mercoledì 30 giugno 2010

A proposito di “poteri forti”


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Oggi la Commissione Ue presenterà le prime proposte per dare corpo alla riforma del “patto di stabilità” per renderlo più rigido e restrittivo nei criteri di gestione della spesa pubblica.
Invece di favorire corpose politiche pubbliche di rilancio dell'occupazione e degli investimenti, l’ Europa politica mostra di subire la severa linea monetarista della Banca Centrale Europea. L’economia, in particolare quella bancaria, pare perciò vincere ancora una volta su una politica che sceglie di piegarsi alle decisioni di Trichet e dei “poteri forti” che secondo alcuni sarebbero dietro il Presidente della BCE. In effetti, l'Europa politica sembra ben lontana dall'adottare l' idea, suggerita da qualcuno e invisa al banchiere francese, di tassare le transazioni borsistiche allo scoperto e di riflesso gli operatori creditizi e finanziari che le favoriscono.
Certo, a questo punto sarebbe molto facile parlare, in termini retorici, di "poteri forti che vogliono affamare i popoli”, eccetera, eccetera. In realtà, i poteri economici sono forti perché sono deboli quelli politici. Lo scambio sociale nelle democrazie è basato sulla competizione tra i diversi gruppi di pressione, di regola economici (bancari, industriali, sindacali). Naturalmente, si tratta di una competizione "regolata" in funzione dell' interesse generale, rappresentato appunto dalla politica. Perciò se l' "attore politico" invece di temperare si ritrae o resta a guardare, ecco, che l’economia “senza se e senza ma” torna a comandare.
Pertanto la vera questione del momento è quali strategie " politiche" seguire per garantire un nuovo equilibrio tra i diversi gruppi di pressione . Ovviamente nella democrazia. E non tornando all'Età della Pietra o a quella del socialismo reale.
Concludendo non esistono “poteri forti” in quanto tali, ma poteri che competono e sul cui equilibrio l’ultima parola spetta sempre al "potere" politico. L’Europa negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, dagli alti tassi di sviluppo, conobbe un grande progresso civile, sociale ed economico, proprio perché la politica riuscì a garantire, nella democrazia, rappresentativa e liberale, il giusto equilibrio tra i diversi gruppi di pressione.
E a quell’equilibrio, prima o poi, si dovrà tornare. Favoleggiare sugli "incappucciati" e sui "poteri forti" che avrebbero sempre dominato, con le loro trame, tutta la storia del capitalismo, vuol dire non capire nulla di sociologia e storia comparata dei sistemi economici. E soprattutto significa non amare la libertà, quella vera (o che comunque si avvicina...). Ma credere nelle favole dei decrescisti e dei nostalgici delle più disperate ideologie.
Ma soprattutto significa non riuscire a spiegare una cosa molto banale. Quale? Le vere ragioni del perché i nostri nonni erano costretti ad andare in giro scalzi, e magari fino in America, mentre noi di scarpe ne abbiamo anche troppe e negli States andiamo in vacanza… Ora, di sicuro, libertà non è comprare un paio di scarpe. Ma essere messi nella condizione di poterle comprare. Insomma, di poter scegliere liberamente.
Anche di andare in giro a piedi nudi...


Carlo Gambescia

martedì 29 giugno 2010

Piccole apocalissi  (annunciate)
Roma senza Papa


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Chiesa Cattolica sotto attacco? Diciamo che è abituata... Perché è sotto assedio almeno dal 1789. Perciò quel che è accaduto in Belgio - punta di iceberg di un' offensiva mediatica e giudiziaria contro i “preti pedofili” - è quasi “routine”.
Riuscirà la Chiesa a resistere anche questa volta? Forse sì. Ma solo se saprà puntare - se ci si passa l’espressione da broker - su una politica della domanda…
Ma procediamo per gradi.

Quel che da due secoli il mondo laicista cerca di imporre alla Chiesa è di restringere la sua attività alla “politica dell’offerta". Si vuole un cattolicesimo che si occupi esclusivamente delle anime, ma attenzione: a richiesta dei singoli… Come in una specie di centro commerciale globalizzato dove la "Boutique-Chiesa", finalmente normalizzata, offra beni e servizi spirituali solo ai consumatori affezionati.
Ma il vero problema è che la Chiesa - proprio oggi si celebrano i Santi Pietro e Paolo - è l’evangelizzazione stessa per eccellenza: la Chiesa è “la” politica della domanda per Dna. Perché istituzionalmente tesa ad allargare i suoi "mercati", facendo crescere con saggi investimenti pubblici - l’evangelizzazione - "la domanda di fede". Insomma, una Chiesa senza missionari sarebbe inconcepibile. Pertanto - proseguendo nella metafora economica - il cattolicesimo romano non può limitarsi a una pura politica dell’offerta, perché per Dna è keynesiano. Detto altrimenti: la Chiesa è da sempre portata a sostenere in modo diretto la "domanda dei consumatori di fede"... E come? Ripetiamo, evangelizzando sulla base di un capitale di investimento ideale accumulato in duemila anni. Perché evangelizzazione significa accettare coraggiosamente la sfida del "mercati della fede", dicendo e facendo cose sgradite agli oligopoli laicisti. Non per niente, qual è stata la riposta di Papa Benedetto XVI alle ultime difficili sfide? Istituire un dicastero per “promuovere una rinnovata evangelizzazione nei Paesi dell'Occidente”: politica della domanda. Proprio quel che il mondo laicista teme di più. Pertanto il Papa sembra aver capito perfettamente i termini della questione. E ha subito risposto per le rime. Per ora.
Perché “per ora”? Perché resta il problema sociologico dell’ "istituzione-chiesa". Una questione molto seria, legata alla selezione delle sue élite, alla coesione morale interna, allo spirito di disciplina, alla disponibilità di risorse economiche. E soprattutto alle capacità strategiche e di comando dei successori di Pietro. E... principalmente di Paolo, l'evangelizzatore per eccellenza, da sempre inviso a tutti i nemici del cristianesimo.
C’è un intrigante romanzo di Guido Morselli, Roma senza Papa, pubblicato nel 1974, dove si immagina una Città Eterna affollatissima, piuttosto che di fedeli, di preti cattolici e sommi teologi. I quali discutono, discutono, discutono... E in primis su come riformare “socialmente” la Chiesa. Mentre il Papa, Giovanni XXIV, uomo soave ma debole, ha trasferito la sede apostolica a Zagarolo. Dove nella più silente inazione alleva serpenti. Oltre a intrattenere rapporti d’ amore platonico con una teosofa di Bengalore…
L’ultimo cattolicesimo evocato da Morselli rinvia profeticamente - il libro fu scritto nel 1966 - a una Chiesa ripiegata sull’ offerta. Capace solo di discutere ad infinitum su come ammodernare la sua offerta di fede… Proprio quello che oggi va assolutamente evitato. Serve invece "azione": occorre una politica della domanda. La fede, come i mercati, non si accontenta di una pura politica dell'offerta. Al laissez faire che spera in miracolose rinascite, va sostituito un sistematico "intervento pubblico". La fede non rinascerà mai da sola.
Ma la Chiesa ne sarà ancora sociologicamente capace?



