sabato 29 giugno 2019

Abbattuto il Ponte Morandi
Il modello talebano

Che ci sarà  mai  da ridere e gioire?   L' abbattimento è  costoso,  la ricostruzione  si profila altrettanto cara. Purtroppo, la demolizione del Ponte Morandi  a colpi  di  esplosivo  è  una  convincente e triste  metafora  che ci aiuta a capire  le disastrose  condizioni antropologiche, prima ancora che economiche,  in cui oggi versa l’Italia.  
Un Paese  allo sbando, dove, per un verso, l’odio politico, animato da un pessimismo antropologico degno del Vecchio Testamento,   scorre a  fiumi, mentre per l’altro,  si ritiene, sposando l’ Ottimismo Giacobino che,   ripartendo da zero,  si possa edificare l’Italia della Perfezione Morale.
Un pericoloso  mix  di  pessimismo  e utopismo  che rischia di  affossare  l’Italia. Parliamo di un fondamentalismo antropologico  che  come tutte le visioni estreme, irrealizzabili (nel bene come nel male)  non può non tradursi nei  fatti quotidiani  del piccolo cabotaggio né rivoluzionario né conservatore. Una navigazione sottocosta  che però  - attenzione -  non rifugge dal  bel gesto politico, esemplare, un tanto al chilo. Purtroppo,  la prima vittima dell'estremismo antropologico  populista è il realismo politico. 

Sapete  come rispondono i cretini  che ridono dell’abbattimento del Ponte Morandi?  Che pagherà Atlantia.  Come se non  ci fosse lo stato di diritto,  i tribunali,  i periti, eccetera, eccetera. E come è giusto che sia, perché ballano i miliardi.  Di conseguenza,  passeranno anni e anni per arrivare a sentenza.   Ammesso e non concesso   che  alla fine   vengano  accertate le responsabilità di Atlantia. Intanto però la società privata  può essere  additata  al popolo come la principale  colpevole. Omettendo,  tuttavia, due particolari: uno che lo stato avrebbe dovuto controllare; due,  che, per ora, in attesa di sentenza,  pagherà, il contribuente italiano. Ridete, ridete cretini, che la mamma ha fatto gli gnocchi... 
Un'ultima cosa. Non si capisce come sia stato possibile nell’Italia  della grancassa culturale del riciclo (in chiave anticapitalista, of course)  non  aver  tentato  di riciclare, dal punto di vista costruttivo, il Ponte Morandi, tra l’altro  un capolavoro di ingegneristica ammirato nel mondo…  Un simbolo della modernità. 
No, serviva una lezione, costi quel che costi. E qui torniamo al valore metaforico  delle cariche esplosive, presentate come  necessarie  all’anno zero della nuova politica italiana. Perché  il passato va cancellato.
In fondo, se ci si pensa bene,  è il modello talebano.  


Carlo Gambescia                            


venerdì 28 giugno 2019

Salvini, audace e fortunato
Come Mussolini



La fortuna aiuta gli audaci. Il punto però  resta  lo scopo dell’audacia.  A quale fine  sia rivolta, se buono o cattivo.
Ad esempio, nel Novecento, Mussolini fu un uomo audace e fortunato. Prese il potere  con un  colpo di stato, mobilitando i suoi armati contro il governo liberale,  sfruttando le contraddizioni e divisioni  degli avversari politici. In particolare seppe abilmente intercettare  la voglia di normalità degli italiani, usciti da una guerra mondiale. E gli italiani, avvinti dalle parole,   perdonarono  il delitto Matteotti e digerirono le misure eccezionali, che stravolgevano ogni principio di libertà. 
Potremmo citare anche altri casi. Lenin, Hitler, uomini altrettanto audaci e fortunati, ma con un’idea di dittatura ben salda nella mente. Audacia… a fin di male.
Matteo Salvini è della stessa  specie, audace e fortunato, probabilmente con differenze di grado, legate alle doti  dell'’uomo e al diverso carattere dei tempi. Fermo però restando tutto il resto.  
Salvini  è  audace, perché dice cose e porta avanti progetti politici, economici e sociali profondamente contrari all’ordine liberale,  con una crudezza  e una violenza verbale  che rinviano ai tempi della retorica  fascista.   Siamo perciò  davanti a  qualcosa di inaudito, di  mai sentito negli anni della Repubblica.

Salvini è fortunato per due ragioni. 
La  prima,  perché   incontra la voglia di normalità degli italiani, non usciti dalla guerra come allora, ma altrettanto egoisti e sordi, gelidamente  disposti a  tutto pur di difendere il proprio status. 
La seconda, perché le opposizioni italiane ed europee, sono deboli e divise. Il liberalismo  - e non è la prima volta - sembra aver  paura di usare la spada contro i suoi nemici. Resta indeciso, cincischia,  aggrappandosi alle regole ben oltre ogni misura prudenziale.   
E da questa codardia,  trae vantaggio  Salvini, che una volta conquistato il governo con astuzia e fortuna ( si pensi solo alla pochezza intellettuale dei suoi alleati),   usa il potere costituito,  come un moltiplicatore, imponendo  agli avversari un onere  della prova  che non può  spettare a lui, potente Ministro dell’Interno e Vice Presidente del Consiglio, “eletto dal popolo”. E che dunque, come nuovo unto del "popolo-signore",  non può mentire 
Perciò è perfettamente inutile elencare le bugie  di Salvini, anche sul piano della semplice dialettica politica.  Perché significa scendere sul  suo terreno preferito di gioco, quello della menzogna,  del rigirare i fatti,  della calunnia. Si pensi a bugie, facilmente smascherabili,  come quella che  l’Olanda sarebbe obbligata a prendere gli immigrati della Sea Watch, quando il diritto del  mare e i trattati, in particolare Dublino,  imporrebbero di prenderli all'Italia.  Le bugiarde parole di Salvini  diventano verità in forza del fatto che a  pronunciarle solennemente è un politico di primissimo  piano, "al quale piace sempre  quel che piace agli italiani" .

