venerdì 31 agosto 2018

Si comincia sempre con un pernacchio 
Un fucile per i sovranisti…


Quanti danni cerebrali può provocare un titolo  del genere, tratto da un giornale  che si dichiara, tra l’altro,  liberale? 
Difficile quantificare. Tanti, troppi.  Anche perché  gli italiani sembrano aver  dimenticato  i guasti  del nazionalismo. Non siamo ancora alle  celebrazioni  governative  del fascismo, ma i neofascisti  tifano Salvini e sono con  il governo giallo-verde, riservandosi -  gli estremisti (basta navigare sui Social) - la mitologica  “seconda ondata”. Nella quale, per la cronaca, speravano, ardentemente, anche nel 1994.
Intanto,  Salvini,  si fa chiamare “Capitano”, come Codreanu,  padre fondatore del fascismo rumeno: movimento dai violentissimi tratti antisemiti.  Pochi lo sanno. Alcuni, che sanno tacciono, evitando così di dover ricordare i pogrom fascisti contro gli ebrei.
Veltroni su “Repubblica” ha evocato Weimar, glissando  però, a proposito dell'Italia,  sulle colpe del populismo giudiziario di  sinistra,  responsabile invece,  con  la retorica antipolitica  di destra,  dello smantellamento dello stato di diritto. Non solo Berlusconi, insomma. Anzi,  l’antiberlusconismo,  probabilmente,  ha provocato più danni del berlusconismo.
Ricordiamo a Veltroni  che negli anni di  Weimar  Hitler vinse, fruendo del fuoco concentrico di nazisti e comunisti contro i moderati al governo. Il regime cadde, perché i comunisti dettero una mano, sputando, nell’ordine,  sulla democrazia rappresentativa, sulla politica estera multilaterale e pacifica, sull’economia libera. Il populismo di sinistra e quello di destra, pari sono. Qualcuno lo spieghi a Veltroni, quando fantastica su  romantiche alleanze  di centro-sinistra  con Cinque Stelle.  I pentastellati aborriscono   il Partito Democratico  come   i comunisti tedeschi disprezzavano  i socialdemocratici. Tempo perso. E poi, per dirla tutta,  non è  terribilmente idiota (politicamente parlando) rispondere al populismo con il populismo al quadrato?   
Quanto vorremmo - tornando alla ridicola e inutile campagna antifrancese di “Libero”, ma anche della “Verità", del “Tempo”, del “Quotidiano Nazionale” del “Giornale" (ora, di meno) -  che alla fine si dichiarasse guerra  alla Francia, al mondo intero, a tutti “i nemici d’Italia”.  Talvolta, per capire  la gravità di certe stupidaggini  politiche,  servono “le dure repliche della storia”. Quindi la stupidaggine la si deve prima commettere. Purtroppo. 
Vorremmo perciò vedere tutti questi decerebrati nazionalisti, pardon sovranisti, con un fucile tra le mani.  E scorgere nei loro occhi, dopo i primi proiettili veri (non le chiacchiere di Salvini e Di Maio),  la paura, quella nera, come capitava nelle trincee, che provocava  enuresi.  Solo così questi idioti potranno scoprire  che la guerra è una cosa seria, anzi tremendamente seria. Niente viaggi last minute, stadio,  filmetti,  pizzette, ristorantini, discoteche, shopping,  tresche in ufficio,  ma solo morti, corpi dilaniati, sangue, tanto sangue,  angoscia di morire da un momento all’altro, eccetera, eccetera. Il che non significa oscurare la guerra, ma,  semplificando,  evitare accuratamente di spararle grosse e apprezzare la pace, soprattutto quando nessuno vuole farci guerra. Una cosa è il nemico in armi  che ci sfida, un'altra, come nel caso italiano, inventarselo a tavolino, per vedere, neppure di nascosto, l'effetto che fa...  Macron un nemico?  Ma siamo seri, per favore! Al massimo,  un avversario politico, che è altra cosa.
Perciò, il pernacchio di  “Libero”, oltre a indicare l'abisso culturale in cui  siamo piombati, se portato alle estreme conseguenze “logiche” implica la guerra. Una volta che ci si è incamminati lungo la stretta linea amico-nemico, nessuna minaccia resta mai vana. Esiste un meccanismo sociologico, a spirale, dove a un certo punto l’automatico susseguirsi degli  eventi finisce per avere la meglio sul libero arbitrio degli uomini: si  chiama specifico sociologico. 
Aver dimenticato (o  voluto dimenticare) oltre alla lezione della storia, anche quella della sociologia, è molto pericoloso. 
E ora, siamo in mare aperto, agitatissimo,  un mare di insensatezze.  

Carlo Gambescia                        
                   

          

giovedì 30 agosto 2018

Un’indagine dell’Istituto Cattaneo
Immigrati, dove ce ne sono 7  gli italiani ne vedono 25


Diciamo pure che è passato inosservato. Cosa?  Il fatto, accertato, da un’ indagine dell’Istituto Cattaneo,  pubblicata tre giorni fa,  che la percezione degli italiani  della percentuale di immigrati  presenti nel nostro paese è totalmente distorta (1).  Ma leggiamo.

«I cittadini europei sovrastimano nettamente la percentuale di immigrati presenti nei loro paesi: di fronte al 7,2% di immigrati non-UE presenti “realmente” negli Stati europei, gli intervistati ne stimano il 16,7%. Ma in questo caso il dato che riguarda l’Italia è quello più significativo: gli intervistati italiani sono quelli che mostrano un maggior distacco (in punti percentuali) tra la percentuale di immigrati non-UE realmente presenti in Italia (7%) e quella stimata, o percepita, pari al 25%.»  (p. 1)

Sicché,

«l’errore di percezione commesso dagli italiani è quello più alto tra tutti i paesi dell’Unione Europea (+17,4 punti percentuali) e si manterrebbe ugualmente elevato anche se considerassimo la percentuale di tutti gli immigrati presenti in Italia – che, secondo i dati delle Nazioni Unite, corrispondono attualmente al 10% della popolazione (cresciuti di oltre 6 punti percentuali rispetto al 2007).»  (p. 2)

Insomma,  proporzionalmente,  dove  ce ne sono sette, di immigrati, l’italiano ne vede venticinque.  Il tasso distorsivo decresce in base  all’istruzione, al reddito, alla professione, alla scelta politica. Semplificando: più si è ignoranti, improduttivi, dequalificati, di destra, più si moltiplica l’immaginario, mentalmente e sociologicamente  devastante,  dell’immigrato con la bava alla bocca che vuole violentare le nostre donne, che ci ruba  lavoro e  welfare.    
Un’ossessione, quest’ultima,  che  è inversamente proporzionale al numero reale degli immigrati. Ad esempio, come si legge

« la distanza tra il dato reale e quello stimato è maggiore dove la presenza di immigrati è minore (al sud, inferiore al 5% della popolazione). Al contrario, lo scarto tra realtà e percezione è più contenuto nelle regioni del nord, dove la percentuale di immigrati – corrispondente a circa il 10% della popolazione – è  tendenzialmente più elevata.»  (p.6)