Carlo Gambescia
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lunedì 28 giugno 2010

L’ANSA, 
la Vapefoudation e il “meteozanzare”


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Prima la notizia.
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"Per tutto il periodo estivo l'ANSA, in collaborazione con Centimetri, pubblica una mappa, con aggiornamento settimanale, sull'allarme zanzare in Italia.
Ogni giovedì, il servizio, attraverso una infografica, descrive l'indice potenziale di infestazione da zanzare sul territorio, con indicatori su base provinciale passando per 4 livelli di allarme: 0 nullo, 1 basso, 2 medio-basso, 3 medio-alto e 4 alto.
L'aggiornamento avviene sulla base dei dati ufficiali forniti da Vapefoundation attraverso un monitoraggio sui siti già colonizzati dalla zanzara tigre".
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http://www.ansa.it/web/notizie/photostory/primopiano/2010/06/25/visualizza_new.html_1846525134.html )
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Ci sono "notizie” nascoste tra le altre che hanno un valore simbolico ed esplicativo enorme. Per quale ragione? Perché come microspie colgono e rivelano i reali meccanismi di governance politica e sociale . Ci spieghiamo subito.
In primo luogo, siamo ormai da tempo davanti alla creazione “a tavolino”, ripresa e pompata dai “media”, di un nuovo e clamoroso caso di allarme sociale: il pericolo zanzara… Per la serie - semplificando - creare l’ordine attraverso il disordine…
In secondo luogo, l’iniziativa del meteozanzare è sponsorizzata dalla Vapefoundation, dietro la quale non possono non esserci i grossi interessi dei "padroni della disinfestazione”. Siamo troppo cattivelli? Mah... Allora il lettore dia un'occhiata all'omonimo sito ( http://www.vapefoundation.org/Fondazione.aspx ) . Francamente, speriamo di sbagliarci.
In terzo luogo, se così fosse il progetto si qualificherebbe, quasi in termini da manuale, per il preoccupante mix “media-potere economico”. Che questa volta vedrebbe l’ANSA - la principale agenzia giornalistica italiana - fornire dati ricevuti dalla Vapefoundation… Per dirla in chiave semiseria, è come se l’ANSA diffondesse la “mappa" dei luoghi dove Dracula colpirà: mappa predisposta dai produttori di aglio e croci…
Buona giornata a tutti.

Carlo Gambescia

venerdì 25 giugno 2010

Slovacchia 3 - Italia 2 
Lippi e le itale genti


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Quel che è accaduto ieri dopo l’eliminazione della nazionale è l’ennesima prova di quanto le “itale genti” siano immature e irriconoscenti. Ne prenda nota pure Berlusconi, che crede di essere il più amato dagli italiani...
Innanzitutto il clima da tragedia greca, completamente fuori luogo, soprattutto di questi tempi. Ma, si sa, l’Italia è la patria del melodramma… E così giocatori piangenti, giornalisti balbettanti, piazze attonite con bandiere a mezz’asta e megaschermi spenti…
Ma per poco. Già oggi i giornali invocano Piazza Loreto. I media se potessero appenderebbero Lippi per le gambe. Dopo averlo fucilato, magari insieme all’amante… L’ “allenatore genio”, “re dello spogliatoio”, "campione del mondo", di colpo è diventato un somaro, un nemico dei giocatori, e in primis “il nemico del popolo calcistico.
Addirittura il fatto che Lippi ora si assuma, coraggiosamente, ogni responsabilità, non viene lodato come esempio di coerenza e onestà, ma giudicato in modo ferino un’ aggravante: “Vedete, noi dei giornali, avevamo ragione”… E giù col machete…
Ovviamente nel calderone del dopo sconfitta - come in altre occasioni non solo calcistiche - dietro il popolo, prima attonito poi ruggente, si cela la élite incappucciata degli invidiosi, dei mediocri, dei prezzolati, dei voltagabbana: quelli che non perdonano all’altro intelligenza, successo e neppure insuccesso… E che appena il vento cambia cercano subito di ricavare un profitto personale, cambiando in corsa padrone…


Una brutta Italia. Sicuramente più brutta di quella che ha perso tre a due con la Slovacchia.

Carlo Gambescia

giovedì 24 giugno 2010

Le riviste della settimana: “Krisis”, La Guerre? n. 33, avril 2010, pp. 258. euro 23,00 - "Krisis“, La Guerre? /2, n. 34, juin 2010, pp. 294, euro 25,00; "Empresas Políticas", fascicolo su Gaston Bouthoul, n. 13, 2° semestre 2009, pp. 184 euro 16,00. 

http://www.alaindebenoist.com/pages/krisis.php                                                 http://www.sepremu.es/index.php                                                                          