Il potere, diventa così, ripetiamo,  un moltiplicatore del potere stesso, trasferendo sugli avversari, dipinti però come  falsi e corrotti, l’onere della prova.  Parliamo di un potere  che in ultima  istanza  può  essere contrastato, solo con una forza maggiore, che però attualmente l’Ue non ha, se non in versione economicista, limitata alle leggi di bilancio, sulle quali, proprio per la materia stessa, resta sempre facile trovare accomodamenti, proporre dilazioni, ipotesi di accordo:  tutte perdite di tempo, che però finiscono per favorire il gioco sporco di  Salvini.  
Per ridurre all’osso la questione:  opporre come unico deterrente a un personaggio pericoloso per la liberal-democrazia  come Salvini,  l’idea "del mercato che vota  tutti  i giorni", significa usare un fucile a tappi. Vuol dire consegnarsi alla sua propaganda  sovranista che trae forza proprio dall’indicazione del nemico: il burocrate Eu, l’immigrato, l’intellettuale di sinistra, il banchiere, l'economista, l'organizzatore umanitario,  eccetera, eccetera.  Tutti  dipinti come bugiardi, corrotti e  nemici dell’Italia, della quale  Salvini si  è autonominato difensore ufficiale e unico.
Che importa  a Salvini dei mercati che votano tutti i giorni? Anzi per lui diviene gioco facile opporre, al voto falso dei mercati, quello vero degli italiani: al "ricatto" dell'economia i "diritti" dell'Italia. Salvo tacere, come suo costume, sui costi...  E del resto gli italiani, per ora,  non chiedono spiegazioni. Come potrebbero? Dal momento che  siamo dinanzi a  un nuovo  uomo della provvidenza? Che, come da copione,  mai rinuncia a quel tono minaccioso,  che traspare  da  video e  interviste,  del  “provate ora  a dire il contrario”?  
La situazione è grave. E  non ha precedenti nella storia della Repubblica.  Qui serve altro.

Carlo Gambescia  

                    

giovedì 27 giugno 2019

Intellettuali e alterità
Il popolo ama la cultura?


Domande
Le élite colte sono diverse  dal resto del popolo?  La gente comune ama la cultura? La conoscenza è virtù?  Chi è colto è anche buono, moralmente buono?   La cultura ci fa diventare più tolleranti?
Come si può vedere la questione dell’alterità dell’intellettuale, ossia   della sua  diversità rispetto alla gente comune  è questione non da poco.
Spesso molti intellettuali fanno dell’alterità una bandiera rispetto ad altri intellettuali ( intra-alterità), nonché  nei riguardi  della  della gente comune (extra-alterità). 
Ora  se la conoscenza è virtù, e la virtù rimanda alla  bontà morale, cioè  al  vedere nell’altro un essere buono  uguale a noi,   come conciliare alterità  e uguaglianza nella bontà?

Alterità
Il punto è che l’alterità, come rivendicazione della diversità morale  fa a pugni con l’uguaglianza morale.  Più si rivendica la propria diversità o alterità  più inevitabilmente si introducono principi gerarchico-conoscitivi. Nel senso  - ci spieghiamo -   che giudicare significa stabilire delle gerarchie e perciò delle scale di diversità.  Ciò significa che la conoscenza è gerarchia, il contrario dell’uguaglianza morale, quale disvelamento cognitivo   della bontà   racchiusa  nell’altro.   Quindi la conoscenza, proprio perché  giudizio,  non può trasformarsi in  virtù morale, perché negherebbe se stessa.   
Ma neppure la virtù è conoscenza.   Si prenda la figura moderna dell’intellettuale gramsciano, organico a un progetto politico di tipo pedagogico.  L’organicità  è il contrario della libertà intellettuale. Pertanto  rivendicare l’alterità intellettuale, significa respingere qualsiasi logica organicista della dipendenza da un progetto politico-pedagogico come tale.

La lezione della sociologia
Però,  in realtà,  la sociologia insegna che non esiste alterità allo stato puro. L’ uomo  vive  immerso in una rete di rapporti, di conoscenze e  scambi,  sicché   esiste   una logica oggettiva  dell’organicità sociale,    legata  a un capitale sociale di cognizioni e relazioni che, piaccia o meno, ognuno di noi acquisisce e usa.   Ciò significa che  la rivendicazione dell’alterità assoluta implicherebbe  la fuoriuscita dalla società.  Il che, di fatto,  è impossibile.  Per fare un esempio banale,  per scrivere un tempo servivano carta  e penna, oggi occorre il personal computer, il che significa che esiste quanto meno una dipendenza da alcuni veicoli sociali.  Dipendenza che aumenta  scalarmente in base  alla necessità di veicolare  il proprio pensiero, veicolazione che distingue l’attività  intellettuale. Chi scrive deve essere letto. E per essere letti si deve appartenere al  mondo sociale.   Non si  è mai soli, anche se  l'idealizzazione della solitudine può  fare parte dei piaceri narcisistici di alcuni scrittori. Eccezione che conferma la regola.  