Infine, ultimo aspetto interessante,

«come emerge chiaramente, la percezione sulla diffusione dell’immigrazione è maggiore nelle grandi città rispetto ai piccoli comuni o alle aree rurali: nelle prima la stima raggiunge quasi il 31%, mentre nei secondi si ferma al 21,9%. Questo dato, tra l’altro, sembra essere in linea con la realtà dell’immigrazione italiana, maggiormente concentrata nelle grandi metropoli e tendenzialmente più diluita nei piccoli paesi lontani dai centri urbani. » (p.7)

Questi i fatti.  Gli italiani vantano, tra gli europei, un triste primato:  quello  del  razzismo. Come correggere questa  percezione distorta ?  Come fermare il razzismo dilagante? 
Diciamo che il Politicamente Corretto di Destra (PCD), oggi in auge, addirittura al governo,  che scorge in ogni immigrato un invasore,   non aiuta  il cambiamento di mentalità. Anzi, se ne serve, giocando sulle politiche delle paura e della caccia al capro espiatorio. Di colore.
Il fatto stesso che  questa ricerca sia passata pressoché inosservata  è un bruttissimo sintomo. Del resto i tempi del cambiamento culturale, legati agli effetti  di ricaduta   della qualità degli studi, del  reddito, della  mobilità sociale e politica, sono generazionali e sempre  mutevoli, soprattutto nelle società aperte,  mentre il risentimento sociale e razziale, soprattutto se politicamente  coltivato, riarma inevitabilmente, senza  soluzione di continuità,  pregiudizi secolari, tipici delle società chiuse, che nella storia umana, sono regola non eccezione: pregiudizi pronti a riaffiorare e sommergere, con la forza  improvvisa di uno tsunami,  le piccole isole di civiltà e tolleranza, faticosamente costruite da uomini e donne di buona volontà.
Resta poi il fatto, che gli attori sociali,  di regola, al comprendere preferiscono il credere: alla ragione le emozioni.   Di qui,  la difficoltà (per alcuni impossibilità)  insita  nell' insegnare la virtù del comprendere.  Sotto questo aspetto le  nostre società liberali, dal punto di vista storico e sociologico, sono una specie di miracolo. Per la prima volta nella storia umana, non solo  si è insegnato ad apprezzare   la tolleranza,  ma non pochi ne hanno appreso il valore: non semplice mezzo ma fine.
Il che  però non esclude, come sta accadendo,  la durissima  reazione di ciò  che può essere definito il basso profondo della storia umana, sempre in agguato:  il razzismo e l’intolleranza dei più, a cominciare, anche questa volta, purtroppo,  proprio dall’Italia.    
Perciò bisogna  resistere, anche se  pochi e derisi.  Si chiama battaglia di civiltà. 

Carlo Gambescia


                                      

mercoledì 29 agosto 2018

Sapessi come è strano allearsi  a Milano...
L’Ungheria di Orbán



Al di là del folclore politico, per capire chi sia l’alleato di politico di Salvini  ricordiamo che

[In Ungheria] a giugno 2016 è stato introdotto un nuovo articolo alla Legge Fondamentale che sancisce che il Parlamento dietro richiesta del Governo, in caso di rischio terroristico, possa proclamare lo stato di emergenza e nel contempo autorizza il Governo ad introdurre misure straordinarie per un periodo non superiore ai quindici giorni. Alla fine del giugno 2018 é stato approvato il pacchetto legislativo "Stop Soros", che irrigidisce le disposizioni in materia di immigrazione clandestina, nonché il settimo emendamento costituzionale in tema di identità nazionale, riforma del sistema giudiziario e tutela della privacy. Vengono reintrodotte le Corti Amministrative, che operereranno in maniera parallela alla magistratura ordinaria per i casi riguardanti la pubblica amministrazione.  (1)

Cioè proprio così:   “Stop Soros”, il cavallo di battaglia del complottismo  antisemita  di estrema destra.  Per non parlare  dei possibili  sviluppi autoritari che si celano dietro un governo  che in nome di  un generico  “rischio  terroristico”,  può introdurre in  qualsiasi momento misure straordinarie…  Inoltre,  il governo   ha il vizietto di intervenire “spesso con effetti retroattivi”, creando  “ostacoli agli investimenti sia domestici che esteri” (2).  Inutile ricordare le simpatie putiniane di Orbán (3). Insomma i rischi politici sono notevoli (4).
Un paese nazionalista e autoritario,di liberale non c’è proprio nulla: in Ungheria chi non piace al Primo Ministro Orbán  può finire in prigione, dal profugo  all’attivista per i diritti umani.
Parliamo  di un paese di dieci milioni di abitanti, con un basso tasso di natalità e  con  notevoli problemi di manodopera (5). Ciò però  spiega gli alti salari, che però, alla lunga,  rischiano di penalizzare le imprese di un paese a bassa produttività  che   dipende dal commercio estero e dall’Europa, anche per i rilevanti finanziamenti che riceve.   Alla lunga,  l’Ungheria, semplificando non potrà non trovarsi davanti alla  scelta  tra la  riduzione del costo del lavoro e il peggioramento dei suoi fondamentali. Per ora il Fiorino, che dovrebbe essere sostituito dall’ Euro  nel 2020, gode degli effetti di un’ economia che, come si evince dal quadro economico,  usa l’Europa, per i propri scopi (6).  Si chiama modello turco. Il lettore prenda nota.
Se tutti  membri della UE dovessero comportarsi così ( ricevere senza dare),  l’Europa non avrebbe alcun futuro.
Il che spiega però  la  grande  simpatia tra Salvini  e  Orbán.  Come è triste allearsi a Milano...  

Carlo Gambescia                                 



(1)  http://www.infomercatiesteri.it/rischi_politici.php?id_paesi=97  (Modifica della costituzione). L'inserto tra parentesi quadre è nostro.  I dati Ime,  poiché rivolti agli investitori italiani, sono abbastanza  attendibili.      
(2) http://www.infomercatiesteri.it/rischi_economici.php?id_paesi=97  (punto 1)                                                                                    (3)  http://www.infomercatiesteri.it/relazioni_internazionali.php?id_paesi=972) .