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Non c’è che dire, “Krisis”, rivista diretta da Alain de Benoist, vizia i suoi lettori: ogni nuovo fascicolo supera per qualità il precedente. Non vanno perciò perduti gli ultimi due numeri dedicati alla guerra.
Nel primo (La Guerre?, “Krisis” n. 33, avril 2010, pp. 258. euro 23,00 ), si affronta il fenomeno in chiave teorica. Vanno ricordati, tra gli altri, i contributi di Jean Haudry (La guerre dans le monde indo-européen préistorique), Alain de Benoist (Le héros et les “péches du guerrier” e Violence sacrée guerre et monothéisme), Gabrielle Slomp (Cinq arguments de Carl Schmitt contre l’idée de “guerre juste”), Costanzo Preve (La lutte des classes: une guerre des classes?). Seguono alcuni testi classici in argomento di Julien Freund, Ludwig Gumplowicz, Gaston Bouthoul e Carl von Clausewitz.
Nel secondo fascicolo (“La Guerre? /2, “Krisis, n. 34, juin 2010, pp. 294, euro 25), oltre a fornire ulteriori approfondimenti teorici, come ad esempio nell’ ottimo contributo in apertura di Hervé Coutau-Bégarie (A quoi sert la guerre?), l’analisi entra nel vivo delle questioni internazionali. E qui, tra gli altri, vanno segnalati i saggi di Alain de Benoist (Le retour de la France dans l’OTAN), Georges-Henri Bricet des Vallons (Privatisation et mercenarisation de la guerre. La révolution de la “génétique” des forces armées américaines), Jean-Claude Paye (Un épisode de la “guerre contre le terrorisme”: les échanges financiers sous surveillance impériale).
In definitiva lo scopo che si propongono i due fascicoli è di studiare scientificamente la guerra al fine di mitigarne gli effetti distruttivi. Si parte perciò da un preciso presupposto, sicuramente non pacifista, ma neppure “guerrafondaio” : che la guerra sia una forma specifica di controversia socio-politica e che “pace” significhi solo assenza di guerra. Di qui l’importanza dell’antico detto, ben compreso da Romani, si vis pacem, para bellum ("se vuoi la pace, prepara la guerra"): perché pace e guerra sono eventi collegati e ricorrenti, stante la natura “pericolosa” dell’uomo. Il che implica la necessità di “pensare la guerra”, ossia di considerarla un’eventualità sempre incombente e alla quale prepararsi.
Abbiamo già accennato a Gaston Bouthoul (1896-1980), insigne sociologo e fondatore nel 1945 dell’ “Institut Français de Polémologie” (dal greco pólemos, guerra, ). Ora, l’importante rivista spagnola di politologia “Empresas Políticas”, diretta da Jerónimo Molína, professore di Politica Sociale presso l’Università della Murcia, ha dedicato oltre metà del suo ultimo fascicolo al grande polemologo francese, oggi quasi dimenticato ( n. 13, 2° semestre 2009, pp. 184 euro 16,00 ). Fra i contributi, tutti notevoli, ricordiamo quelli di Piet Tommissen (En torno alla polemología), Myriam Klinger (La revista “Études Polémologiques” 1971-1990), Vincent Porteret (El “Tratado de polemología” de Gaston Bouthoul y el análisis sociológico de las guerras), Julien Freund (La obra de Gaston Bouthoul), Utilissima, infine, l’impeccabile bio-bibliografia curata da Jerónimo Molína.
A Gaston Bouthoul si deve infatti una sociologia della guerra, capace di analizzare l’evento bellico come “fatto sociale totale”. Ossia quale evento psicologico, biologico e culturale, secondo la lezione di Tarde, Worms e Mauss. In questo senso, per Bouthoul la guerra è espressione della società (come plurale insieme di forze) e non della politica (quale esito della “decisione” di “fare” la guerra), come invece ritiene la “sacra” triade Clausewitz-Freund-Schmitt.
Siamo perciò davanti a un bellissimo confronto tra Bouthoul e tre “luminari” della guerra. Quel che però li unisce è la capacità di “pensare” la guerra senza demonizzarla. Del resto la guerra, per parafrasare un famoso detto, è una cosa troppo seria per lasciarla nelle mani dei pacifisti…

Carlo Gambescia

mercoledì 23 giugno 2010

Fini, Bossi e Renan




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Come valutare la polemica Fini-Bossi sull’esistenza della "Padania"? E’ fondato dire che una nazione esiste, un’altra no ?
Saltiamo a piè pari la questione della definizione giuspubblicistica di nazione, dando per scontato che “tutte” le entità nazionali, incluse quelle costituite dai popoli che aspirano all’indipendenza, costruiscono “artificialmente” la propria tradizione. Ciò significa che sotto l’aspetto sociologico la nazione è una costruzione o "invenzione" socioculturale che, in ultima istanza, si regge sulla forza. Perciò sotto profilo "culturale" Italia e “Padania” pari sono… Di conseguenza la differenza consiste nel fatto che l’Italia può contare su carabinieri, forze di polizia, esercito, guardia di finanza, giudici, mentre la “Padania no. Tutto il resto è pura retorica politica.
Naturalmente questa è solo una parte della storia. Perché il potere della nazione, come ogni forma di potere, si regge non solo sulla forza ma anche sul consenso. A ricordarlo è la famosa definizione di Ernest Renan (nella foto) : “La nazione - scriveva lo storico francese - è un “plebiscito quotidiano”. Nel senso che ‘l’appartenenza” alla nazione non è mai data una volta per sempre, ma rinasce ogni giorno, innervando i comportamenti dei cittadini e dei governanti. In che modo? Attraverso l’instaurazione di un circuito virtuoso tra cittadino e istituzioni, basato in senso lato sullo scambio protezione/obbedienza. Pertanto l’appartenenza è un rapporto fiduciario fondato sulla costruzione sociale di una tradizione, ma anche sulla condivisione dei valori nazionali. Una "comunione" che, per quanto "inventata" e "astratta" nei suoi valori culturali, deve però riprodursi “quotidianamente”, e "in concreto", soprattutto grazie al buon governo delle istituzioni. Per farla breve: quanto più una nazione “funziona” nelle sue istituzioni, tanto più i cittadini "votano quotidianamente" in favore dell’appartenenza.
Ora, Fini, che secondo alcuni osservatori sta facendo del suo meglio per far cadere il Governo Berlusconi, dovrebbe invece interrogarsi, non tanto sull’esistenza o meno della Padania, quanto su quel che lui, come uomo di governo, abbia eventualmente fatto e faccia per rafforzare il circuito virtuoso del senso di appartenenza all’Italia di coloro che vivono oltre la linea del Po.
Di sicuro, il "montare" polemiche un giorno sì e l'altro pure non aiuta i "padani" a "tornare" in Italia. 



martedì 22 giugno 2010

Figli di un abusivismo minore



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Proprio ieri due emendamenti di provenienza Pdl sembravano annunciare la riapertura dei termini per il condono fiscale e per quello edilizio. Ma, in entrambi i casi, un' immediata e ferma (?) presa di posizione del Governo ha escluso che le due proposte possano trovare un appoggio da parte dell'esecutivo e della maggioranza.
Insomma, condono sì, condono no? Sembra il ritornello della “Terra dei Cachi” di Elio e le Storie Tese. Un pezzo che, guarda caso, iniziava così: “Parcheggi abusivi, applausi abusivi, villette abusive, abusi sessuali abusivi; tanta voglia di ricominciare abusiva…”.
Anche perché Berlusconi, il gaudente, nicchia, mentre Tremonti, il duro, lo esclude. Ma forse è il caso di fare un passo indietro, perché qui non è solo questione di “emendamenti ritirati”…
Il “Piano Casa” (marzo 2009) per rilanciare il settore edilizio, caro al Cavaliere (“Sempre caro mi fu quest’ermo cemento”) e al tempo stesso andare incontro alle contorte esigenze degli abitanti del Paese dei Cachi (dove l’85 per cento vive in case di proprietà) è suddiviso in due punti: il primo dà la possibilità al singolo cittadino di effettuare interventi di ampliamento e/o ricostruzione della propria abitazione. Il secondo, riguarda la semplificazione delle procedure burocratiche inerenti lavori di edilizia.