Il conflitto culturale
Esiste anche, come detto, una alterità (extra-alterità) alle  mode culturali.  Ma, attenzione, in termini di densità  del capitale relazionale e sociale, l’alterità alle mode non è che l’adesione a  un’altra forma di moda che rinvia a valori non ancora di moda. Non è che  una forma di socializzazione  con altri mezzi. 
Molti intellettuali,  si riempiono la bocca del  loro essere contro, sempre contro. Alcuni intellettuali, invece scelgono la strada del disimpegno morale. Altri ancora sposano la difesa dei più alti valori di giustizia, bellezza, bontà, verità.  I primi  sposano le cause più diverse e contraddittorie, i secondi si considerano al di là del bene e del male. I terzi  si fanno giudici dei più alti valori, dividendosi sulle interpretazioni. Il risultato è il conflitto intellettuale  di tutti contro tutti: ribelli, disimpegnati e chierici   

Effetti
Quali possono essere gli effetti  di questa guerra culturale  sulla gente comune? La cultura viene vissuta dalla gente comune come qualcosa di  noioso,  verboso e conflittuale.  Di qui la crescente distanza tra le élite culturali,  chiuse nei propri riti sociali di guerra,  e il resto della gente, tesa a occuparsi di altre guerre  legate alla ricerca della moneta sonante della sicurezza sociale.  
Ne consegue, la riduzione della cultura di base a pura informazione scolastica legata al perseguimento di un  titolo, di cui la società, per funzionare,  ha necessità, come del resto ne abbisognano   i singoli per perseguire uno status sociale.  Il succo del  nostro discorso è che la  gente comune vuole fuoriuscire  il prima possibile dal conflitto culturale, vuole insomma restarvi appena il tempo per conseguire un  titolo sociale, per poi  gettarsi  in conflitti esistenziali che ritiene più autentici, perché personalmente più  coinvolgenti  di quelli culturali, lontani  e astratti. Per poi magari, come negli ultimi anni,  divertirsi sui social, dove la guerra di tutti contro tutti si trasforma  in rilassante passatempo:  la prosecuzione, a livello di massa, del conflitto  con altri mezzi, che non richiedono studio o impegno.  Si pensi all'uso degli emoticon, il cui  simbolismo rinvia al raggelante grado zero della cultura.    

Risposte
Pertanto, per rispondere alle domandi iniziali: 1) le élite colte non possono che  essere diverse dal popolo; 2) la gente comune  non ama e  teme la cultura e dunque non vuole assolutamente elevarsi, se non per il conseguimento di titoli apportatori di valore sociale; 3) la conoscenza non è virtù, perché più che unire divide e gerarchizza; 4) chi è colto o  erudito  non è moralmente buono, altrimenti non favorirebbe la gaia scienza della guerra di tutti contro tutti, che è frutto della  gerarchizzazione cognitiva.  
Di conseguenza 5) quanto più il conflitto culturale è avvertito come tale tanto più sarà difficile conciliare  alterità e uguaglianza nella bontà. Sotto questo aspetto 6) perfino un valore come la tolleranza che dovrebbe  servire a  neutralizzare i conflitti, diventa una risorsa stessa del conflitto.  Quindi, non è del tutto vero  che la cultura ci fa diventare più tolleranti. Molto dipende, dai livelli di socializzazione del conflitto, e  dal buon uso della tolleranza e della bontà della causa dalla quale la cultura dipende. Ad esempio, la tolleranza verso un partito totalitario, che come sente parlare di cultura pone mano alla pistola,  è causa sicura di rovina delle libertà.

Conclusioni
Concludendo, più si valorizza l’alterità conflittuale più la società si trasforma in un teatro bellico, più si valorizza, l’organicità dell’intellettuale a un qualche progetto pedagogico, più la società si trasforma in un cimitero dell’idee. Più,  infine,  si valorizza il disimpegno,  come valore “alterizzante”, più la società diviene incomprensibile come un libro scritto in una lingua sconosciuta.
E questo è il punto in cui oggi ci troviamo.  Si rifletta su un fatto:  per quale ragione  è così in voga  tra gli intellettuali   la metafora della liquidità?   Perché  questo traslato,  affanna e consola al tempo stesso come il dio manzoniano.  Dal momento che  il suo uso massiccio  assolve  gli intellettuali dall'incapacità di leggere il gran libro della sociologia, di cui non conoscono più la lingua, facilitandone il disimpegno.  E proprio in nome  -  quando si dice il caso -    di una presunta  alterità dell'intellettuale  alla liquidità... A qualcosa di nebuloso  che non si sa bene  cosa sia.  A un metro privo di indicazioni numeriche...
Detto altrimenti, il concetto di liquidità rappresenta l' alibi perfetto  per   un narcisismo  che ormai costituisce  l'unica  unità di misura  dell'intellettuale "alterizzante".      

Carlo Gambescia                      

mercoledì 26 giugno 2019

Campionato mondiale di calcio femminile
Prima le italiane!



Che disastro. Come lo  dico a mia moglie.  Mi sono innamorato di undici ragazze.  Tutte insieme. Tranquilli amici, parlo della nazionale femminile di calcio, che sta disputando in Francia  un signor mondiale.  Ieri sera,  con un tondo due a zero, la quadra allenata da Milena  Bertolini  ha archiviato la Cina. Prossimamente, nei quarti,  l’Italia dovrà vedersela con l’Olanda.   

Un ricordo,  la mia prima partita di calcio femminile come spettatore risale all’aprile del 1971.  Ovviamente, ero lì, per interessi sentimentali, non tecnici.  Le giocatrici, giovanissime (lo ero anch’io),  correvano tutte dietro alla palla, come i bambini dell' oratorio alle prime armi.     
Quanta  acqua da allora è passata sotto i ponti… Non posso  fare paralleli  con il calcio maschile,  dal momento che oggi  non si nota più alcuna  differenza.  In difesa le italiane  menano elegantemente come fabbri, a centrocampo  si eccelle in  triangolazioni, virtuosismi vari  e improvvisi lanci longitudinali,  e in fase di  attacco  si segnano tanti  gol, pure spettacolari.
Se proprio si vuole indicare una differenza, le nostre ragazze, cadono e si rialzano senza le sceneggiate che  caratterizzano le partite  dei maschietti. E soprattutto, non mollano mai, fino al novantesimo e oltre.  Le nostre ragazze hanno gamba. E nel contrasto non la levano...
Si è davanti a  un mix, molto speciale,  di tecnica e agonismo. Tecnica da professionisti e agonismo da semi.  Senza dimenticare due  virtù sempre più rare nel campi di calcio:  la lealtà. E, cosa non  da poco,  il  grande rispetto verso l’arbitro.  
Non faccio nomi, perché sono tutte brave.  Anche perché, non voglio far litigare tra di loro le mie undici fidanzate (e più, perché ci sono anche le riserve).  E poi basta informarsi.
Vinceranno la Coppa del Mondo?  Difficile dire. Ma lo meriterebbero.  Forza!  All’attacco, ragazze!  Prima le italiane!


