti ricevuti dalla Lega e dal Movimento Cinque Stelle.  Quindi perché la gente non dovrebbe credere che se il Pil torna  a crescere,  cala  il numero dei gay?  E  che  tasso di  sviluppo  e scelta sessuale  no straight sono inversamente proporzionali.  Più il Pil  va su,  più vanno giù,  quelli che Checco Zalone chiama in suo film "uomini sessuali".
Una cosa facile da capire come giocare al gratta e vinci.   E chi l'ha detto?  Feltri?  No!  A dirlo sono  le  statistiche del Fondo Monetario Internazionale... Ovviamente è falso.  Ma, per dirla con il grande Rossini, la calunnia  è un venticello... E già sentiamo le voci  di terza, quarta, quinta mano. Tradotto: proprio  perché sono macro-stronzate (pardon), ma nascoste dietro una parola magica, il Pil,  possono entrare  in circolo e  rafforzare i più  stupidi pregiudizi anti-gay.  Ma modernizzati, sebbene in chiave reazionaria:  non più  Sodoma e Gomorra, ma un Gay Spread... Altro che Gay Pride.
Chissà,  se tornasse tra noi, che direbbe Keynes, sviluppista a oltranza, ma anche uomo dai gusti sessuali no straight e dal carattere non facile.  Probabilmente riscriverebbe di getto  il Trattato e andrebbe subito  a iscriversi  ai gruppi della decrescita felice.  Alla faccia di  Vittorio Feltri. E del Pil. 

Carlo Gambescia        

                          

mercoledì 23 gennaio 2019

Trattato di Aquisgrana, Francia e Germania si cautelano
Ritorno al passato (con Salvini e Di Maio)

  