Il primo punto, per ora, è sfociato in un’ intesa con le Regioni, per cui queste ultime si impegnano ad approvare proprie leggi in materia urbanistica, contenenti eventuali aumenti di volumetria e/o la possibilità di demolizione e ricostruzione.
Il secondo punto, per il momento, è culminato in un decreto legge di semplificazione approntato dal Governo, sul quale però non c’è ancora piena intesa tra Governo e Regioni. Comunque sia, nel piano nel suo complesso, non si parlava di sanatorie.
Dopo di che è giunto Tremonti, armato di forbici, a fornire un alibi alle Regioni. Che “poverine” si sono subito “attaccate” al fatto che senza l’assoluta certezza di ricevere i trasferimenti finanziari promessi, il Piano casa non può partire, se non aumentando le tasse o facendo i condoni edilizi… Ovviamente, le Regioni governate dal centrosinistra, vittime del solito riflesso condizionato da socialismo reale, hanno definito qualsiasi sanatoria come una manna per le ville dei ricchi. Il che non è vero, perché 2 italiani su 3 sono proprietari di almeno un immobile, e 1 su 3 ha commesso un abuso edilizio (nel Sud 2 su 3). Insomma, i “figli di un abusivismo minore” sono tanti, troppi, per poter parlare di ingiustizie sociali…
Vorremmo però sapere qualcosa di più su un’altra iniziativa in materia, annunciata all’inizio di giugno da alcuni senatori del Pdl circa un possibile condono edilizio per “i mini-abusi": quelli, come si dice con furbo pietismo, commessi per “necessità”. Che fine ha fatto? Parliamo di una "leggina" che Carlo Sarro, senatore PdL, presentava, nella speranza di indorare la pillola, come “una soluzione agli abusi commessi per necessità. Tipo: allargo la casa di 50 metri per avere una stanza in più per i figli”. Ed escludendo “ chi fa abusi speculativi e si costruisce un palazzo di 60 piani”. Ripetiamo la domanda: che fine ha fatto la "minisanatoria" di Sarro & Company?
In proposito va ricordata anche la reazione spropositata di Angelo Bonelli, ayatollah, pardon, Presidente nazionale dei Verdi e Capogruppo del Sole che Ride alla Regione Lazio. Il quale liquida tutte le precedenti sanatorie come “prova provata che il condono è di per sé un atto criminogeno che non solo legalizza reati gravi, ma porta con sé atti e comportamenti che attentano all’ambiente, ledono l’interesse di tutti i cittadini e della Pubblica amministrazione”. “Da anni - prosegue - noi Verdi denunciamo i rischi legati al condono, come quelli di ottenere in via preventiva una sanatoria edilizia per un abuso commesso successivamente”. Bonelli chiede perciò “l’ immediata demolizione da parte del Comune di Roma di questi abusi perché è necessario dare un segnale forte”.
Oddìo, il taglio della mano destra, solo per una finestrella del bagno in più, forse è troppo…
Battute a parte. Bonelli spara a palle incatenate. Ma, in effetti, un’altra sanatoria, ammesso pure che sia solo per i "mini-abusi", non è sicuramente un segno di trasparenza. O no? 

Carlo Gambescia

lunedì 21 giugno 2010

Proposte anticorruzione
Perché non separare le carriere dei manager?





Oggi le prime pagine dei giornali aprono con due notizie: le indagini sul cardinale Crescenzio Sepe accusato di corruzione nell’ambito dell’inchiesta sugli appalti alla “cricca” e la deludente prova della nazionale di calcio con la Nuova Zelanda.
Si potrebbe perciò pensare: "Ecco l’Italia! Calcio e scandali e talvolta anche scandali calcistici". In realtà basta ripercorrere la storia unitaria per scoprire che la corruzione non è un’ invenzione dei nostri anni Novanta.
Ma allora l’Italia è il paese più corrotto in Europa? Difficile rispondere, perché non esistono statiche sicure al riguardo. Alcuni sostengono che la differenza è proprio nella società civile. Quanto più è libera, moderna, secolare e distante dalla politica, tanto più un paese riesce a contenere i “livelli” di corruzione entro limiti fisiologici. E l'Italia a modernità sarebbe messa piuttosto male...

Si tratta di un’ipotesi interessante ma difficilmente verificabile. La Gran Bretagna e gli stessi Stati Uniti, di solito celebrati come perfetti esempi di modernità civile, non sono affatto indenni dalla piaga della corruzione.
Allora, tutto il mondo è paese? No. Diciamo che un inizio di spiegazione (sociologica) può essere rappresentato dall’ampiezza della cosiddetta "area grigia", dove si intersecano moralmente ed economicamente poteri pubblici e privati. Sappiamo che la cosa potrà dispiacere a molti - compreso chi scrive - ma alcune indagini mostrano che le economie miste a forte predominio del pubblico sul privato - e in questo Italia e Francia hanno fatto scuola - sono soggette ad alti "tassi di corruttività". O comunque sia, sono più a rischio di altre.
Con questo non si vuole sostenere il contrario, ossia che l’economie private siano virtuose. Anzi, come alcuni rilevano il rischio corruzione aumenta quando si passa di colpo dal pubblico al privato - insomma, dove si privatizza - perché la promiscuità persiste: l' “area grigia” non sparisce con un colpo di bacchetta magica. Resta invece lì, con il suo pesante bagaglio di possibili complicità tra ex funzionari pubblici “privatizzati e nuovi manager privati in precedenza pubblici, o addirittura ministri. Parliamo di una persistenza, come dire relazionale-morale e ambientale (in consigli di ammnistrazione, commissioni di studio e controllo, gare di appalti, eccetera) che di regola rischia di favorire tassi di corruzione ancora più elevati, rispetto a quelli dell’economia mista.
Diciamo questo, solo per sottolineare la complessità sociologica della questione.
Forse - la buttiamo lì - andrebbero separate le carriere: un manager pubblico potrebbe essere obbligato a restare, manager pubblico a vita. Un manager privato, manager privato per sempre. E così via…
Troppo rigidi? Comunque sia, ci assale un dubbio. Quanto può essere credibile proporre una soluzione del genere, in un paese dove il più grande imprenditore televisivo privato è diventato Presidente del Consiglio?


venerdì 18 giugno 2010

Todos libertari?

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La felicità? Un’idea nuova in Europa…