venerdì 24 agosto 2018

Nazionalismo,
strada senza ritorno



In queste ore molti italiani gonfiano il petto:  Salvini  si erge a crociato e  difensore contro un’invasione che non c’è,  Di Maio, minaccia di  non pagare i contributi all’Unione all’Europea se i gli immigrati, “stoccati” sulla Diciotti, non verranno  “redistribuiti”. Conte, prende diligentemente  nota. 
Gli italiani immaginano  di essere allo stadio.  Credono sia tutto  un gioco.  Hanno la memoria corta, purtroppo: non ricordano più i mondiali del 1939-1945.  In realtà, per  restare in metafora, quel che sta accadendo sul campo  non è bello: è come se  i giocatori tentassero di aggredire  l’arbitro per imporre l'annullamento di un rigore.  Ma non, come capita, invocando l'inesistenza di un fallo di mano. E allora, come?  Azzerando  le regole del gioco:  da questo momento,  gridano,  facendo capannello intorno all’arbitro,  la palla  in area  può essere  toccata con le mani da ogni giocatore.  
Fuor di metafora:  esiste Dublino, esiste una Commissione europea, esistono  regole che abbiamo liberamente accettato, esiste la buona diplomazia  dai toni  felpati ed eleganti,  dei piccoli o grandi  passi,  rapportati  a quello che è il peso  di una nazione. E soprattutto  la sua credibilità.   Che nasce proprio dal rispetto delle regole, dei bilanci, della buona economia, dello sviluppo e della crescita nel maestoso quadro di una società aperta. 
E tutto ciò che oggi manca  l’Italia.  Però Salvini e Di Maio (Conte non conta),  pretendono di essere ascoltati.  Anzi di imporre, come quei calciatori, le proprie regole,  minacciando la Commissione Europea.   Si chiama nazionalismo. Ed è una strada senza ritorno. Per quale ragione?
I nazionalismi, tra di  loro non collaborano. Si uniscono  per la parte destruens, ma subito si dividono su quella construens.  Basta qui ricordare  cosa accade dopo la Prima Guerra Mondiale. Tra l’altro, anche allora, gli Stati Uniti fecero un passo indietro…  Oggi c’è Trump, che pur in nome di ideali non  wilsoniani,  immagina   un' Europa  a pezzettini, debole e divisa.  Per non parlare di Putin.
Dicevamo i nazionalismi non collaborano. Orbán e il gruppo di Visegrád (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e ovviamente l’Ungheria)  sono  d’accordo  con Italia e Austria, semplificando, sul "Padroni a casa nostra". Però lì si fermano. Guai  proporre  al “liberale Orban”, come curiosamente  si autodefinisce,  di prendersi i nostri immigrati oppure di lavorare a una maggiore integrazione politica  europea.  Sono nazionalisti, per loro l’Europa,  è nella migliore delle ipotesi un’occasione da sfruttare, non un’idea e un destino, frutto  di un deciso e ragionato  "mai più  guerra civile europea". Loro,  i nazionalisti, gonfiano il torace e si battono i pugni sul petto come i gorilla, oppure soffiano e scalciano come i tori.  In questo sono bravissimi. 
La storia purtroppo ha sempre un suo peso. Certo,  non pari a quello della forza di gravità: altrimenti una Merkel e un Macron dovrebbero comportarsi come Hitler e Pétain.  Invece hanno perfettamente imparato dagli errori del passato.  Però c'è anche chi non riesce a liberarsi dei propri errori.   Anzi orrori: gli sgherri fascisti  delle Croci Frecciate,  spingevano nel Danubio, legati con il filo spinato, ebrei ed oppositori, con  un colpo di pistola si uccideva il primo della fila, che trascinava tutti gli altri nelle  scure acque del fiume. In questo modo si  risparmiava  sulle munizioni...
Ecco che cosa è stato il nazionalismo.  Però, non tutti sembrano aver compreso.  Altro che le questioni di bilancio e i rimproveri, tutti  meritati, della  Commissione Europea.   Tra i professori  come Monti e i fascisti ungheresi e italiani, quelli delle leggi razziali,  c’è una differenza di specie,  non di grado.   
Eppure, sembra che gli italiani abbiano dimenticato tutto.  Il  nazionalismo è una strada senza ritorno. Poveri noi, il risveglio, anche questa volta,  rischia di essere brusco.   

Carlo Gambescia
                       

giovedì 23 agosto 2018

Salvini, l’Italia e il KKK





Prima i fatti.

"Sono ministro dell'Interno di questo Paese con il mandato preciso di difendere i confini di questo Paese, di occuparsi della sicurezza. Se bloccare una, due, tre, quattro o cinque navi mi comporta accuse e processi, ci sono".
Matteo Salvini (1)

Boom! Sembra un film già visto. Tanti anni fa Hitler  sosteneva  di   difendere i “confini” della Germania, annettendo e conquistando.  Salvini  dice le stesse cose, alzando però muri intorno all’Italia.  Ricatta l’Europa,  sequestrando vigliaccamente centosettantasette  persone a bordo, attenzione, di una nave italiana.  Bene ha fatto la magistratura a intervenire, per ricordare che in Italia esiste ancora la divisione dei poteri.  C’è ancora un giudice a Berlino. Fortunatamente.
Per ritrovare un comportamento  vergognoso a livello istituzionale come quello di Salvini,  bisogna risalire alle  Leggi razziali del 1938.  E purtroppo, come allora,  il leader leghista sembra  godere di consensi, o quanto meno della passività di quelli "del tanto sono tutti uguali" e del "comunque sia, proviamo"...  Oppure,  forse,  l’Italia sta impazzendo.   Lentamente, un cappio razzista  sembra stringersi intorno al suo delicato collo che si allunga nel Mediterraneo,   storicamente crocevia di popoli e culture differenti.
È bene ricordare che il passaggio dalla difesa dei confini della patria a quello della difesa della razza (e viceversa)  è brevissimo.   Soprattutto la gente comune, facile preda di una  politica della paura (la stessa del movimento Brexit britannico, che prese più voti nei distretti rurali, ancora privi di immigrati),  che gioca sulle emozioni piuttosto che sulla ragione. Una politica  via faKe news  che rischia di tramutare l’Italia in una specie di succursale collettiva del KKK.
In Italia ormai, si entra solo via mare, la Bossi-Fini non funziona, o se funziona, impedisce qualsiasi accesso legale,  se non si può dimostrare che si ha già un lavoro.  Questa  è la verità.   Per giunta, proprio via mare, non c’è alcuna invasione, o quantomeno il flusso è in discesa,  come  provano le statistiche, del Ministero dell’Interno (2): sono cifre che il “Grande Mago”della Lega dovrebbe conoscere a menadito. Eppure...
L'invasione -  le destre neofasciste, romantiche e complottiste, parlano di "Grande Sostituzione"...  -  se c'è, esiste solo  nella testa di Salvini  e degli sfortunati, mentalmente sfortunati, che,  in preda a inesistenti paure, lo votano.  I suoi volenterosi carnefici elettorali. Per ora. 
Ciò  che spaventa è la disumanità  del Ministro dell’Interno: il suo non è realismo,  ma ferocia politica. Per capire la distinzione, non c'è bisogno di leggere Machiavelli o Mario Puzo:  Salvini, impari, pazientemente, la differenza ripassando le politiche di Marco Minniti...   Per inciso, altro dato privo di precedenti: siamo davanti  a un capo-partito  appropriatosi  di  un ministero chiave, che invece dovrebbe, istituzionalmente, tutelare tutti gli italiani, anche quelli, siamo sessanta milioni,  che  non la pensino come  il leader della Lega.  O deve  valere per tutti il Salvini-Pensiero-Unico? Una bella croce di fuoco, tanti magnifici cappucci bianchi e gone with the wind...
Tuttavia,  quel  far  scendere dalla nave  Diciotti  i minori, solo dopo la notizia dell’ apertura di un fascicolo da parte della magistratura per sequestro di persona,  per ora contro ignoti,  consente di  intuire che forse, e sottolineiamo forse,   Salvini non si senta  poi così forte. Di qui, il suo vittimismo, come prova l'incipit.
Di conseguenza, per metterla  in termini politici, si potrebbe presentare in Parlamento  una mozione di sfiducia contro il Ministro dell'Interno.  Quantomeno per provare a dividere il Governo, non su volgari  questioni  economiche,  ma su una nobile e vitale questione di principio: i diritti fondamentali dell’uomo.
Naturalmente, da parte delle opposizioni, per una volta,  riunite.  Forza Italia,  il Partito Democratico, Liberi e Uguali  se la sentono?  Ora o mai più.