Il lettore vuole  scorgere   un segnale  della brutta china presa dall’Italia?  Frutto di pericolose scelte  assecondate  dalla pubblica opinione?  Quella che,  in particolare,  si esprime attraverso la classica formula comunicativa dei giornali?  
Eccolo, forte e chiaro:  la stampa italiana ha oscurato, fin dalle prime pagine, la notizia della firma del trattato di Aquisgrana tra Francia e Germania. 
Quest’oggi, sui giornali,  si parla della Germania solo per la decisione, tra l’altro preannunciata, di “sfilarsi” dalla missione  Sophia. E dunque per criticarla. Quanto alla Francia, gli attacchi ormai sono quotidiani, da parte della stampa di destra e tradizionalmente governativa.
Cosa vogliamo dire? Che l’Italia politica ha scelto l’isolamento  e quella mediatica, classica, della carta stampata (ormai i Social sono nelle mani dei populisti) o tace o acconsente.  "Faremo  da soli", insomma.  Per andare dove?  Con gli ungheresi? Con i polacchi?  
Sembra che Macron, ieri,  ai fischi di alcuni manifestanti, abbia risposto, asserendo  che coloro che contestano l’amicizia franco-tedesca, disconoscono,  cosa rappresentò  e cosa  costò  all’Europa, l’inimicizia franco-tedesca.  E che quindi  chi oggi  si sollevi contro l'amicizia, si rende moralmente complice dei crimini commessi dai nazionalismi.  Giustissimo.
Sul punto specifico va però  eliminato un equivoco.  Molti, non  sappiamo se in buona o cattiva fede, distinguendo tra patriottismo e nazionalismo,  ritengono che Salvini, Di  Maio e i sovranisti in genere siano  dei patrioti non dei nazionalisti. 
In realtà,  sul piano sociologico, patriottismo e nazionalismo rinviano alla costante  metapolitica  del conflitto. La differenza, sempre sul piano sociologico, tra i due fenomeni, è data da un' altra costante metapolitica quella della cooperazione. Quanto più c’è equilibrio, inclusivo verso l'alto, tra conflitto e cooperazione,  nel senso di un allargamento dell’inclusività ( ad esempio con il sentirsi al tempo stesso italiani, europei, cittadini del mondo), quanto più, il patriottismo diverge, e in positivo, dal nazionalismo (che riduce l'inclusività al sentirsi solo italiani).  Insomma,  si può essere buoni italiani, senza per questo disprezzare  immigrati, tedeschi, francesi e tutto ciò che rinvii a una visione contrattualistica, e dunque pacifica (non pacifista), dei rapporti tra  individui, stati, nazioni, organizzazioni internazionali.
Ma c'è dell'altro.  Sul piano politico esiste  un fattore chiave per distinguere il patriottismo dal nazionalismo. Quale? Il liberalismo. Ogni nazionalismo è radicalmente antiliberale, nel senso di contrastare tutte quelle  istituzioni, dal mercato alle libertà individuali, dallo stato di diritto  alla rappresentanza parlamentare,  che possono essere definite liberali. I nazionalisti, a parole o meno, possono anche essere democratici, nel senso di una maggioranza che voti leggi nazionaliste, ma mai liberali.  A tale proposito, per l’Italia, crediamo basti citare la differenza, comprovata  dalla storiografia più seria, tra Cavour e Crispi, tra Giolitti e Mussolini, tra De Gasperi e il revanchismo della destra neofascista. E oggi, tra Salvini e Di Maio, da un lato,  e la classe politica europeista della Prima Repubblica, dall'altro. Pertanto,  non ci si  faccia  ingannare dal sovranismo "del piede di casa",  recitato nei salotti televisivi da leghisti e pentastellati: restano comunque antiliberali, in tutti i sensi. A cominciare da quello economico. Salvini e Di Maio difendono  il protezionismo. E il protezionismo  porta all'autarchia, e l'autarchia alla guerra. Come prova la  tragica  guerra civile europea,  ricordata da Macron.   
Di qui, discende anche la differenza tra colonialismo e imperialismo. Esiste un colonialismo liberale, rappresentato da quello britannico (la cui decolonizzazione fu un modello di mediazione liberale), come esiste un imperialismo coloniale, rappresentato, dal fascismo italiano e dal nazionalsocialismo tedesco. Ovviamente esistono anche  forme intermedie, rappresentate da democrazie dove talvolta  la formula maggioritaria, se si vuole il democraticismo,  prevale su quella  liberale, come in certi momenti della storia degli Stati Uniti e  della Francia.  
Il fattore che rende pericoloso il patriottismo, o meglio la sua trasformazione in nazionalismo,  è l’appello al popolo: il fare leva, come sta accadendo di nuovo in Italia, su sentimenti conflittuali, che riducono la cooperazione al  “Prima gli Italiani”, escludendo altre fonti, di possibile cooperazione, come invece riconosce e impone il patriottismo liberale. Che poi tutto questo sia approvato dalla maggioranza dei cittadini,  è al tempo stesso,  una prova della bontà delle tesi qui esposte sulla natura totalitaria del maggioritarismo democratico, e un segnale pericoloso: perché significa che l’ intolleranza  "patriottista"  ha raggiunto i livelli di guardia.  Di maggioritarismo sbraitante, con la bava alla bocca,  si muore. E ci stiamo cadendo di nuovo.
Sicché, Francia e Germania,  memori degli errori del passato, e scorgendoli  nelle politiche italiane, si stanno giustamente "organizzando".  Se le nostre informazioni sono giuste, il trattato di amicizia franco-tedesco, prevede anche una clausola militare di aiuto reciproco in caso di aggressioni. Ciò significa, che i fantasmi del  nazionalismo si stanno di nuovo materializzando.  La clausola è difensiva, di rimbalzo,   ma, il ribadirla,  indica che  si teme il peggio.  Insomma, fa  intuire che si è innescato, quel meccanismo ad orologeria che condusse  alla Prima guerra mondiale  
Ecco dove ci stanno portando  Salvini e Di Maio.  Indietro nel tempo.  Un ritorno al passato. Altro che patriottismo.

Carlo Gambescia                       

martedì 22 gennaio 2019

Di Maio, Macron e il “Franco coloniale”
Ma quale fact checking…





Prendete quattro imbecilli, sfaticati e presuntuosi, che chattano sui Social in pigiama tutto il giorno,  con alle spalle un liceo o un istituto tecnico a fondo perduto, qualche esame universitario facile facile,  o addirittura una laurea  strappata a colpi di diciotto, e avrete la classe dirigente pentastellata.  Quella  che ora è  in  Parlamento e al Governo.