Todos libertari? Pare proprio di sì. E per scoprirlo basta seguire qualsiasi dibattito mediatico, dove ogni misura politica è sempre presentata come apportatrice di maggiore libertà… Probabilmente il libertarismo, nel bene e nel male, è il principale lascito politico del Sessantotto. Si pensi solo alla questione del testamento biologico, che alcuni vorrebbero trasformare in una specie di diritto civile alla “buona morte”. Saremmo perciò addirittura davanti a un nuovo diritto soggettivo civile, magnificato dal politicamente corretto post-sessantottino, spesso sconfinante a destra, come prolungamento di quel diritto a “realizzarsi”, osannato da un pensatore come Marcuse, eletto più di quarant’anni fa a profeta della contestazione.
Ovviamente, si può andare ancora più indietro. Fino al sacro diritto alla felicità, sancito dai rivoluzionari francesi, frutto, per alcuni avvelenato, del clima culturale illuministico, Durante il Terrore, mentre le teste ancora cadevano, Saint-Just - un Di Pietro più acculturato e dalla ghigliottina facile - dichiarò molto soddisfatto che “la felicità era un’idea nuova in Europa”…
Questo per dire che il pensiero politico e sociale otto-novecentesco, facendo precedere i diritti del singolo a quelli della comunità, ha radici profondamente libertarie. Il Sessantotto e la cultura successiva hanno semplicemente portato alle estreme conseguenze il principio di felicità e autorealizzazione.
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I sei libertarismi
Quindi, per venire alle definizioni, un pensiero è libertario se antepone l’individuo al gruppo: quando al massimo dell’ordine senza la libertà, preferisce il massimo del disordine con la libertà.
Semplificando al massimo, possiamo ridurre a sei i tipi di libertarismo.
C’è il libertarismo neoliberista, o "miniarchico", che vede nello stato un' istituzione che va ridotta ai minimi termini, per lasciare spazio al mercato. Per il libertarismo "miniarchico", lo stato può fornire, in condizioni di monopolio, soltanto protezione dalle minacce interne ed esterne ; c’è il libertarismo anarco-capitalista che oltre a negare lo stato, vuole mandarlo in pensione, affidando la fornitura della protezione ad agenzie private; c'è il libertarismo anarchico puro e semplice, che vuole distruggere lo stato con metodi violenti; c’è il libertarismo marxista, che condivide con quello anarchico, l'idea di costringere l’uomo a essere libero, anche “a mazzate”; c’è il libertarismo conservatore, antidemocratico, targato destra, che vuole il massimo di libertà, ma solo per un pugno di anime belle; c’è infine il libertarismo cattolico, che, come quello anarco-liberale, scorge nello stato un nemico, ma invece di opporgli il mercato o le “mazzate”, porge l’altra guancia, sventolando la cambiale in bianco di una libertà fondata sulla legge divina. Ad eccezione dei cattocomunisti, che dai "libertari" comunisti hanno invece entusiasticamente derivato l'idea che l'uomo deve essere libero, almeno nell'al di qua, anche a mazzate....

Una precisazione: i libertarismi conservatore e cattolico, non hanno basi illuministiche. Quello conservatore può essere ricondotto a una visione aristocratica, per alcuni razzista, della storia umana. Mentre quello cattolico a una concezione teologica, ultraterrena.
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Tra il dire e il fare…
Però sul piano pratico le sei categorie sembrano confondersi. E per una ragione banale: gli uomini, quelli in carne e ossa, alla libertà spesso preferiscono la sicurezza. Di qui quel mix di libertarismo e assistenzialismo che sembra governare di fatto la nostra società: per un verso lo stato, per ragioni di consenso, si sforza di accontentare tutti, recependo qualsiasi diritto individuale, fino a quello della buona morte; per l’altro però, così facendo, moltiplica leggi e burocrazie: a un tempo libera e intralcia le persone. Insomma, todos libertari, ma a caro prezzo.
Un piccolo esempio. Il professor Veronesi ha sostenuto. che il “diritto di morire”, scegliendo il come e il quando, fa “parte del corpus fondamentale dei diritti individuali” come “il diritto di formarsi o non formarsi una famiglia, il diritto alle cure mediche, il diritto a una giustizia uguale per tutti, il diritto all'istruzione, il diritto al lavoro, il diritto alla procreazione responsabile, il diritto all’esercizio di voto, il diritto di scegliere il proprio domicilio” (Il diritto di morire, Mondadori 2005)
Ora, sul piano “logico-ideologico” Veronesi ha ragione: una volta stabilita la preminenza, appunto logica (il singolo uomo come “premessa logico-argomentativa”) e ideologica dell’individuo (il singolo uomo come punto di “partenza” e di “arrivo” di qualsiasi processo storico), la libertà di scelta e azione dell’uomo, come singolo, deve essere totale.
Resta però un problema, che abbiamo più volte sollevato : come può essere articolato socialmente il “diritto di morire”? Attraverso apposite commissioni mediche, di “specialisti”, che decideranno quando e come “soddisfare” le “richieste” dei singoli? E su quali parametri? E in quali strutture? Non sussiste forse il rischio di commettere ingiustizie e abusi, una volta che a occuparsi di questo problema saranno le stesse burocrazie mediche e politiche che già ora non riescono a gestire in modo efficiente i nostri ospedali.
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La "cultura del piagnisteo"

Ripetiamo: quel che può tornare sul piano logico e ideologico, purtroppo può non tornare su quello pratico e sociologico. Le idee vanno sempre rapportate a una realtà concreta. E, purtroppo, l’astratta cultura post-sessantottina dei diritti si è solo mostrata capace di far sorgere, per dirla con Robert Hughes, una “cultura del piagnisteo”, dove tutti hanno diritto a tutto. Basta solo piagnucolare (dai proprietari di criceti a quelli di una seconda casa…) perché i poteri pubblici subito legiferino a manetta. Ovviamente, tutti possono piangere calde lacrime, eccetto che gli operai, soprattutto se metalmeccanici. Ma questa è un’altra storia…
Riassumendo: il libertarismo in pratica non funziona, o funziona sola a metà, generando come è avvenuto, un libertarismo assistito di massa.
Inoltre, la tanto celebrata alternativa anarco-capitalista al libertarismo assistito o piagnone è sicuramente irrealizzabile, quasi quanto quella proposta dal libertarismo anarchico. Nel senso che, come ogni integralista, l’anarco-liberale si batte per il puro ritorno dell’uomo allo stato brado. Una pura utopia.



Conclusioni. Non esiste felicità intelligente
La conseguenza più importante del todos libertari è che oggi ogni questione politica finisce per restringersi al conflitto tra anarco-capitalismo e libertarismo neoliberista ("miniarchico") da una parte, e libertarismo assistito dall'altro. Si pensi al sindacato che, a prescindere dalla sigla di riferimento, sembra occuparsi più dei diritti civili che della difesa dei posti di lavoro. Come nel caso della “difesa del consumatore”, vecchia battaglia dei libertarismi anarco-capitalista e neoliberista , oggi abbracciata con entusiasmo anche dal sindacato piagnone.
Quali soluzioni? Difficile dire. Il valore della libertà individuale, non ha solo radici illuministiche ma anche greche, romane e cristiane. E quindi ha una lunga storia dietro di sé . Fatta anche di contrapposizioni tra libertà politiche, civili, religiose ed economiche. Che ovviamente non possiamo qui ricostruire.
Crediamo però che il vero problema sia quello dell’ articolazione concreta della libertà. La cui soluzione impone, tuttavia, un cammino difficile, se non impossibile: come andare oltre il libertarismo assistito, senza però cadere nella tagliola del libertarismo neoliberista ("miniarchico") e anarco-liberale? Respingendo, ovviamente, qualsiasi disastrosa scorciatoia totalitaria...
Un’autentica quadratura del cerchio. Perché si dovrebbe rinunciare ad essere felici… Principio buono, forse, per le sole anime belle. Ma, come spiegarlo ai miliardi di libertari assistiti , affamati al tempo stesso di libertà e sicurezza a buon mercato? Anche perché, come ben sapeva Jean Rostand, non esiste felicità intelligente.