Carlo Gambescia

(1)  

(2)
http://www.interno.gov.it/sites/default/files/cruscotto_giornaliero_22-08-2018.pdf     . Si veda direttamente il grafico.      

mercoledì 22 agosto 2018

La stupida  polemica  sulle vacanze di Toninelli
Todos populisti

Il Ministro delle Infrastrutture Toninelli in vacanza,  accanto alla consorte (Fonte: Ansa)

La prendiamo da lontano.  In pochi, a dire il vero, ci si interroga  sulla sorte  dell’ opposizione al  governo populista. Come contrastare  la marcia  trionfale, pure tra gli applausi,  di Salvini e Di Maio?  La propaganda giallo-verde è assai semplice: " Monti, Letta e Renzi hanno distrutto l’Italia, noi  la ricostruiremo ‘più bella e più superba che pria’ ”,  per dirla con Petrolini.
Vasto programma,  che gioca su una visione totalmente falsa della realtà, come  attestano   i dati economici,  Monti, Letta e Renzi hanno portato l’Italia fuori dalla crisi,  hanno allontanato il rischio Grecia e preparato le condizioni per un rilancio dell’economia, come comprova la ripresa  dell’ultimo anno.
Pertanto un’opposizione che si rispetti, realmente alternativa,  dovrebbe rivendicare questo primato. Che - attenzione -  rinvia alle buone regole di mercato, le stesse che hanno fatto grande l’Italia e l’Europa:   dall’Euro  ai bilanci in ordine, dalla libertà di commercio alla libertà di lavoro.   Invece, sembra quasi che ci  si  vergogni, favorendo così  nella mentalità collettiva  la diffusione dell’idea che le volgari e infondate critiche dei populisti colgono nel segno.
Berlusconi, anche lui, pare, all'opposizione,  merita  un breve approfondimento. Oltre agli errori politici, che hanno costellato la sua carriera di Presidente del Consiglio,  ne va imputato uno, imperdonabile:  la totale resa delle sue televisioni ai talk populisti e all’informazione faziosa, pur di combattere i "professori defenestratori" e  "l'anti-costituzionalismo renziano ",  ha invece  facilitato  la vittoria del populismo, e in particolare  di un razzista come Matteo Salvini.  E purtroppo, la stessa Forza Italia  sembra continuare  su questa linea. E, per giunta, in compagnia, non dichiarata, di un Pd, sempre più confusionario e populista. E qui veniamo al punto.   
La polemica sulle “vacanze di Toninelli" condotta dalle opposizioni  rispecchia in pieno,  nei toni e nei contenuti,   il rozzo e settario immaginario populista.  E non è la prima volta.  Leggere per credere.

 "Qualche giorno di mare con la famiglia con l'occhio sempre vigile su ciò che accade in Italia. Ma tutti gli eroi della #guardiacostiera, dai vertici fino all'ultimo dei suoi uomini, come vedete, sono sempre con me. Anzi, li tengo sempre in... testa". Basta un post su Istagram del ministro pentastellato dei Trasporti Danilo Toninelli - con tanto di foto in spiaggia con cappellino della Guardia Costiera accanto alla moglie - a scatenare la polemica. Supporter pentastellati elogiano invece il ministro per il suo lavoro e gli augurano "buone meritate vacanze". Ma arrivano le pesanti note di Forza Italia. "Forza Italia aveva chiesto che il ministro venisse già questa settimana in Parlamento per riferire sul disastro del ponte Morandi, ma Toninelli aveva fatto sapere di aver bisogno di tempo per raccogliere più informazioni e ha fissato al 27 agosto. Forse, vista la scenografia della foto su Instagram, il tempo gli occorreva per raccogliere conchiglie" affonda Giorgio Mulé. Matteo Renzi gela il ministro: "C'è una nave italiana con persone in difficoltà bloccata da uno scontro tra ministeri. C'è un ponte crollato e Genova divisa in due. C'è l'opposizione che chiede di riunire subito il Parlamento. E questo dà la colpa agli altri, saluta tutti e va al mare? Non è una #favoletta".    


Ora,  invece di porre in primo piano il problema dello stato di diritto, violato dallo sciacallaggio anti-istituzionale del governo giallo-verde sul disastro di Genova,  si contrattacca  scendendo sullo stesso piano dei populisti, lanciandosi in accuse personali e prive di senso.   Perché, come sa  chi  studia la politica, i ministri in vacanza, almeno mentalmente, non vanno mai.  La  bassezza di  polemiche  del genere  -  sebbene siano stati i populisti a cominciare per primi -  non aiuta, anzi penalizza, la qualità del dibattito politico. Si presenta una realtà  ridotta al  pettegolezzo travestito da argomento politico, disabituando al ragionamento un cittadino che, già di regola, alla fatica  del capire  sembra preferire la scorciatoia del credere.
Stupido e per giunta controproducente.  Infatti, l’opposizione, commette un altro errore gravissimo. Perché,  recependo il grossolano e micidiale  alfabeto populista (e non è la prima  volta, ripetiamo),  dà  per scontato ciò che invece non è: per quale ragione gli italiani dovrebbero scegliere la copia invece dell’originale?  La copia, secondo la vulgata giallo-verde, avrebbe distrutto l’Italia,  i populisti, l'originale, invece puntano a ricostruirla. Perché gli italiani dovrebbero credere agli imitatori dell’ultima ora?   
Per la serie come farsi del male da soli. E soprattutto all'Italia

Carlo Gambescia         
           
                