Quindi perché meravigliarsi delle scemenze enunciate sistematicamente da  Di Maio, Di Battista e accoliti ?  Da ultima quella sul  “Franco coloniale”, evocato in chiave complottista… Però, attenzione c’è anche di peggio,  come ad esempio, la Meloni  che  ha rilanciato, ribadendo il copyright sulle macro-stronzate (pardon) terzomondiste. 
Così siamo messi.  Il punto è che, dal momento che in politica, ogni azione  provoca una reazione (e così via), una cosa è porre problemi veri  e inalberarsi, se e quando occorre, su questioni reali, un’altra è crearli  senza alcuna vera ragione politica, se non quella, come avviene sui Social, di spararla più grossa, fino a prova contraria, come spesso si legge.  Prova contraria  che però non arriva e non arriverà mai. Per quale ragione? Perché,  una caratteristica del “Pensiero Social” è l’autoreferenzialità,  a ogni costo, al punto di  sostenere, paradosso dopo paradosso,  persino l’idea che la Terra sia piatta.  Però  la cosa si fa  più  grave quando  la macro-stronzata  finisce nell'agenda politica di una nazione, perché  il  discorso pubblico si avvita su se stesso. Ad esempio, il  cosiddetto fact checking, ora adottato anche dalla carta stampata,  che, ovviamente, in un attimo ha smontato le stupidaggini sul “Franco coloniale”, rinvia però alle  tecniche di  argomentazione social destinate inevitabilmente ad avvitarsi  su se stesse, perché, al primo fact checking, se ne oppone subito un altro e così via, lungo un percorso a spirale che, privilegia al capire il credere. Il che ricorda, come tecnica argomentativa, il metodo della teologia medievale, raffinatissimo,  ma   teso  a studiare gli attributi di  dio.

Che cosa vogliamo dire? Che il veleno  non è nel fact cheking  in sé,  che per certi aspetti, seppure blandamente,  rinvia alla logica della scoperta scientifica  e al principio di fallibilità, ma all’ambito stesso  della discussione:  alla sua premessa,  che nel XIII secolo  era l’eternità  di dio, nel XXI l’eternità del colonialismo. Se la premessa, non è vera né falsa, l’esito dell’argomentazione sarà indeterminato.    
Il colonialismo,  non è vero né falso:  esistono però  rapporti di forza, politica, economica e sociale, costanti o regolarità metapolitiche che si riproducono a ogni livello. E questi rapporti  -  e non il colonialismo dei terzomondisti a Cinque Stelle-  sono immutabili, ma nel tempo storico e sociologico, assumendo forme ricorrenti. Di conseguenza,  se  gli africani, che i pentastellati e perfino Salvini, come dicono,  vogliono proteggere, si sviluppassero al nostro livello, o addirittura ci superassero, si trasformerebbero loro nei nostri colonialisti. Del resto, la guerra non dichiarata alla Francia, che tanto piace a Di Maio e Salvini  non è altro che un portato del sovranismo, che non è  che una forma di conflittualismo, antico quanto l’uomo e la società,  che rinvia, per il Novecento, al  nazionalismo, altrettanto  imperialista e colonialista.
Ora, credere, come Di Maio e Salvini, che ognuno potrebbe vivere in pace a casa propria, è di una ingenuità veramente sconcertante,  che ci riporta alle discussioni medievali  sugli attributi  di dio,  discussioni  altrettanto ingenue.  Però, non fino al punto di non uccidersi e massacrarsi a vicenda per una certa idea di dio.
E la stessa cosa vale per il colonialismo. Non esistono due nazionalismi, uno buono (il sovranismo) e uno cattivo (il colonialismo). Ma  un solo nazionalismo che inevitabilmente è colonialista e imperialista. Sicché,  accusando gli altri di colonialismo, è come  se ci si guardasse alla specchio del conflittualismo, che è antico quanto l’uomo. Come del resto - si faccia  attenzione -  la cooperazione e  l'inclusione  nelle  varie forme politiche, economiche e sociali. Ma il sovranismo, privilegia il conflittualismo. O se si preferisce,  un conflittualismo romanzato  a fin di bene che porterà alla pace universale del  ciascuno  a casa sua:  l'ideale del ragioniere del quarto piano, o se si preferisce, la filosofia da  condominio perfetto.  Peccato che gli storici del Novecento non siano d'accordo.      
Del resto,  che cosa sta facendo l’Italia in Libia?  La cessione di motovedette, i soldi sotto banco, il via vai dei servizi segreti, le pressioni  neppure tanto scoperte  che cosa sono?  Intrusioni politiche  nelle vicende di un' altra nazione: neocolonialismo.
Pertanto sollevare questioni  contro la Francia, -  ammesso e non concesso, eccetera, eccetera -  significa darsi, come il famigerato contadino, la zappa sui piedi.   Detto altrimenti:  creare problemi che non esistono, favorire  un approccio irrealistico alla politica, lavorare per l’isolamento europeo e  internazionale dell’Italia. 
Una catastrofe. E per quali ragioni?  Perché quattro scemi, senza arte né parte, hanno agguantato il  potere. Grazie a elettori più imbecilli di loro che pigramente (perché la libertà è responsabilità e fatica),  al capire preferiscono il credere.  Ma anche a causa della  codardia di una classe dirigente, che ha accettato -  semplificando -  di  tornare a  ragionare degli  attributi di dio. Ai quale ovviamente, si applica il  fact checking… 