Carlo Gambescia



Todos libertari?
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La felicità? Un’idea nuova in Europa…
Todos libertari? Pare proprio di sì. E per scoprirlo basta seguire qualsiasi dibattito mediatico, dove ogni misura politica è sempre presentata come apportatrice di maggiore libertà… Probabilmente il libertarismo, nel bene e nel male, è il principale lascito politico del Sessantotto. Si pensi solo alla questione del testamento biologico, che alcuni vorrebbero trasformare in una specie di diritto civile alla “buona morte”. Saremmo perciò addirittura davanti a un nuovo diritto soggettivo civile, magnificato dal politicamente corretto post-sessantottino, spesso sconfinante a destra, come prolungamento di quel diritto a “realizzarsi”, osannato da un pensatore come Marcuse, eletto più di quarant’anni fa a profeta della contestazione.
Ovviamente, si può andare ancora più indietro. Fino al sacro diritto alla felicità, sancito dai rivoluzionari francesi, frutto, per alcuni avvelenato, del clima culturale illuministico, Durante il Terrore, mentre le teste ancora cadevano, Saint-Just - un Di Pietro più acculturato e dalla ghigliottina facile - dichiarò molto soddisfatto che “la felicità era un’idea nuova in Europa”…
Questo per dire che il pensiero politico e sociale otto-novecentesco, facendo precedere i diritti del singolo a quelli della comunità, ha radici profondamente libertarie. Il Sessantotto e la cultura successiva hanno semplicemente portato alle estreme conseguenze il principio di felicità e autorealizzazione.
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I sei libertarismi
Quindi, per venire alle definizioni, un pensiero è libertario se antepone l’individuo al gruppo: quando al massimo dell’ordine senza la libertà, preferisce il massimo del disordine con la libertà.
Semplificando al massimo, possiamo ridurre a sei i tipi di libertarismo.
C’è il libertarismo neoliberista, o "miniarchico", che vede nello stato un' istituzione che va ridotta ai minimi termini, per lasciare spazio al mercato. Per il libertarismo "miniarchico", lo stato può fornire, in condizioni di monopolio, soltanto protezione dalle minacce interne ed esterne ; c’è il libertarismo anarco-capitalista che oltre a negare lo stato, vuole mandarlo in pensione, affidando la fornitura della protezione ad agenzie private; c'è il libertarismo anarchico puro e semplice, che vuole distruggere lo stato con metodi violenti; c’è il libertarismo marxista, che condivide con quello anarchico, l'idea di costringere l’uomo a essere libero, anche “a mazzate”; c’è il libertarismo conservatore, antidemocratico, targato destra, che vuole il massimo di libertà, ma solo per un pugno di anime belle; c’è infine il libertarismo cattolico, che, come quello anarco-liberale, scorge nello stato un nemico, ma invece di opporgli il mercato o le “mazzate”, porge l’altra guancia, sventolando la cambiale in bianco di una libertà fondata sulla legge divina. Ad eccezione dei cattocomunisti, che dai "libertari" comunisti hanno invece entusiasticamente derivato l'idea che l'uomo deve essere libero, almeno nell'al di qua, anche a mazzate...
Una precisazione: i libertarismi conservatore e cattolico, non hanno basi illuministiche. Quello conservatore può essere ricondotto a una visione aristocratica, per alcuni razzista, della storia umana. Mentre quello cattolico a una concezione teologica, ultraterrena.

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Tra il dire e il fare…
Però sul piano pratico le sei categorie sembrano confondersi. E per una ragione banale: gli uomini, quelli in carne e ossa, alla libertà spesso preferiscono la sicurezza. Di qui quel mix di libertarismo e assistenzialismo che sembra governare di fatto la nostra società: per un verso lo stato, per ragioni di consenso, si sforza di accontentare tutti, recependo qualsiasi diritto individuale, fino a quello della buona morte; per l’altro però, così facendo, moltiplica leggi e burocrazie: a un tempo libera e intralcia le persone. Insomma, todos libertari, ma a caro prezzo.
Un piccolo esempio. Il professor Veronesi ha sostenuto. che il “diritto di morire”, scegliendo il come e il quando, fa “parte del corpus fondamentale dei diritti individuali” come “il diritto di formarsi o non formarsi una famiglia, il diritto alle cure mediche, il diritto a una giustizia uguale per tutti, il diritto all'istruzione, il diritto al lavoro, il diritto alla procreazione responsabile, il diritto all’esercizio di voto, il diritto di scegliere il proprio domicilio” (Il diritto di morire, Mondadori 2005)
Ora, sul piano “logico-ideologico” Veronesi ha ragione: una volta stabilita la preminenza, appunto logica (il singolo uomo come “premessa logico-argomentativa”) e ideologica dell’individuo (il singolo uomo come punto di “partenza” e di “arrivo” di qualsiasi processo storico), la libertà di scelta e azione dell’uomo, come singolo, deve essere totale.
Resta però un problema, che abbiamo più volte sollevato : come può essere articolato socialmente il “diritto di morire”? Attraverso apposite commissioni mediche, di “specialisti”, che decideranno quando e come “soddisfare” le “richieste” dei singoli? E su quali parametri? E in quali strutture? Non sussiste forse il rischio di commettere ingiustizie e abusi, una volta che a occuparsi di questo problema saranno le stesse burocrazie mediche e politiche che già ora non riescono a gestire in modo efficiente i nostri ospedali.
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La "cultura del piagnisteo"
Ripetiamo: quel che può tornare sul piano logico e ideologico, purtroppo può non tornare su quello pratico e sociologico. Le idee vanno sempre rapportate a una realtà concreta. E, purtroppo, l’astratta cultura post-sessantottina dei diritti si è solo mostrata capace di far sorgere, per dirla con Robert Hughes, una “cultura del piagnisteo”, dove tutti hanno diritto a tutto. Basta solo piagnucolare (dai proprietari di criceti a quelli di una seconda casa…) perché i poteri pubblici subito legiferino a manetta. Ovviamente, tutti possono piangere calde lacrime, eccetto che gli operai, soprattutto se metalmeccanici. Ma questa è un’altra storia…
Riassumendo: il libertarismo in pratica non funziona, o funziona sola a metà, generando come è avvenuto, un libertarismo assistito di massa.
Inoltre, la tanto celebrata alternativa anarco-capitalista al libertarismo assistito o piagnone è sicuramente irrealizzabile, quasi quanto quella proposta dal libertarismo anarchico. Nel senso che, come ogni integralista, l’anarco-liberale si batte per il puro ritorno dell’uomo allo stato brado. Una pura utopia.



