Dopo tre anni a Palazzo Chigi, il bilancio del governo Meloni si gioca su due piani distinti ma intrecciati: quello del riconoscimento politico e simbolico e quello dell’efficacia concreta dell’azione di governo.
Il primo è decisamente più interessante. Il secondo meno, perché, come prevedibile, vista la carenza di idee liberali, non si introducono dati significativi. In altre parole: sul fronte politico e simbolico, la premier ha ottenuto un successo difficile da contestare; sul piano pratico, i risultati restano modesti, se non deludenti.
Sul piano simbolico, Meloni ha raggiunto un traguardo che la destra post-fascista inseguiva da decenni. Ciò che fino a tre anni fa sembrava una missione impossibile è oggi realtà: la normalizzazione definitiva. Giorgia Meloni non è più percepita come leader di un partito nostalgico, ma come figura istituzionale di riferimento di un conservatorismo nazionale legittimato e integrato nei circuiti europei e atlantici.
Questi circuiti, a loro volta, mostrano segni di apertura verso una destra senza complessi. In Francia, Spagna, Germania, Gran Bretagna, Portogallo, Austria, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, termini una volta divisivi – patria, identità, merito, dio – sono tornati nel lessico pubblico senza scandalo. Materiale nuovo fiammante (si fa per dire) per nuove guerre civili e di religione.
In parallelo, l’antifascismo è stato progressivamente spogliato della sua funzione fondativa, ridotto a residuo ideologico della sinistra. Questa è la vera supremazia discorsiva meloniana: la ridefinizione di ciò che si può dire e ciò che non si può dire. Una specie di woke di destra, se si vuole.
Sul piano pratico, invece, prevale la continuità. Nulla di liberale. La politica economica resta tradizionale: incentivi alle imprese, condoni, sgravi per gli autonomi, poco o nulla per salari e welfare. La riforma fiscale è rimasta annuncio, la sanità vivacchia, il PNRR, vacca sacra del culto post-keynesiano dei finanziamenti a pioggia, procede a singhiozzo. Il governo si presenta come pragmatico e rassicurante, ma privo di una visione liberale.
Dietro la retorica del “cambiamento” e del “merito” emerge una gestione conservatrice dello status quo. La stabilità del consenso conta più delle grandi questioni di fondo: libero mercato invece di sussidi, stato leggero invece di burocrazia, merito invece di rendita, conti in ordine invece di spesa clientelare. (*)
In politica estera, Meloni ha scelto un profilo atlantista, facilitato dall’atlantismo “controvoglia” di Trump, sostenendo l’Ucraina e allineandosi a Washington. Questa linea le ha garantito apparente credibilità internazionale, ma anche la conferma del tradizionale ruolo subalterno dell’Italia: più “partner affidabile” che protagonista. Per inciso: la vittoria di Trump, ha rappresentato un vero colpo di fortuna per Gorgia Meloni, perché si può dichiarare atlantista, con un presidente ammiratore della dittature, che è atlantista controvoglia, proprio come lei.
Sul piano del potere interno, Meloni ha costruito un premierato di fatto, molto mussoliniano. Ha marginalizzato Salvini e Tajani, come il duce fece agli esordi con Farinacci e Federzoni, centralizzando le decisioni e consolidando la propria leadership personale. In pratica, ha neutralizzato i contrappesi interni e imposto una linea unica, trasformando un governo di coalizione in una monocrazia carismatica temperata dal consenso.
Tre anni dopo, il Paese appare più identitario e meno cosmopolita. Non più ordinato, ma certo meno libero. La nuova normalità meloniana non è fascismo, ma ne ricrea le condizioni di possibilità: primato del capo, marginalizzazione del dissenso, idea di nazione come corpo unico e non spazio plurale. La sinistra appena prova a reagire viene liquidata come brigatista, comunista e anti-italiana. E come detto, l’uso sempre più timido del termine antifascismo ne è la prova. (**)
La prospettiva che si va aprendo è quella di una democrazia senza fisiologico conflitto di opinioni, che rischia di trasformarsi, passo dopo passo, in una forma aggiornata e patologica di autoritarismo pseudo-democratico.
Quale può essere il bilancio ideologico di questi tre anni? Il più severo possibile: il governo Meloni non chiude la storia del fascismo italiano. Ne scrive un capitolo inedito, dove l’eredità autoritaria non si impone, ma si insinua nella cultura politica del presente. Il pericolo più grande, come sempre, è non accorgersene.
(*) Per un approfondimento: sugli ultimi sviluppi economici si veda qui: https://pagellapolitica.it/articoli/meloni-crescita-italia-francia-germania?utm_source=chatgpt.com; per gli anni precedenti qui: https://lavoce.info/archives/106203/due-anni-di-governo-meloni-tra-dati-e-narrativa/?utm_source=chatgpt.com .
(**) Qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2025/10/dalla-parte-della-schlein-quando-dire.html .
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