martedì 21 agosto 2018

Dopo il disastro di Genova
Si fa presto a dire concessione…


Nonostante  esista in materia abbondante letteratura scientifica, molti  osservatori sembrano non rendersi conto  che l’idea di nazionalizzare la rete autostradale, tornando indietro -  attenzione - non dal regime di laissez faire, ma di concessione  (un pasticcio, come vedremo), è roba da paese sottosviluppato.     
In principio era l’Anas, poi, sull’onda delle liberalizzazioni, quindi di aperture parziali e minoritarie ai privati in termini di diritto amministrativo non civile,  decollate faticosamente  negli  anni Novanta del secolo scorso, si introdusse il sistema delle concessioni,  che, sociologicamente parlando, è una via di mezzo. Tradotto:  né completamente privato, ne completamente pubblico. Dal punto di vista della teoria del Simon sul comportamento amministrativo, siamo  davanti a un specie di centauro politico-economico, metà stato, metà mercato.  
Parliamo  di un sistema storicamente concepito, quello delle concessioni, per impedire, l’ingresso di società straniere, o comunque per tenerle  sotto stretto controllo. Però chi sa, non abbocca.  Come ad esempio,  le imprese  anglo-americane,  che non da oggi (quindi anche per tradizioni economiche  e giuridiche differenti) scorgono  nel sistema delle concessioni -  che secondo gli storici del diritto risale al centralismo napoleonico (Louise-Antoine Macarel,  ne fu, dopo la caduta, il dottrinario per eccellenza) -  una forma non gradita di controllo politico dell’economia.  Una concessione, di per sé,  è sempre revocabile.  Di conseguenza,  i loro cavalli si rifiutano di bere.  
Al sociologo, al di là dei nomi e degli argomenti da Dagospia economica, che tanto appassionano in questi giorni i media, interessa una sola cosa:  gli effetti di ricaduta sociale sul sistema economico della forma  relazionale  concessione.
Esistono studi sociologici (da ultimo si veda, la sintesi che ne fa Crouch, in Postdemocrazia)  che provano come l’area grigia pubblico-privato sia la principale causa dei fenomeni di corruzione e concussione. Che, attenzione, tendono a crescere in  modo direttamente  proporzionale all’aumento della  presenza dello stato nell’economia.
Ciò significa che  lo strumento della concessione, dal punto di vista dei ruoli sociali ( chi valuta le credenziali, chi investe? chi reinveste? chi controlla? ), rinvia a  una  confusione costitutiva,  che  non dipende dalla pubblicità dei contratti, dalla loro forma,  dall’autorità  di controllo, ma da uno stato, concedente,  che continua a comportarsi verso il concessionario come un dio assente, ma capriccioso e geloso.  
Addirittura, a proposito di Autostrade,  abbiamo letto che il contratto di concessione  stabiliva, quote precise di  reinvestimento degli utili. Ora, gli utili a bilancio, come sa chi si occupa di queste cose,  sono  quanto di   più aleatorio esista in natura contabile-economica. Ma come, si dirà,  basta fare la differenza tra costi e ricavi? Sì, durante gli esami all’università.  
Ovviamente  esistono i revisori, le clausole di controllo, eccetera  ma resta  difficile  stabilire il valore effettivo degli utili,  perché i mercati sono mobili e gli uomini immobili nei loro riflessi carnivori.  Il che non significa, attenzione, che i bilanci siano inutili.     
Il punto vero della questione  è che  il concedente, lo stato,   ragiona in termini di merito e legittimità (di diritto amministrativo, insomma),  mentre  il concessionario, dipendendo dal mercato, in termini in economici.  Di qui, gli inevitabili  aggiustamenti, anche a livello contrattuale e post-contrattuale, talvolta  non legali, o sul filo della legge,  soprattutto nella pratica.  E per quale ragione?   Per mettere comunque insieme il diavolo (il mercato) e l’acquasanta (il diritto amministrativo). Sicché,  il concedente, è contento perché comanda, o almeno così ritiene,   mentre  il concessionario, si ritaglia qualche utile, ma sempre con la valigia pronta. Separati in casa.    
La sociologia insegna che  esiste  un’ area del diritto definita discrezionale. Ora, nel diritto amministrativo -  si parla, confondendo le due cose, anche di diritto pubblico dell’economia -  la discrezionalità, soprattutto nei contratti di diritto amministrativo e nel successivo portarli a effetto,  è molto elastica.  Dove c’è lo stato, c’è la politica, e dove c’è la  politica domina la discrezionalità, il che spiega la natura particolarmente discrezionale del diritto amministrativo che è  branca del diritto pubblico, e di conseguenza, come direbbero i giuristi spagnoli, diritto “politico”.  Legittimità e merito, sì, ma con juicio.   
Pertanto, ripetiamo il problema, non è  la pubblicità dei contratti di concessione, o l’utopica idea, presente  in molti giuristi,  di pervenire al contratto così trasparente al punto di essere  perfetto, bensì la natura equivoca (nel senso del variamente interpretabile) dell’istituto giuridico della concessione amministrativa:  politicamente, fuori dai principi dell’economia di mercato, ma sociologicamente dentro i pericolosi meccanismi della corruzione e della concussione.
Altra cosa sarebbe la privatizzazione della rete autostradale italiana. Ma questa è un’altra storia.

Carlo Gambescia
                 

lunedì 20 agosto 2018

Da Pétain a Salvini
“Stoccare” gli esseri umani




Il regime di Vichy, filonazista, che alcuni storici ancora difendono come scudo alla totale invasione della Francia da parte degli eserciti di Hitler, “stoccava” gli ebrei francesi in appositi campi per poi consegnarli alle SS. Queste persone, anziani, donne,  bambini, privi di qualsiasi diritto, restavano per giorni e  mesi,  nella più completa incertezza del proprio destino.  Per loro non esisteva scudo… Un grande studioso di origine ebraica, in fuga dalla Germania,  Walter Benjamin, fermato dalla polizia di confine spagnola, per evitare tutto questo,  si suicidò.
Quando oggi  si parla  di Europa  unita, di libera circolazione di uomini e merci al suo interno come all’esterno, sembra che nessuno più  ricordi  lo “stoccaggio” pétainista  degli ebrei,  frutto avvelenato di una visione nazionalista, razzista antisemita e complottista.   Cosa vogliamo dire?  Che  le radici del processo di unificazione europea affondano, politicamente e moralmente,  in un “Mai più stoccaggi di essere umani”,  tragico preludio, allora,  a quell’unicum, rappresentato dalla Shoah. Quindi saremmo davanti a qualcosa di indimenticabile che, estensivamente,  ha toccato tutti ebrei e non ebrei. Per farla breve:  l'Unione Europea, al di là di tutte le controversie politiche ed economiche, rappresenta un "no" al nazionalismo, al razzismo, all'antisemitismo, al complottismo.
Saremmo davanti.  Perché abbiamo usato il condizionale?  Per una ragione precisa:  come possiamo definire le centosettantasette persone della nave Diciotti?  Persone, attenzione al termine.  Non parliamo di clandestini o migranti, ma di persone con diritti, proprio perché tali.  Come potremmo definirle,  se non “stoccate”?  Nell’attesa penosa  e  incerta  di un destino ancora oscuro... 
Delle due l’una. O Salvini, per usare la terminologia di Nolte, non conosce la storia della “guerra civile  europea” nei suoi lati più rivoltanti, oppure la conosce fin troppo bene. Nel primo caso è un vero  ignorante , nel secondo,  un essere brutale. In entrambi i  casi,  un uomo pericoloso.
Come lo fu Pétain.

Carlo Gambescia           

                   