Carlo Gambescia                     

martedì 25 giugno 2019

La morte di Francesco Ginese
L’illegalità e i suoi amici


Che cos’è illegalità?  La risposta a prima vista  è semplice,  il contrario della legalità. E che cos’è la legalità?  È agire come prescrive la legge. Di riflesso, chiunque violi la legge è fuori della legalità.
Certo, le leggi possono essere ingiuste  sotto il profilo del senso comune, ad esempio di un’idea, nobile e  condivisa,  di solidarietà. Si pensi al sindaco di Riace, che perseguendo una logica umanitaria ha derogato alla legge  in nome dei  più alti principi di giustizia.  L'intera  storia della filosofia del diritto è ricca di esempi del genere. Tutti elevatissimi.
Tuttavia la società, per quanto entità dinamica,  come  struttura istituzionale, proprio per essere tale, impone il rispetto delle leggi.  I comportamenti stabili,  produttivi di fiducia,  facilitano le relazioni sociali  e  la certezza  collettiva.  Fattori  che consentono al singolo  di  ritenere - semplificando -   che quel che accade oggi, accadrà anche  domani. La legalità è una  forma di stabilità sociale. Ma,  prima di tutto,  una forma mentis,  come ora vedremo.
A questo pensavamo a proposito della tragedia della Sapienza, dove un giovane di ventisei anni, Francesco Ginese (nella foto),  ha perso la vita nel tentativo di scavalcare il muro di cinta per partecipare a una festa - sembra un rave -  non autorizzata dal Rettore.
Il fatto che un  brillante neolaureato in economia, di buona famiglia, con un posto  di lavoro che lo attende -   insomma,  non un disadattato -   penetri nottetempo nella città universitaria,  violando la legge,  dovrebbe far riflettere.

E su  cosa in particolare?  Su come il concetto di legalità abbia ormai  toccato il fondo. Ovviamente, la responsabilità di questo processo degenerativo  non è del giovane  che materialmente ha scavalcato il muro, e neppure degli organizzatori della festa e dei vertici dell’università e della polizia che avrebbero dovuto per tempo intervenire.  Sono tutti, utilizzatori finali, sociologicamente parlando. Allora di chi è la responsabilità, in primis, sociale?
Del sistema due pesi due misure.  Ovvero  di una mentalità  culturale, oggi assai diffusa,  che consiste  nel giudicare legale o meno quel che più giova politicamente. Per essere più precisi, alla base del gesto del giovane, punto terminale di una catena  micro-macro dell’illegalità costituita, c’è la politicizzazione della legalità. O  se si preferisce, la mancata neutralizzazione sociale del diritto.   
Parliamo di  un processo che discende dalla  crisi del concetto di  potere come autorità neutrale. Una crisi che ha le sue origini,  non solo nel Sessantotto,  ma  nell'attacco al  liberalismo giuridico che risale all'ascesa dei  totalitarismi fascisti e comunisti.



L’effetto di ricaduta di questa crisi è rappresentato, come forma di mentalità culturale,  dalla diffusione della presunzione sociale  e politica  che la legge sia al servizio dei potenti, e che dunque violarla sia una forma di giustizia sociale.    
Ora,  esistono  casi, come dicevamo a proposito di Riace,  in cui la violazione della  legalità impone (quanto meno) problemi di coscienza, perché sono in gioco più alti di principi di giustizia. Ma, quando nella quotidianità,  si scavalcano muri, si organizzano feste  nella certezza  che  nessuno interverrà, significa che ormai  si vive  in un micro-clima di illegalità,  diffusa e condivisa.
Ora, la magistratura dovrà accertare le responsabilità  giuridiche e penali della morte del giovane.   Parliamo però della stessa magistratura  che  sta dando spettacolo, sempre in questi giorni,  di inaudità faziosità e divisioni un tempo impensabili?   Per non parlare dell'uso a singhiozzo politico delle "intercettazioni ambientali" che invece di restare chiuse nei cassetti escono dalle Procure per finire sui giornali.

E la politica?  Salvini ha subito condannato i centri sociali e le autorità accademiche.  Ma,  se la serata fosse stata organizzata da qualche gruppo di estrema destra,  il Vice Presidente del Consiglio, di sicuro,  si sarebbe  ben guardato dal condannare.  Per contro,  la sinistra, che si mostra garantista, ben altro atteggiamento avrebbe assunto  se la festa non autorizzata  fosse  stata gestita dai neofascisti. Salendo in cattedra, avrebbe subito chiesto misure esemplari nel nome della Resistenza.
Insomma,  magistratura e politica da anni ormai danno il cattivo esempio. E le istituzioni pubbliche e sociali seguono  a ruota.  Si chiamano processi emulativi, nel bene come nel male. In definitiva,  gli amici dell’illegalità sono tanti, forse troppi.
Se le cose in Italia vanno così, che mai può succedere se si scavalca, nottetempo,  un muro?   Ecco ciò che avrà pensato  Francesco Ginese prima di arrampicarsi.  E morire.