Carlo Gambescia                      

lunedì 21 gennaio 2019

 Carlo Nordio e la deriva razzista dei moderati italiani


Sono un moderato e un liberale, come del resto i lettori sanno.  In qualche misura, su questioni come il diritto di proprietà, l’economia di mercato, la libertà  di impresa,  il suffragio ristretto, la democrazia parlamentare,  il ruolo ridotto dello stato alle tre funzioni smithiane, salvo nei momenti di emergenza (come una guerra ad esempio),  potrei definirmi  un liberale conservatore nel senso ottocentesco del termine.  
Ora, come conservatore  e liberale, provo vergogna  per l’editoriale di Carlo Nordio, già magistrato, definito di destra.   Dove praticamente si spacca il capello in  quattro pur  di assolvere la linea  omicida di Salvini sugli immigrati  e favorire la continuità politica del peggiore governo della Repubblica, dalla sua proclamazione ad oggi.  L’articolo è uscito  sul “Messaggero”,  giornale, da sempre governativo,  e che in qualche modo  incarna l’anima  di un lettore moderato e conservatore (*).
Anche in modo sconsiderato. Perché essere moderati e conservatori, non significa tramutarsi in razzisti o avventuristi. L’ordine e  la legge sono importanti, ma non fino al punto  di rinunciare a qualsiasi principio di umanità. O, ancora peggio, di coprire questa rinuncia, come fa Nordio, che pure dovrebbe essere uomo lucido e colto,  scaricando  le  colpe  sugli scafisti,  sulla  Libia,  sull’ Europa.  Nonché,  cosa inconcepibile per un ex  magistrato  (ma non del tutto, se italiano), alimentando,  seppure in modo velato, l’idea di un congiura contro l’Italia.
Va inoltre osservato  che questo approccio condiscendente, se non addirittura complice verso  un  “Governo  che non deve cedere ai ricatti” dei libici, dell’Ue, degli scafisti,  sembra  essere  condiviso da larga parte della stampa, anche a grande tiratura.  Pertanto,  in qualche misura,  l’editoriale di Nordio è rappresentativo  dello spostamento della pubblica opinione  verso la  destra razzista.   Al quale  pare accompagnarsi quello dell’elettorato moderato e conservatore,  che  da  marzo plaude, con entusiasmo crescente, ad argomentazioni degne del KKK  e ai  triti luoghi comuni del populismo sudamericano.
Ovviamente,  neppure  mi piace la  compagnia di una sinistra  melensa e lamentosa  che attacca  il Governo giallo-verde, da posizioni  altrettanto populiste,  posizioni  che non  condivido per  nulla. Le mie simpatie, eventualmente, vanno  a Minniti, ex Ministro dell'Interno,  uomo del fare.  Però, alla sinistra, pur da  conservatore liberale,  mi lega in questo momento  la condivisione di quel principio di umanità, che la destra razzista,  con la complicità dei populisti pentastellati,   nega  con una protervia che ricorda quella dei nazisti.  Il realismo politico, privo di limiti, dettati appunto da un principio condiviso di umanità a destra come a sinistra,  tramuta  un governo, anche eletto, in una banda di briganti.      
In questo frangente, che impone di essere o  di qua o di là, perché sono in gioco i principi minimi della convivenza umana,  gli   editoriali  alla  Nordio  provano tristemente  che   l’Italia  ha  dimenticato la lezione del 1945 e ancora prima del 1922.  Altro che italiani "brava gente"... Errare è umano, perseverare diabolico.
Oggi,  ancora prima che la libertà,  è in gioco l’umanità, come sentimento di solidarietà umana, di comprensione e indulgenza verso gli altri.  E l’umanità,  in questo senso,  "val  bene una messa" anche con  Roberto  Saviano.  E pure con  Laura Boldrini. 