domenica 19 agosto 2018

 Salvini, Di Maio e Shakespeare
Essere  o non essere


Non per cominciare i miei pezzi, ricorrendo sempre   allo stesso cappello. Ma, quasi ogni giorno,   discuto i miei  post,  non solo pubblicamente, ma in privato con amici, che mi scrivono, telefonano. oppure che  incontro. 
Ieri un amico mi faceva notare, che stanno emergendo le responsabilità  di Autostrade. Perfetto.   Io non sono il difensore di ufficio, se il “gestore”, come si dice, ha sbagliato è  giusto che paghi.  Ciò  che invece ferisce,  è che  molti miei lettori non riescano ad afferrare il reale pericolo per l'Italia rappresentato dal governo giallo-verde, che nella migliore delle ipotesi si comporta come un pugno di  troll e hacker, nella peggiore come un gang di  fascisti o mafiosi.
Lo stato di diritto non è una “favoletta” per bambini,  è la base costituzionale e  procedurale,  sulla quale dovremmo essere d’accordo tutti, il cui scopo  è  impedire, semplificando,  che le persone siano condannate  prima di essere processate. Oggi tocca ad Autostrade, domani potrebbe toccare a ognuno di noi. Ecco allora che un insieme di regole, condivise da tutti, ci può proteggere da abusi e ingiustizie.
Lo ripetiamo per la milionesima volta, siamo dinanzi  a una forma di organizzazione giuridica, luminoso punto di arrivo della civiltà liberale, che fascisti, nazisti, comunisti e (ora) populismi rifiutano, evocando pericolose ideologie legate alla nazione, alla razza, alla classe, al  popolo. Figurarsi dunque la preoccupazione di un liberale.
C’è anche un altro aspetto preoccupante, che non riguarda direttamente  la gang  al governo, ma l’atteggiamento dei mass  media  verso di esso  che sfiora la complicità.   
Dei Social, per inciso,  inutile parlare: ci sono persone, addirittura “amici” (come si usa chiamarli sui Fb) che si guardano bene  -   alcuni di essi hanno  confermato privatamente -  di riprendere i miei articoli per non essere escluse e/o schedate come “nemici del popolo”, oltre, ovviamente, per evitare di ricevere  quotidiane  dosi  di insulti. . Insomma, i Social  sono in larga parte controllati dai populisti governativi:  rappresentano il maistream del politicamente corretto pentaleghista. 
Quanto ai giornali,   l’unica vera opposizione liberale  alla gang di Palazzo Chigi è rappresentata dal “Foglio” e  in parte dal “Dubbio”.  Il resto della stampa, incluso il postcomunista  "Manifesto",  o  non si compromette,  lanciando però tra le righe,  segnali di incoraggiamento, oppure  gioca al rialzo,  al populismo al quadrato,  come i fogliacci di destra.  Una tragedia mediatica.     
Per dirne una,   ora  è in voga, secondo il politicamente corretto pentaleghista,   attaccare la Francia (a proposito  chi desidera si faccia un giretto sui social,   ritroverà  l’espressione “mangiarane”, tipicamente fascista):  giorni fa, “La Stampa”, dico “La Stampa”,  è uscita  in prima pagina   con  una rievocazione dell’eccidio di Aigues-Mortes, avvenuto il 17 agosto del 1893… Stesso giorno ma non stesso anno. Perché?  Giusto,  ricorreva il  "Centoventicinquesimo"… Quando si dice il caso.
Sulla questione del ponte di Genova,  invito  i lettori  a trovare  un titolo dove si stigmatizzi il comportamento all’Al Capone del  governo giallo-verde.   Certo, sono usciti inviti (magari relegati  nelle pagine interne), non molti, alla prudenza.  L’unico a prendere posizione, fin dai titoli (che sono quelli che il 95 per cento delle persone si limita a leggere),  è stato “Il Foglio”.  Quanto a televisioni e radio, gli anchorman si sono gettati come avvoltoi sul dolore e sugli effetti scenografici della tragedia, favorendo direttamente o indirettamente,   il politicamente corretto pentaleghista dell’impiccalo più in alto.
I mass media  riflettono il Paese? O il Paese è un  puro  riflesso dei mass media?  Il problema è antico, come quello dell’uovo e della gallina.  Resta il fatto che  gli applausi di Genova rivolti a Salvini e Di Maio, claque o meno,   indicano che l’arroganza, il linguaggio violento, i metodi sbrigativi  piacciono agli italiani. Ed è già accaduto.  Perciò, probabilmente, anche questa volta,  i mass media riflettono il Paese.
Da commentatore,  me la potrei  cavare,  con il classico chi è causa del suo mal eccetera, eccetera. Ma, mi chiedo, e chiedo ai lettori,   è giusto assistere, ancora una volta, alla rovina dell’Italia,  senza fare nulla? Passivamente?   
Il problema, purtroppo non è cambiato. È sempre quello scolpito da Shakespeare…  Che rinvia, certo  in modo indiretto, al di là della questione esistenziale,  al grande dramma della decisione politica:  “Essere, o non essere, questo è il dilemma: se sia più nobile nella mente soffrire i colpi di fionda e i dardi dell’oltraggiosa fortuna o prendere le armi contro un mare di affanni, e,  contrastandoli, porre loro fine?”.    
Carlo Gambescia
                                                     

sabato 18 agosto 2018

Di Maio, Salvini, Conte
Al Capone a Palazzo Chigi


Ieri ho incontrato un amico che insegna Storia dei Paesi dell’Europa Orientale.  Ci siamo presi un aperitivo. Tra una chiacchiera e l’altra,  si  è complimentato  per il post sui populisti russi (1). Dopo di che però  mi ha rimproverato. “Ottimo”,  ha sottolineato, “però troppo difficile” . E sorridendo ha aggiunto: “Non puoi pretendere che la gente comune conosca  la storia politica russa e capisca  al volo certi paralleli storici,  pur calzanti”. Conclusioni,  testuali:  “Caro Carlo, così facendo,  tu spiazzi chi vuole comprendere e combattere i populisti italiani, e al tempo stesso rischi di essere liquidato come il solito intellettuale liberale che vive in una specie di  Olimpo”.
Raccolgo  critiche e  appello dell’amico.  Oggi sarò più che chiaro.  Addirittura brutale. 
Il metodo di governo che si sta delineando è quello di un banda di criminali e  ricattatori. Si osservi il comportamento  nei riguardi di Autostrade. Senza tenere in alcun conto, anzi calpestando,  l’articolo 27 della Costituzione, la divisione dei poteri, il principio di legalità,   la gang di populisti  insediatasi a Palazzo Chigi,  minaccia e ricatta  una grande impresa privata: “Noi vi revochiamo la concessione, se però  tirate fuori soldi poi vedremo.  Come vogliamo chiamarlo?  “Metodo Mafia”, “Metodo Camorra”.  Se non paghi ti brucio il negozio. Altro che principio di legalità...  
La cosa più grave, e basta scorrere i giornali di oggi,  soprattutto a grande tiratura,  è che in nessuno di essi  si legge  qualcosa  sul  “Metodo Al Capone”.   E ciò non va bene.  Perché questo clima di assuefazione collettiva,  favorisce il deliro di onnipotenza della  gang di Palazzo Chigi,  che, grazie alla complicità (parola forte ma calzante) dei  mass media,  sembra, ogni giorno di più, acquisire consapevolezza  del suo potere  crescente.  E ciò accade, perché nessuna  forza politica e sociale  fa vera opposizione. In che modo la si dovrebbe fare?  Nell’unico possibile:  evocando, in modo martellante,  la violazione dei principi dello stato di diritto. L’Italia sta subendo una involuzione autoritaria che nessuno denuncia.  Anzi, addirittura  molti plaudono e incoraggiano.
Si pensi  ai  funerali di stato delle vittime di Genova: pura tecnica fascista. In che senso? Della conciliazione  autoritaria tra regime e movimento. Ci spieghiamo meglio.
La gang di Palazzo  Chigi  ha imposto i funerali di stato, dunque retorica di  regime,  senza sapere come effettivamente siano andate le cose,  però al tempo stesso, ha giustificato il rifiuto di quasi  metà delle famiglie di partecipare alle esequie solenni, scaricando tutte le responsabilità sui governi precedenti, accontentando così  i movimentisti,  duri e puri.
Il fascismo, così facendo,  si mantenne al potere vent’anni, promettendo ai movimentisti  la rivoluzione prossima ventura e  ai sostenitori del regime, lo stato ordinato, insomma il buon governo.   Alla fine,  il fascismo, non riuscendo più a conciliare le due anime,  entrò in guerra contro i nemici storici,   le nazioni democratiche.   Il fascismo si era   trovato davanti a un inevitabile bivio.  Però, a differenza delle pacifiche democrazie liberali fondate sul compromesso,  vide, come ogni autoritarismo (quale tendenza a imporre con la forza, all'interno e all'esterno, la propria autorità),  nella guerra,  l'unica via d'uscita. Ossia si puntò tutto sulla designazione  e distruzione del nemico.  In questo modo,  si ritenne di poter accontentare al tempo stesso i  "movimentisti"  che volevano menare le mani   e soddisfare i "regimisti",  conquistando però con la violenza  le risorse  necessarie per fare arrivare i treni in orario. Mussolini, come Al Capone,  scelse il mitra. 
Il nemico della gang di Palazzo Chigi è l’Europa. Ovviamente,  non ci sono eserciti schierati (per ora):  il conflitto è di tipo economico.  Ciò però significa che  prima o  poi,  non potendo  garantire  risorse sufficienti, per tenere a bada  i movimentisti e accontentare “i regimisti”,  la banda  Al Capone del pentaleghismo  dichiarerà  guerra  all’UE.   Tradotto:  si uscirà  dall’Europa e dall’Euro.
A quel punto, la chiusura delle banche italiane e il blocco dei conti correnti, come prevede  il Piano B, concepito da Paolo Savona, che è un piano di guerra,   tutti gli italiani, “figli dello Stato”, per usare la terminologia cripto-fascista  di Luigi Di Maio,  capiranno in un solo colpo la gravità del vicolo cieco in cui si sono  cacciati,  accettando il 4 marzo  di pagare il pizzo elettorale  alla  gang  di  Al Capone.
Sono stato chiaro?  
Carlo Gambescia
                                                 