Carlo Gambescia                                        

                                              

lunedì 24 giugno 2019

Monteverde Vecchio
Il declino  del  riflessivo


Monteverde Vecchio,  elegante agglomerato novecentesco  romano,   fitto di alberi,  palazzine e villette, venne espugnato,  probabilmente   negli anni  Settanta,  dalla sinistra borghese e riflessiva.  O forse prima, nel decennio "neocapitalista", per dirla con Volponi, quello della carta moschicida letteraria.
Tra Villa Sciarra e Villa Pamphili finì il secolo breve. All' "ammirazione", sempre dei secoli, per citare Ferdinando Martini,  i primi a offrirsi furono Pasolini e il primo sindaco gramsciano del Pci, Giulio Carlo  Argan, lo storico dell’arte.  Poi giunsero, colpiti dalle post-garibaldine sciabolate di luce del colle Gianicolo,  tutti gli altri.   Emulazione immobiliare. Per chi poteva.  
Probabilmente, un tempo le case costavano poco,  e Monteverde Vecchio  stretto fra  Trastevere e i casermoni  popolari di via  Donna Olimpia, rappresentava  una via d' uscita, a prezzo ragionevole, per chiunque nutrisse  ambizioni da ceto medio,   non ancora riflessivo. Ma in pattine e "pastarelle"  domenicali alla crema.
Poi, ripetiamo, negli anni Settanta,  meglio  Ottanta,  con le metastasi lottizzatrici  della Rai-Tv e  la terziarizzazione  galoppante,  attoriale   e  giornalistica,  del generone,  il quartierino si gentrificò. Arrivarono i riflessivi di sinistra,  i prezzi poi lievitarono, e alla dittatura del proletariato si sostituì quella degli immobiliaristi.  Riflessivi, che però, dopo trent’anni, si sono invecchiati.  E come dice il saggio  si può invecchiare bene o male.
Aggirarsi oggi per  Monteverde Vecchio, all’ombra dei suoi vialetti alberati, che salgono e scendono, significa incontrare giornalisti, scrittori, attori, tanto per omaggiare la banalità, sul viale del tramonto. Distinti pensionati dorati col fiatone, perché perseguitati dall'orografia e sembra inseguiti,  nottetempo, da bande armate di grillini provenienti da Palmarola e Lunghezza. Tuttavia,  piccolo inciso, Raggi o non Raggi, la striscia blu a Monteverde non passò... 
Chi desideri verificare il nostro dire,  può cliccare su YouTube e dare un’occhiata a Teledurruti (ora Pack) “la televisione  monolocale” di  Fulvio Abbate,  scrittore e giornalista che come ogni  buon post-comunista rimpiange ciò che non è mai stato, per difendere quel che non sarà mai.
Abbate, al quale cultura e verve non mancano,   intervista  però delle ombre.   Qui un Mughini, lì un Bassignano, più  sotto uno Spadaccia,  di lato una Pitagora, in alto una Boccardo. Manca Ambra, forse perché  in quota  Boncompagni.   Comunque sia,  lamenti e ricordi, ricordi e lamenti.   
Immancabili gli accenni a Pasolini, assurto a mito fondativo, senza però esagerare sul versante decrescista e populista, oggi occupato militarmente dai  grillini.  Abbate, in fin dei conti, come Pareto, detesta il  virtuismo.  E fa bene.     
Naturalmente Teledurruti (ora Pack)  è anche altro,  soprattutto altro, all’insegna di quell' épater le bourgeois che deve aver tramutato la vita , soprattutto pubblica, di Abbate  nel Gran premio della Montagna.  
A dire il vero, la  gentrificazione,  come dicono gli urbanisti di sinistra,  sembra risalire,  per la parte  che assedia Villa Sciarra,  al Ventennio fascista, forse anche prima:  ultimi palpiti giolittiani e nathaniani. Piano Regolatore del 1909.
In  uno  dei  film  meno incisivi del pur bravo Ferzan Özpetek,  poco lontano domiciliato,  si  celebra ufficialmente  la gentrificazione riflessiva del quartiere: una compagnia teatrale  di  fantasmi, dell'epoca  fascista,  si aggira per le antiche scale,  colpita  da  ingiusta maledizione  gay. Hobsbawm parlerebbe di “invenzione della tradizione”...  Ma va bene così.
Del resto il destino  del  vecchio  cinema Vascello,  via Giacinto Carini 78,  è sociologicamente esemplare: modesta sala di zona, abbandonata dai  proprietari  borghesi e rilanciata  dai  borghesi riflessivi. Insomma, un bel salto: da Edwige Fenech e Barbara Bouchet  a  Flavia Mastrella e Antonio Rezza.  Ai posteri l'ardua sentenza. Noi, inguaribili borghesi in pattine, saremmo invece tentati di morire per Pippo Franco...            
I nativi monteverdini,  talvolta   intervistati da Abbate, sono laconici e  riluttanti.  Che si sentano traditi dalle élite?  Il che ne potrebbe spiegare il comportamento,   che ricorda quello degli ultimi aborigeni australiani:   parlare  poco o punto con gli stranieri,  tacere e aspettare, sotto la Luna,  l' onda gigantesca  che, dal mare,  finalmente spazzerà  via gli invasori  bianchi.   
Sarà difficile però.   Sembra che ultimamene abbia comprato casa  anche Verdone. 