Carlo Gambescia

domenica 20 gennaio 2019

Bestia!




Così il Ministro dell’Interno della Repubblica Italiana, Matteo Salvini, anno di grazia 2019. Leggere per credere. 

«Salvini, Ong recupera migranti, si scordi porto Italia - Una "Ong ha recuperato decine di persone. Si scordino di ricominciare la solita manfrina del porto in Italia o del 'Salvini cattivo'. In Italia no". Lo ha detto il ministro dell'Interno, Matteo Salvini, in diretta Facebook. 
Salvini, le Ong tornano in mare e i migranti a morire - "Una riflessione: tornano in mare davanti alla Libia le navi delle Ong, gli scafisti ricominciano i loro sporchi traffici, le persone tornano a morire. Ma il 'cattivo' sono io. Mah...". Così il ministro dell'Interno, Matteo Salvini, annunciando una diretta su Facebook. »

Capito? La colpa è delle Ong, e non di chi ha chiuso i  porti, messo in riga la Marina militare,  contravvenendo al diritto della navigazione e all’obbligo morale di soccorrere chiunque rischi di   affogare, a prescindere da status di cittadinanza e colore della pelle. 
Matteo Salvini, il Giostraio Mancato, è una bestia. Un  uomo rozzo, ignorante, e per giunta fiero della sua brutalità.  Ragiona come un militante del KKK.   E cosa ancora più grave,  con l’appoggio di quotidiani come "Libero", "il Giornale", "La Verità" diretti da squallidi giornalisti che  pretendono di dichiararsi liberali: Feltri, Belpietro, Sallusti.   Per non parlare dei sondaggi che lo incoronano come il leader più amato dagli italiani. Ci siamo già passati una volta ( e non con Berlusconi...). Eppure...



Dal momento che Salvini è una bestia, non resta che augurarsi, che, un giorno,  quando la tempesta populista  sarà passata -. e chissà a che prezzo - sia  processato (con gli accoliti della stampa),  come reo di crimini contro l’umanità.  Sarà finalmente il giorno del giudizio.  In cui,  come  giustamente si è detto, il Giostraio Mancato non potrà dire che non sapeva.
Probabilmente, quando finalmente giungerà il momento,  il suo corpo, sfigurato dalla pinguedine, ricorderà quello dell'ultimo Goering.  Il gerarca nazista  che  alla condanna di Norimberga, preferì il suicidio. La via d'uscita dei vigliacchi politici. E di certe  bestie che vanno a morire, nascondendosi...
Auguri Ministro.  

Carlo Gambescia

sabato 19 gennaio 2019

Il silenzio di chi dovrebbe controllare l’operato del governo populista
Tutti eroi! O la Banca d’Italia o tutti accoppati!