Conclusioni. Non esiste felicità intelligente
La conseguenza più importante del todos libertari è che oggi ogni questione politica finisce per restringersi al conflitto tra anarco-capitalismo e libertarismo neoliberista ("miniarchico") da una parte, e libertarismo assistito dall'altro. Si pensi al sindacato che, a prescindere dalla sigla di riferimento, sembra occuparsi più dei diritti civili che della difesa dei posti di lavoro. Come nel caso della “difesa del consumatore”, vecchia battaglia dei libertarismi anarco-capitalista e neoliberista , oggi abbracciata con entusiasmo anche dal sindacato piagnone.
Quali soluzioni? Difficile dire. Il valore della libertà individuale, non ha solo radici illuministiche ma anche greche, romane e cristiane. E quindi ha una lunga storia dietro di sé . Fatta anche di contrapposizioni tra libertà politiche, civili, religiose ed economiche. Che ovviamente non possiamo qui ricostruire.
Crediamo però che il vero problema sia quello dell’ articolazione concreta della libertà. La cui soluzione impone, tuttavia, un cammino difficile, se non impossibile: come andare oltre il libertarismo assistito, senza però cadere nella tagliola del libertarismo neoliberista ("miniarchico") e anarco-liberale? Respingendo, ovviamente, qualsiasi disastrosa scorciatoia totalitaria...
Un’autentica quadratura del cerchio. Perché si dovrebbe rinunciare ad essere felici… Principio buono, forse, per le sole anime belle. Ma, come spiegarlo ai miliardi di libertari assistiti , affamati al tempo stesso di libertà e sicurezza a buon mercato? Anche perché, come ben sapeva Jean Rostand, non esiste felicità intelligente.

Carlo Gambescia

giovedì 17 giugno 2010

Il libro della settimana: Stefano De Rosa, Vico precursore della nuova storia. Tre secoli di visioni geo-temporali , Edizioni Settimo Sigillo 2010, pp. 208, 8 tavole a colori fuori testo, euro 18,00. 

www.libreriaeuropa.it

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Giambattista Vico anticipatore dello strutturalismo? Di una corrente di pensiero che deifica le strutture e azzera l’uomo ? Il cui tardivo e floscio frutto è rappresentato dalla teoria della "megamacchina” di Serge Latouche? Dove, sia detto per inciso, non si capisce come possano individui, ridotti a rotismi, recuperare la libertà... Del resto sarebbe inutile interrogarsi, dal momento che lo strutturalismo considera la libertà individuale un optional: se la "struttura" (o "megamacchina") la "produce" tanto meglio, altrimenti la storia verrà comunque “fatta” dalle “strutture”, per forza propria. Di riflesso, il mutamento storico viene riassorbito all’interno di una continuità strutturale e sistemica, dove passato, presente, futuro si mescolano come nella famigerata notte hegeliana.
Si tratta di un approccio che ritroviamo regolarmente nelle varie correnti strutturaliste: dalla nuova storia di Braudel al neo-marxismo di Althusser e al neo-freudismo di Lacan; dall’ “archeologia del sapere” di Foucault all’etnologia strutturale di Claude Lévi-Strauss. E perfino nella teoria del catastrofi di René Thom basata sull’idea di un matematico “caos ordinato” .
Su questo riflettevamo leggendo l’interessante libro di Stefano De Rosa, Vico precursore della nuova storia. Tre secoli di visioni geo-temporali (Edizioni Settimo Sigillo 2010, pp. 208, 8 tavole a colori fuori testo, pp. 208, euro 18,00). Infatti l'autore, studioso di questioni socio-storiche, rivendica apertamente la natura strutturalistica del pensiero di Vico. Ma lasciamo la parola all’autore:

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“In questa ricerca si esaminano alcune influenze che gli studi vichiani hanno proiettato su due autorevoli e prestigiose scuole sconti fiche del ‘900 - le Annales e la Teoria delle catastrofi (…). Proprio il tempo, difatti - dalla lunga durata braudeliana (…) alla storia dell’immaginario e delle mentalità, centrale negli studi delle Annales e della Nouvelle histoire; dalle discontinuità di tempo spazio e forme oggetto di analisi da parte della Teoria delle catastrofi, al tempo vichiano arricchito da elementi psicologici e collettivi attraverso l’irruzione del tempo vissuto nella storia, le diverse velocità e scarti temporali propri del processo di civilizzazione dell’umanità -, costituisce l’imprescindibile fattore che accomuna studi ed esperienze metodologiche solo apparentemente distanti” .
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Riesce De Rosa a vincere la sfida? Sì. Ma a un prezzo piuttosto alto: quello dell'anacronismo. Un limite , purtroppo, sempre in agguato in tutti i lavori costruiti intorno all' ipotesi (tipicamente positivista) del "precursore" della "scienza moderna". Soprattutto quando tra il possibile "padre" e gli eventuali "figli" corrono troppi secoli... Un solo esempio: il concetto di tempo, su cui De Rosa concentra la sua pur notevole analisi delle "anticipazioni", non è l’aevum (il tempo sacro, dei chierici) ma il tempus (il tempo umano, dei laici). Quest'ultimo però è un concetto presente nella teoria della storia di Braudel e non di Vico. Di qui l'anacronismo. Perché, detto in parole povere, Vico mantiene gli occhi sempre rivolti verso il cielo, Braudel guarda solo in terra. Quindi tra i due non può esservi ponte. Vico, le "continuità-discontinuità" storiche le rimette nelle mani di Dio, Braudel in quelle degli uomini.
Purtroppo l'approccio di De Rosa ricorda quello di Giuseppe Ferrari, curatore della prima edizione completa delle opere vichiane (1836-1837) e propugnatore dell'applicazione della matematica allo studio della storia (sua è la teoria delle quattro generazioni). Il quale, da buon positivista risorgimentale, fu sul serio "pre-strutturalista" senza saperlo, soprattutto quando di se stesso, come storico e filosofo, diceva: " In traccia dell'uomo libero trovai l'uomo macchina".
Ferrari ne Gli scrittori politici italiani (1862), interpretando in chiave di temporalità profana il concetto vichiano di “storia ideale eterna” e ponendo l'accento sulle tre età consecutive (degli dei, degli eroi, degli uomini), si lasciò andare a un'osservazione per l’epoca molto acuta:
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"Una volta sottoposti [da Vico] ad una medesima legge tutti i pontefici, tutti gli imperatori; considerata ogni rivoluzione come un fenomeno spontaneo, la politica diventa arte non dell’uomo ma della natura, non è più concesso ad alcun Romolo di fare o disfare gli Stati a piacimento, e nessun Redentore può ostare oramai al corso della Storia sottratta per sempre alle metafisiche chimere del libero arbitrio” .
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Insomma, Ferrari aveva perfettamente intuito come in Vico vi fossero innegabili "germi" strutturalisti, ma pagando, come è accaduto anche a De Rosa, un prezzo piuttosto elevato: quello di oscurarne la "metafisica" ma cattolicissima filosofia della storia. O se si vuole, di scorgere qualche alberello ma non l'intera e vigorosa foresta.
Stringendo, cosa vogliamo dire? Che, pur ammettendo la massima libertà interpretativa, va preso atto che esiste un Vico, sicuramente più in sintonia con il cattolicesimo e con il concetto di aevum. E quindi distante anni luce dallo strutturalismo. Ma anche da quel prescrittivo ottimismo profano che aleggia nella rarefatta atmosfera del parigino Musée de l'Homme.
Perciò come contraltare al libro di De Rosa, consigliamo la lettura del G.B. Vico. Fenomenologia della storia, del linguaggio e dello stato (1980) di Rocco Montano. Un fine filosofo che ha saputo riportare, altrettanto dottamente, il concetto vichiano di “storia ideale eterna” nel giusto alveo della temporalità sacrale cristiana. E di conseguenza ha presentato Vico come un “critico in anticipo della sociologia e dell’ etnologia strutturaliste”. Discipline - secondo Montano - che “quando pretendano di oltrepassare il loro carattere descrittivo e statistico” rischiano di sostituirsi in chiave brutalmente naturalistica a una Provvidenza, giudicata da Vico come la vera e unica “cagione” delle cose temporali: lungo una scala che va dal tempus all'aevum, per trascendere infine in quell 'aeternum, già preannunciato e incluso nella definizione vichiana di "storia ideale eterna". Altro che la storia, sicuramente interessante, ma profana di Braudel...
Concludendo, Vico precursore della nuova storia merita sicuramente di essere letto. Ma con “juicio” e tenendo a portata di mano il G.B. Vico di Montano.