Carlo Gambescia                                             


                                                        

domenica 23 giugno 2019

La riflessione
Ecologia à la carte


Oggi sul  “Messaggero” Marco Gervasoni (nella foto), professore di storia contemporanea,  recensisce  il saggio sull’ecologismo come “nouveau totalitarisme” di Drieu Godefridi, filosofo liberale e finanziere ("concettuale") belga.  
A dire il vero nel titolo del  volume  c’è un punto di interrogativo.  Ma  da quel che si desume risulta perfettamente inutile. Probabilmente un’ imposizione dell’editore.
Quel che però non convince, non è tanto il contenuto del  saggio,  giustamente critico  nei riguardi delle teorie ecologiste e dei risvolti pesantemente  costruttivisti dell’ambientalismo politico,  quanto il taglio di Gervasoni.  Ben riassunto nella chiusa del pezzo, dove dopo aver citato il filosofo conservatore Scruton (diciamo pure,  un ecologista di destra, seppure di elevata statura intellettuale),  si legge che

non a caso molti pensatori ecologisti sono profondamente ostili alle leggi di manipolazione  del feto e ai vari tentativi di fabbricazione artificiale dell’uomo, che invece mandano in solluchero i progressisti. La difesa della terra e del suolo è insomma questione troppo seria per lasciarla ai Verdi.

Due osservazioni.

Uno. La questione ambientale  o esiste o non esiste. A parere di chi scrive non  esiste.  O comunque, non riguarda, come si vuole credere le diseconomie esterne dell’economia di mercato, bensì cicli geologici e fisici  che hanno miliardi di anni. Figurarsi, se  due o tre secoli di capitalismo, eccetera, eccetera. 
Sul punto esiste una letteratura copiosa, definita però  proprio dai Verdi, per criminalizzarla, negazionista.  Di che cosa? Delle stupidaggini ecologiste. Quando si dice il caso…
Due. Dal momento che  non esiste una  questione ambientale, parlare di ambientalismo di destra e sinistra, conservatore e progressista, è semplicemente ridicolo e fuorviante. Perché il rischio dell’ecologia  à la carte  è che  una volta d’accordo sui presunti guai del pianeta terra, la parola passi  alle politiche pubbliche.  Tradotto:  al costruttivismo. Alla pretesa, che discende dall’idea catastrofica di pretendere di   sapere, da parte di chiunque comandi (di destra o sinistra),  ciò che sia  bene per ogni singola persona.
Di qui,  quell’overdose di tasse, leggi e  divieti che mette a rischio l’economia di mercato. Attenzione, parliamo della gallina dalle uova d'oro: del solo sistema economico che abbia dato storicamente prova  di garantire libertà e benessere. Proprio perché fondato, prima ancora di qualsiasi razionalizzazione, sull’anticostruttivismo,  ossia sull’idea, connaturata  alla spontaneità delle azioni umane,  del lasciare liberalmente a ogni singola persona di perseguire il proprio bene.
Gli uomini insomma, comprando e vendendo,  non sapevano di costruire il Capitalismo. Siamo davanti a un’ etichetta, usata dai suoi nemici. Né  principi e vescovi sapevano di costruire il Feudalesimo, né i romani della Repubblica di costruire l’Impero. Esiste una mano invisibile del sociale, frutto di milioni di azioni individuali, i cui esiti, o effetti di ricaduta,  sono imprevedibili.  Opporsi ad essa significa edificare quella che Hayek chiama  la strada verso la servitù. Che, ovviamente, come  quella che porta all’inferno, appare sempre lastricata di buone intenzioni.
Di destra, di sinistra, conservatrici e progressiste…

 Carlo Gambescia                      

sabato 22 giugno 2019

Manovra correttiva 
  Briganti italiani 



Giuseppe Conte in queste ore  non si occupa solo di bilanci sforati e stime sbagliate.  La posta in gioco è più alta.  Cercheremo di spiegare perché.       
Qual è la differenza tra rapporti politici e  rapporti privati?  Che se un privato si  compra un appartamento, versa l’acconto. Dopo di che però,  se  per dolo o per stupidità,   non  ha  i soldi necessari  per definire l’acquisto  perde l’acconto.  E l’appartamento.  Nessuna ingiustizia: si era firmato un  contratto, dove ci si impegnava, eccetera, eccetera.  Si chiama logica contrattuale 

In politica, il contratto non basta, perché sulla base di una pura logica extracontrattuale,  fondata sulla forza, ci si può tirare fuori in qualsiasi momento.  Certo, esistono procedure di controllo e riparazione, eccetera, ma in politica, in ultima istanza, è la forza a decidere. 
Il diritto vince. Ma solo dopo:  una volta piegato, probabilmente sul campo, l’inadempiente,  trasformatosi  in nemico. Si chiama logica politica.
Esiste però un' eccezione.  Il liberalismo   - non lo  si dimentichi mai -   è un gigantesco  e forse  unico tentativo, storicamente solitario,  di trasformare la politica, incivilendola, da fatto polemico  a fatto contrattuale.  Sotto questo profilo l’Unione europea, edificata pacificamente e dotata persino  di  moneta unica,  è una specie di miracolo storico: quello di unione politica ed economica, nata senza il bisogno della spada.  Un fatto puramente fiduciario. Magnifico. 
Ci scusiamo per la lunga premessa, che però consideriamo utile per capire. Che cosa?  Il comportamento  polemico, per l’appunto,   dell’Italia, non tanto di queste ore sullo sforamento di bilancio,  quanto del governo giallo-verde da un anno a questa parte.
L’Italia vuole uscire dall’euro e probabilmente anche dall’Unione europea,  e sta facendo del suo meglio, se ci si passa la metafora, per essere espulsa dalla scuola  come  certi pessimi studenti bulli. O ancora peggio, l'Italia  si comporta da brigante, non rispetta  leggi e accordi, si nasconde dietro un albero, per derubare e rapire i  viaggiatori.    
 