La titolazione Ansa è tutto un programma: Bankitalia: “Rischio recessione” -  Governo: “La crescita ci sarà” (*). Terzietà assoluta… Ma ingannevole.  Perché  non è possibile mettere sullo stesso piano le balle giallo-verdi con i dati effettivi snocciolati, seppure in modo felpato,  dalla Banca d’Italia: tre trimestri negativi si traducono con la parola recessione (e per ora siamo a due).  La crescita è scritta, al momento, nelle stelle, (cinque stelle, se si preferisce)  i dati sulla recessione  sono reali, diciamo terra, terra…    
Possibile che gli italiani siano così stupidi?  E che l’ultima ridotta contro  un governo di dementi politici debba essere  rappresentato dalla Banca d’Italia?  Dove sono  finiti il Centro Studi della Confindustria e  La CGIA   di Mestre?  L’ ISTAT  sembra ormai allineato. Mentre l’INPS è in via di allineamento.  La Rai si è trasformata nella cassa di risonanza del populismo italiano. Persino i Tg della Terza Rete  fanno finta di mordere. Per tacere del gergo populista, di cui Mediaset è antesignana,  o dei rigurgiti giustizialisti  della Sette.    
Se pensiamo a ciò che  accadde, giustamente o meno (lasciamo stare),  durante i governi Berlusconi , dove  queste istituzioni (inclusa la Banca d’Italia) martellavano quotidianamente il  governo del Cavaliere, subito  riprese  dalla stampa e dai social,  non si può non osservare come oggi  intorno a un governo dominato da un Paglietta, un Giostraio Mancato e un Trascorso Bibitaro, non si levi alcuna vera voce di opposizione,  fondata su reali  dati economici. Siamo  quasi al silenzio assordante. Se non ci fosse (per ora) la Banca d'Italia.
Si permette  al  Giostraio Mancato di parlare a vanvera su dieci milioni di italiani che beneficerebbero degli ultimi  provvedimenti, quando non sono neppure la metà. Si consente al Trascorso Bibitaro di definire,  senza alcuna prova, “apocalittiche” le previsioni della Banca d’ Italia. Ci si bea addirittura delle dichiarazioni di un Paglietta, che senza alcun fondamento, blatera di una finanziaria “solo sviluppo e investimenti”.  
Una montagna di menzogne che nessuno contesta. E con i dati.  Certo, i sindacati programmano manifestazioni, ma in nome di un populismo al quadrato, dal momento che   auspicano - semplificando -  più investimenti, più pensioni facili:  la quadratura del cerchio.
Dicevo, della stupidità  degli italiani. In fondo questo popolo di imbecilli, non si illuse sugli otto milioni di baionette,  credendo al Duce? Oppure sulla panzana anni Sessanta-Settanta di salari e stipendi come variabili indipendenti dalla produttività?  E si potrebbe continuare.
A dire vero, la credulità fa parte del gioco della democrazia.  Il punto è che dovrebbero esistere, e funzionare, al di là della sacrosanta divisione dei poteri, istituzioni di controllo, tecniche,  in grado di snocciolare dati, per fare la tara  alle politiche economiche del governo.  E una stampa, pronta a rilanciare.   
Di più,  senza divisioni dei poteri...  Inciso:  qui  si dovrebbero   aprire i dolorosi  capitoli  sui modi autoritari di  approvazione della legge finanziaria,  sui silenzi di Mattarella, e della magistratura, che sembra aver perduto lo smalto degli anni d’oro (o di piombo) dell’antiberlusconismo.
Dicevo, senza divisione dei poteri (o se si preferisce con una    lacunosa divisione),  senza  un sistema di contrappesi  economici e sociali, rappresentato dal pluralismo (extra e intra-istituzionale) dei controlli tecnici, sull’operato del governo,  l’Italia rischia veramente di trasformarsi  in una Repubblica  esclusivamente  fondata sulle menzogne. Un’opera in nero,  facilitata dalla sconcertante credulità di un popolo di imbecilli, che non si interroga sul misterioso  silenzio di chi invece dovrebbe controllare, ribattendo colpo su colpo, le giornaliere falsità governative.
E invece, le sempre più rare fonti di opposizione o tacciono,  o “terzieggiano”,  o  giocano al rialzo, come sindacati e  partiti del centrodestra e centrosinistra. Sicché, se  il governo populista riuscisse a mettere le mani pure sulle Banca d'Italia, sarebbe la fine.
Che dire?  Siamo - magari in pochi -  sulla linea del Piave.  Tutti eroi! O la Banca d’Italia o tutti accoppati!  

Carlo Gambescia