                         

venerdì 17 agosto 2018

Dai populisti russi ai populisti italiani
Andare verso il popolo...




Chi non abbia ancora letto la celebre opera di Franco Venturi sul populismo russo dovrebbe leggerla subito. Molto istruttiva, proprio al riguardo di ciò che sta accadendo (e potrebbe accadere) in Italia.
In quel libro  si scrive, e dottamente, della  sbornia  politico-culturale che si abbatté sulla Russia zarista alcuni decenni prima della rivoluzione.  Vi si parla  dell’ “andata verso il popolo” del 1873-1874, che vide studenti,  di origini borghesi e  nobili, in abiti contadini (letteralmente), portare il  verbo della democrazia sociale nelle campagne, per attingere  linfa  vitale da un popolo giudicato puro e incorrotto, fonte di ogni bene.    
Di lì, semplificando, si sviluppò il populismo politico russo,  che, nella versione partitica socialista rivoluzionaria,  per un verso  fu facile preda del truce realismo  di Lenin, e per altro cannibalizzò l’imberbe liberalismo russo, lasciando opposizione ai bolscevichi nelle mani di generali impolitici e reazionari,  privi di qualsiasi ideale, se non quello puramente autocratico. Kerenskij ne fu il triste epilogo umano e politico.
Il popolo,  nel momento della verità,  fu più realista dei suoi capi, si schierò con il potere di fatto del partito bolscevico. I comunisti svuotarono il consenso populista nelle campagne, dove i contadini affamati, stanchi di chiacchiere romantiche, puntarono su Lenin. (che era anche bene armato). Il cavallo era  sbagliato,  ma questa  è un’altra storia,  finita nel 1991.
Dove vogliamo andare a parare?  Presto detto: alle esequie di stato per i morti di  Genova. Un atto, a nostro avviso, degno degli studenti russi  travestiti da contadini.
Lasciamo stare  gli aspetti protocollari  e dunque la questione dell'ultima parola  sulla decisione delle esequie pubbliche o meno (1). In realtà, il  punto è un altro,  e qui  risiede  l'occasione che i populisti italiani  non possono non cogliere.   Quale?  Quella  rappresentata  dalla  possibilità di veicolare  un messaggio politico.  Di che tipo?  Dal momento che in Italia, ripetiamo,  sono al potere i populisti, non quelli russi ovviamente, ma lo schema sociologico, mentale e comportamentale  è analogo,  il senso dei   funerali di stato non potrà non andare  oltre il puro cordoglio istituzionale (come in altre occasioni), per assumere, considerata anche la  bronzea (da faccia...) abilità politico-mediatica dei populismo pentaleghista,   un importante significato politico di rottura con il passato.  Già ci sembra di sentirli: “Gli altri governi fingevano e fuggivano, mentre noi siamo gli avvocati del popolo. E siamo qui con voi, popolo, per difendervi. Noi siamo voi, voi siete noi”. 
Un consiglio ai lettori: prestino attenzione all’orazione commemorativa ufficiale, prevista dal protocollo,  o comunque alle dichiarazioni, prima, durante e dopo i funerali, perché  non potranno non assumere la forma e la sostanza dell’ atto di accusa  verso quello che viene considerato da Salvini, Di Maio, eccetera,  l’Ancien  Régime.  Del resto, i populisti solo questo possono fare: rilanciare continuamente, spararle grosse,  dal momento che non possono portare a effetto promesse irrealizzabili. Se non,attenzione, distruggendo la credibilità dell'Italia e il tenore di vita degli italiani.
Di qui, l'escalation degli insulti e delle parole d'ordine,  per tenere alta la tensione politica e nascondere il sicuro flop.  Per ora, dunque, i funerali di stato  rappresentano un ulteriore e importante passo propagandistico verso il consolidamento politico del governo giallo-verde, lungo un escalation, che prima o poi, si dovrà arrestare, dal momento che le parole seppelliscono altre parole, i complotti i complotti,   insomma i tweet i tweet.   Sicché,  i duri fatti non possono non  finire sotto gli occhi di tutti.   E il popolo, in ultima istanza, come prova il caso russo, sembra sempre essere  più realista delle sue élite populiste.
Speriamo solo, che quando verrà il momento,  non ci liberi da questa “gang of populists”  (secondo l'eccellente definizione dell’ ”Independent”)  un nuovo Lenin. Magari, questa volta, rosso-bruno. Perché sarebbe come cadere dalla padella  nella brace.  

Carlo Gambescia

                              

giovedì 16 agosto 2018

Il governo giallo-verde vuole revocare la concessione ad Autostrade
Brutale e pasticcione, 
ma fino a quando?