Il lettore non si faccia ingannare dalle evasive  dichiarazioni di Conte, messo lì a interpretare la parte del brigante-ambasciatore con il compito di  chiedere in modo apparentemente mellifluo il riscatto. Gli altri, che aspettano nascosti  tra le montagne, mangiando e ruttando, sono i   Salvini e i  Di Maio   spalleggiati dai loro   contro-economisti tutti rigorosamente anti-euro e anti-Ue.   Ogni tanto, dalle ombre intorno al fuoco, si lancia un osso da spolpare ai sequestrati,   infreddoliti e  in catene: gli italiani, che ringraziano. Nell'attesa che l 'Unione Europea  faccia il proprio dovere:  pagare e tacere.
In realtà, in discussione è la logica di un contratto, già violato dall’Italia con l’ultima legge di stabilità. Violazione, sulla quale  l’Ue  in dicembre aveva chiuso un occhio, in cambio della promessa di modifiche in corso d’opera.
Cosa che l’Italia, se non a chiacchiere e imbrogli contabili,  non vuole assolutamente fare. L’impressione è  che il governo giallo-verde  giochi a innervosire gli avversari, proprio per farsi buttare fuori e addebitare la colpa all’Unione europea. Il che spiega perché un miracolo politico come l'unificazione monetaria, di cui invece si dovrebbe essere fieri, venga sistematicamente screditato  e imputato ai biechi  disegni politici di  un gruppo di stati mascalzoni,  nemici dell'Italia.

In realtà, la  violazione di   regole,  liberamente sottoscritte, è tutta italiana.  Che al contratto sembra  preferire  la spada. Per ora delle parole. Poi si vedrà.  Tipica logica da avventurieri politici. Altro che civiltà liberale. I briganti siamo noi.  
Certo, l’Europa non può dichiararci guerra, troppo giustamente civile e militarmente disunita  per farlo.   Ma se, come per un  gigantesco effetto domino, l’uscita dell’Italia, provocasse quella  di altre  nazioni  e  la  nascita, come nella prima metà del Novecento, di alleanze, anche esterne all’Europa delle tradizioni liberali, l’ipotesi di conflitti, persino militari, non diverrebbe poi così remota.  Si pensi, per  involuzione politica, allo scenario di  un’Europa centrale allargata: un’altra Ucraina, un’ altra Georgia,  e così via.  Con teste di ponte  (interne)  del caos, rappresentate dai populismi-sovranismi  in conflitto fra di loro.   
Esageriamo?  La logica del contratto impone la fiducia, e la fiducia  rinvia alla consapevolezza che al di fuori del contratto, esiste solo la logica polemica. Se manca o viene meno tale consapevolezza, tutto è possibile.

Carlo Gambescia                                
                  

              

venerdì 21 giugno 2019

Come argomenta Salvini
Le parole del  Capitano

Salvini, il Capitano, come lo chiamano i suoi, si fa capire dalla gente comune. Altro che i vecchi politici...  
Ecco il ritornello  ripetuto da analisti e commentatori di tutte le tendenze.  
Esisterebbe,insomma, un populismo argomentativo, che può riassumersi  nel fatto di dire  le cose pane al pane  vino al vino .  Espressione, quest’ultima,  veteropopulista, che, evidenzia il comportamento, di chi in ogni circostanza si esprima con franchezza e senza timore reverenziale per nessuno. 
Il "panepanevinismo", per capirsi, rimanda sociologicamente, alla semplicità di parole e costumi, del catonismo, del  pauperismo cristiano, del moralismo operaio, dell'antiberlusconismo azionista.   
Ha un fondo manicheo, perché oppone il   principio  cognitivo dell’indifferenziato a  quello  della diversità. Bene contro Male:  da un lato i semplici dall’altro i difficili; da un lato il popolo dall’altro le élite, per dirla in chiave populista.
La ricerca della semplicità implica  inevitabilmente sotto il profilo retorico  l’uso dell’ argumentum ad hominem e dell’argumentum ad judicium.  Due formule argomentative, ovviamente fallaci, ma   semplici e comprensibile da tutti. 
Facciamo due esempi.
Nel corso di  un dibattito televisivo  sul ruolo dei professori, alla contestazione  di una professoressa che gli  rimproverava  di essere intollerante verso un valore importante  come la  diversità,  il  Vice Presidente del Consiglio  ha risposto  riconducendo   le critiche della docente sotto  la  categoria  "docente di sinistra".  L’argumentum ad hominem è il seguente:  è una docente di sinistra,  dunque  una dottrinaria (che indottrina),  ergo non può fare bene il suo lavoro. Salvini si comporta come certi avvocati  mediocri che per difendere o attaccare una testimonianza sfavorevole aggrediscono la credibilità   morale del testimone, 

Un’ altra formula tipica del discorso salviniano è  ripetere  che a lui piace quel che piace agli italiani. Qui siamo davanti all’argumentum  ad judicium, o argumentum ad populum,  cioè alla pretesa  che una tesi sia corretta perché difesa da un gran numero di persone. Anche qui,  si prescinde volutamente  dai contenuti e dal rigore logico, dalla qualità insomma,  per privilegiare  la forza illogica del numero, la quantità. 
Riassumendo, nel primo caso, argumentum ad hominem, si contesta non l’affermazione ma l’interlocutore stesso. Nel secondo caso, argumentum  ad judicium,  si attribuisce la validità, o l' autorità,  di un' affermazione in base al numero degli interlocutori che la condivide.