Carlo Gambescia

martedì 15 giugno 2010

Pomigliano d'Arco
La svolta, secondo Gianfranco Fini



Il piano per la ristrutturazione dello stabilimento prevede per un verso l' investimento di 700 milioni di euro nel biennio 2010-11 rivolto alla produzione della futura Panda (uscita prevista 2011). Inoltre, a regime, lo stabilimento campano, secondo il piano Fiat dovrà produrre 270mila automobili all'anno , rispetto alle 35mila del 2009. Un vero tour de force produttivo (quasi) da "capitalismo" cinese ... Ma era proprio necessario fissare parametri così alti? Perché tutto deve essere rapportato alla pura competitività? Se le cose stanno così, perché parlare, come fanno di continuo il Governo e Tremonti, di capitalismo sociale di mercato? Qui sembra prevalere solo il capitalismo. Dov'è il "sociale"? Comunque, vedremo.
Interessante,   dal punto di vista della psicologia del perfetto cretino politico,  la seguente dichiarazione di Gianfranco Fini:
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"Cosa ha chiesto Marchionne? Solo più turni di lavoro e di combattere l'assenteismo". Così il presidente della Camera, Gianfranco Fini, nel corso di un'intervista pubblica a Benevento, ha commentato il piano di rilancio della Fiat per lo stabilimento di Pomigliano d'Arco. Se agli operai fosse stato detto "di rinunciare ai vostri diritti per avere il lavoro, io avrei detto di no", ha aggiunto Fini, ribadendo che non è "stato questo l'approccio. Anzi è stato un approccio che riecheggia un appello alla concordia tra capitale e lavoro che fa parte della cultura politica del secolo scorso della dottrina sociale della Chiesa". (http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/economia/2010/06/14/visualizza_new.html_1822575127.html ).
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Capito, "dottrina sociale dell Chiesa"... "Concordia tra capitale e lavoro"... 

Carlo Gambescia

lunedì 14 giugno 2010

Che c'entrano Tremonti e Hayek  con
 l’articolo 41 della Costituzione?

 

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Sulla possibile "riforma" dell’articolo 41 della Costituzione, abbiamo atteso qualche giorno prima di intervenire, anche per capire meglio le posizioni di Giulio Tremonti. In realtà, la chiarezza sembra tuttora latitare. Il che, sotto il profilo della coerenza argomentativa, non depone a favore del Ministro dell'Economia. Siamo davanti a uno zig zag dialettico che fa temere il peggio. Per il cittadino s'intende.

Tremonti da grande prestigiatore gioca con le parole: al momento parla soltanto di chilometri di leggi e regolamenti da tagliare, eccetera, eccetera. Perciò resta difficile capire cosa effettivamente cambierà nell’articolo 41 (per ora lasciamo da parte la questione delle ventilate modifiche anche all’articolo 118 (sul coordinamento Stato-Regioni-Comuni):
Intanto, per comodità del lettore, ne pubblichiamo il testo :
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41. L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché‚ l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali” .
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Ora, l’articolo (anche alla luce dei successivi 42 e 43) è l'esito istituzionale di una intelligente mediazione evolutiva tra il principio liberale che tutela l’esercizio del diritto di proprietà, (principalmente come “iniziativa economica privata”) e il principio sociale, di derivazione cristiana e socialista, che pone dei limiti (“programmi e controlli”) a un uso antisociale dell' attività economica privata. Nel quadro - e questo è il suo punto di forza - della comune condivisione (tra liberali, cattolici e socialisti) di un coordinamento a “fini sociali” tra economia privata e pubblica, sancito dalla sintesi costituzionale.
Siamo sicuri che un liberale vero, come Friedrich von Hayek ( e non di cartapesta come Tremonti), "riformerebbe" l’articolo 41? In particolare, pensiamo al grande Hayek di Legge, legislazione e libertà. No. E spieghiamo perché.
Hayek distingue tra la legge in generale (nomos), intoccabile e necessaria, che può essere appunto quella racchiusa nell’articolo 41 e di riflesso nella Costituzione, che fissa le regole generali, e il comando specifico (thesis), modificabile e non necessario, perché quasi sempre parcellizzato nei mille "comandi" racchiusi nella successiva, e in alcuni casi inutile, legislazione organizzativa.
Ora, Tremonti, vuole intervenire sul nomos, e non sulla thesis (come invece dovrebbe e potrebbe...). Diciamo questo perché la Costituzione Italiana può essere interpretata come un'istituzione frutto di un ordine spontaneo (cosmos), nato da una dialettica evolutiva, e "dal basso", tra posizioni intellettuali e politiche diverse, e non esito di un' organizzazione (la taxis, come opposta al cosmos), imposta "dall'alto". Parliamo, insomma, di un ordine spontaneo recepito - non imposto da un qualche "buon despota"- dalla sintesi costituzionale.

Probabilmente la nostra può apparire un’interpretazione estensiva e in chiave sociologica del pensiero di Hayek. Anche ammesso che sia tale, la riteniamo comunque lecita, proprio alla luce del liberalismo, tutto sommato ricco di spunti pragmatici, del pensatore di origine austriaca.
In buona sostanza, Tremonti pretendendo di riformare l'articolo 41 pecca, per dirla ancora con Hayek, di "costruttivismo": perché vuole imporre dall'alto il mutamento di quella cornice istituzionale (nomos) che assicura l'uguaglianza di tutti davanti alla legge. Quando invece basterebbe intervenire dal basso sul comando (thesis), riducendo il volume dei comandi (organizzativi) specifici.
Ma Tremonti è un liberale? Sapete come risponderebbe Totò?. "Ma mi facci il piacere”… 


Carlo Gambescia