E tre, anzi quattro.  Prima, il vulnus,  col sorrisetto  sulle labbra dell’ineffabile Di Maio,  al  principio di  irretroattività delle leggi,  sulle cosiddette pensioni d’oro (che proprio d’oro non sono); dopo la circolare interna,  vagamente mussoliniana,  del ministro Grillo per differire artatamente gli obblighi di legge sui vaccini; ieri la dichiarazione del premier  Conte sulla revoca della concessione ad Autostrade -   che cancella  in un solo  colpo  alcuni secoli di progresso giuridico -   senza aspettare, si legge  le “verifiche” ,  invece di “indagini”,  della magistratura:  un lapsus freudiano, come ha giustamente notato sulla mia pagina Fb l’avvocato Simona Giannetti, che la dice lunga sull’analfabetismo istituzionale del governo giallo-verde, a cominciare dalla sua  visione  panpolitica della divisione dei poteri. 
Il prefisso ( "pan") indica   una concezione  che assegna  alla decisione politica la precedenza assoluta. Per la serie,  è la forza che crea il diritto.  Con un preciso spin-off ideologico, comune ai totalitarismi rossi e neri: che i diritti degli individui non sono che riflesso dei diritti dello stato, di volta in volta, "serbatoio" della razza, del proletariato, della nazione, o come dicono oggi i populisti,  del popolo.
Dicevamo quattro. Perché va considerato il famoso Piano B  per uscire dall’Euro,  ideato da un gruppo di ricerca vicino a Paolo Savona, attuale Ministro per Gli Affari Europei,  progetto  che prevedeva il blocco dei conti correnti e la chiusura delle banche. Roba da Venezuela di Chavez.
Insomma, siamo messi proprio male.  Questa visione panpolitica dei rapporti fra i tre poteri, che vede al centro un governo motorizzato politicamente,  con addirittura un capo-partito (Salvini, al Ministero dell' Interno), cosa  mai accaduta  nella storia repubblicana,  rinvia, quanto meno in prospettiva,  a forme  brutali  di dittatura.  Per ora in nuce. Ma il virus è quello. Con una differenza, che  i giallo-verdi  hanno  un profilo da pasticcioni. Si pensi al cosiddetto Decreto Dignità, scritto senza tenere in nessun conto, anzi travisandole, le relazioni tecniche dei vari organismi e ministeri preposti. Un decreto (parola grossa) che  non crea posti di lavori, anzi ne distrugge,  accrescendo  gli  adempimenti giuridici e  amministrativi.  Altro che delegificazione...
Anche la dichiarazione sul tamburo, senza ancora sapere come siano andate effettivamente le cose,  di voler revocare la concessione ad Autostrade, "i nemici del popolo" di turno,  rischia di scatenare, impugnazioni da parte della stessa società, contenziosi su pagamenti di penali, ricorsi, e così via:  una situazione che,  conoscendo i tempi della giustizia amministrativa e civile,  potrebbe protrarsi per anni. Senza, magari,  approdare a nulla.  Con l’effetto però di peggiorare  i già complicati bilanci gestionali della  rete autostradale italiana,   trasferendoli all’Anas, che perde colpi da sempre,  o a qualche microconsorzio, pubblico o semipubblico,  improvvisato.  Un pasticcio.     
Pertanto nella brutale  follia panpolitica dei giallo-verdi non c’è alcun metodo.  Cosa  che invece, paradossalmente,  c’era in quella dei nazisti, che non si comportarono  mai  da pasticcioni (certo, purtroppo...).   Ad esempio,  quando si arrivò  - c’è un bel film in argomento (Conspiracy. Soluzione finale) -   alla decisione di sterminare tutti gli ebrei, inclusi  quelli di “sangue misto”,   anch’essa figlia di una opzione panpolitica,  alcuni giuristi sostennero la tesi  che molti ebrei  di sangue tedesco, avrebbero potuto presentare ricorsi, quindi intasare i tribunali, eccetera, eccetera.
Però Heydrich, che presiedeva la riunione -  impeccabilmente organizzata da Eichmann - inarcando il sopracciglio ed evocando gli ordine tassativi del Fürher,  respinse  qualsiasi  “  dubbio legalistico”, che rinviava, così disse,  al sorpassato e decrepito stato liberale. Nessun pericolo di pasticci, insomma. E i tribunali finirono per dare ragione a Heydrich. Del resto,  come la cosa  poi  finì, tutti sappiamo.    
Conte e sodali, dal momento che la pericolosa logica  panpolitica è la stessa,  credono di saperne addirittura più di quei  dubbiosi  giuristi.   In qualche misura - semplificando il concetto -   sono brutali come i nazisti,  pur restando  pasticcioni come  gli italiani.  Esageriamo? Diciamo allora, per carità di patria, di "certi" italiani...
Però, attenzione, fino a quando?

Carlo Gambescia   
        


              

mercoledì 15 agosto 2018

Il crollo di Genova
Il ponte dei piagnoni




Esiste ancora l’Italia? Come nazione moderna e faustiana, temeraria, che vuole crescere e svilupparsi?  No.  Esistono le pensioni sociali, la cassa integrazione, il divieto di licenziamento, il cosiddetto “accompagno”, la sanità pubblica: in una parola l’assistenzialismo, sempre però, stando ai lamenti di cittadini scontenti per principio, inadeguato, imperfetto,  eccetera, eccetera.   Insomma, c'è sempre qualcosa che non va.      
Se  esiste ancora l’Italia, allora  è un  paese per e di vecchi, dentro (quindi anche i giovani): un "lamentatoio".  Quasi ogni italiano ha sempre qualcosa da rivendicare, lamentando per l’appunto qualche ingiustizia subita o meno.  Il sovranismo, ora così in voga,   rispetto al vecchio nazionalismo, che  giocava con i fucili, gioca con i pannolini, anche considerata l’età media degli italiani, a  carico dell’assistenza pubblica, ovviamente. Una dottrina pseudo-politica, ripetiamo,  per vecchi tremolanti. Sempre dentro.
Quando poi, come ieri,  crolla un ponte,  non un terremoto catastrofico ( come in Irpinia, ad esempio, tremila morti, intere aree abitate distrutte), i mass media e i politici, che conoscono i propri  polli (gli italiani), si comportano, come quei genitori che danno sempre  ragione per principio  ai figli, piccoli e viziati, quando si lamentano,  piangendo e strepitando.  Sicché abbiamo assistito alla solita accanita  ricerca del capro espiatorio.  Oggi sulle prime pagine si sprecano i  "Vergogna" e   "Non doveva succedere".  Insomma, il ponte dei piagnoni.
E se il crollo fosse dovuto al caso?  Si pensi al bel romanzo di Thornton Wilder…    Tacere, almeno nelle prime ore? Nei primi giorni?   Assumendo un atteggiamento più cauto? No?  Inutile qui  riportare  le dichiarazioni di questo o di quel politico  all’insegna del noi tireremo dritto.  Perciò, nelle  prossime settimane  ne vedremo delle belle ( o brutte).  Quanto alle stupidaggini,   c’è già chi parla di Piano Marshall per ricostruire tutti i ponti d’Italia. A spese di chi?  E con che soldi, dal  momento che da noi  privato è brutto?
E intanto, tutti a piangere, davanti a un bella fetta d’anguria. Perché poi, dispiace dirlo, ma gli italiani degli anni Duemila sono fatti così.  La severità vale solo per gli altri.  Ognuno ha la  sua scusa. E si assolve  da sé.    
A dire il vero,  non siamo stati sempre  così.  In qualche misura, e l’argomento meriterebbe il suo storiografo,  l’Italia del piagnisteo risale alla  welfarizzazione cattolica e  social-comunista dello stato, iniziata negli anni Sessanta, dei servizi gratis per tutti.  Cosa impossibile da  ottenere e difendere, perfino in Svezia.     
C’è una bella copertina della “Domenica del Corriere”  che celebra proprio la  modernità  faustiana del  ponte crollato ieri: un capolavoro di ingegneristica. Al governo c’erano già i socialisti pungolati dai comunisti e blanditi dai democristiani di sinistra.  Diciamo  che  negli anni Sessanta gli italiani piangevano, ma con un occhio solo. Il Paese ancora c'era.  E Faust pure. 
Oggi, quella copertina sembra appartenere a un altro mondo... 

Carlo Gambescia