Naturalmente a queste  due principali forme di fallacia argomentativa, Salvini  affianca l’uso diffuso  di alcune figure retoriche:  l’apostrofe (l’appello agli italiani traditi dai politici); la personificazione (l’Italia che lo avrebbe chiamato - lui Salvini - a più  alti compiti); la preterizione (il sottolineare senza ammettere di sottolineare: “Non sto qui a dire quanti italiani erano presenti  al mio comizio”).
A ciò  vanno  sommati, altri aspetti etnometodologici interessanti: la gestualità salviniana (tipica del “capo”, sicuro di sé), il modo di abbigliarsi (paramilitare o comunque semplice e ugualitario), il ricorso al basso continuo della superstizione popolare (come l’uso politico del santo rosario).  Aspetti che qui comunque non tratteremo.    
Concludendo, come si può vedere il repertorio argomentativo e retorico  di Salvini è piuttosto ridotto. Ma la sua forza è proprio in questo. È ridotto come quello della stragrande maggioranza della gente. Il che spiega il suo successo. Povertà  culturale che abbraccia altra povertà culturale.
Questa retorica dell'intransigenza, per giunta fallace, non ha nulla a che vedere con il dibattito pubblico liberale fondato sulle forme della  transigenza  e  sul rapporto causa-effetto tra conoscenza e deliberazione. Del resto, a  Salvini  di tutto ciò  non importa un fico secco. Per dirla, anche noi, per una volta,  pane al pane vino al vino.

Carlo Gambescia       

giovedì 20 giugno 2019

Camilleri, Feltri e dintorni
Il giornalismo alla Franti



"E quell'infame sorrise".  Infierire su uno scrittore in fin di vita è cosa pessima. Denota cattiveria d’animo  e  povertà di  idee.   Certo, Feltri, tra l’altro più giovane di Camilleri ma non in fasce, deve restare fedele al personaggio che gli ha dato ( e dà)  pane televisivo  e mediatico. Ma questo non lo assolve, agli occhi  della società del  non spettacolo.  Perché va oltre la maschera, si bea di   un  giornalismo alla Franti, malvagio, che sorride e deride. Così è ridotta l’Italia.  Un ringraziamento particolare ai social.

Per entrare nei dettagli, ecco quel che Feltri ha  scritto  di Camilleri, attualmente in rianimazione.

Nuova polemica politica e social per Vittorio Feltri. Il direttore di 'Libero' in un editoriale sul suo giornale, pur riconoscendo la "mirabile" arte di Andrea Camilleri se la prende con la sua creatura più nota, Montalbano. "L'unica consolazione per la sua eventuale dipartita - scrive caustico in un passaggio sullo scrittore siciliano - è che finalmente non vedremo più in televisione Montalbano, un terrone che ci ha rotto i coglioni almeno quanto il fratello Zingaretti, segretario del Partito Democratico, il peggiore del mondo".



Una miseria di linguaggio che ricorda quella del suo idolo Matteo Salvini. Un inciso, Zingaretti, politicamente parlando non convince neppure noi,  ma sono preferibili i silenzi del nuovo del segretario del Pd, agli sproloqui del duce leghista. Per non parlare di Feltri.
A chi non piace  Montalbano?  Ai siciliani che si fingono snob, in particolare  le mezze calzette del cinema e della letteratura,  che, invidiose del meritato  successo di Camilleri, lo  accusano di aver creato una Sicilia da Pro loco, caricaturale. 

Ma Camilleri  non piace neppure agli scrittori postmoderni, pulp,  dark  e  arrabbiati sotto contratto con il culto dell' antieroe:  quelli dell'elogio di Franti forever.  Che scorgono in Camilleri una specie di  Liala dei poliziotti e in Montalbano uno dei tanti eroi dei gialli di appendice.  

Infine non piace a fascisti e razzisti perché Montalbano e Camilleri difendono chi affoga nel Mediterraneo. 
E  a  chi piace?   Allo stesso  popolo,  che Feltri e Salvini hanno sempre in bocca. Che invece pare apprezzare l’umanità   del personaggio e dell’ autore,   in libreria come in televisione.  
Certo, poi, al momento del voto, parte di quel popolo  sembra preferire la vulgata  di  Feltri e Salvini. E questa è una contraddizione, che però lascia sperare,  perché, evidentemente,  non tutto è perduto. C’è comunque in tutti i lettori e spettatori, chi meno chi più, una scintilla di umanità. Sotto questo aspetto Montalbano e Camilleri, esistenzialmente parlando,  sono al di là della destra e della sinistra. La solidarietà non ha colore politico.   

Perché, diciamola tutta, che cos'è letteratura  senza un briciolo di umanità? E la vita, senza un lampo di empatia?  La brutta immagine riflessa di  Feltri e Salvini.  


Carlo Gambescia                     



mercoledì 19 giugno 2019

Le dichiarazioni di Draghi sulla possibilità  di  nuovi stimoli monetari
  I frutti velenosi del  protezionismo




Qual è il senso politico-economico  della dichiarazione  di Draghi sulla possibilità di un ulteriore taglio dei tassi?  Che si abbasserà  il valore dell’Euro, favorendo le esportazioni europee, rispetto a quelle di altre nazioni, e in particolare  le statunitensi.  
Pertanto Trump ha ragione. Certo,  dal suo punto di vista, che è quello americano. Però si guarda bene dal dire   che la guerra dei tassi l’ha scatenata lui  puntando sul protezionismo. E qui veniamo al vero punto della questione.
Il mercato è come un’immensa rete segnata dai prezzi: non si può toccare in un punto  o prezzo,   senza che le reazioni, si riversino su  altri settori o prezzi.   Quindi la regola d'oro è quella  libero-scambista, che  lascia  aperta la via degli aggiustamenti spontanei,  economici (non politici) dei prezzi. Naturalmente serve pazienza. E purtroppo i primi a essere impazienti sono i dittatori o aspiranti tali in cerca di facile consenso.           
Introdurre, elementi di protezionismo, dunque di rigidità politica dei prezzi, di qualunque bene (e anche al moneta è un bene)  significa quindi innescare una catena di  azioni e reazioni, alla quale nessun paese può più  sottrarsi.  Ciò che minaccia Draghi  è un atto politico sui prezzi che risponde agli atti politici sui prezzi di Donald Trump. Va in scena l'impazienza politica.  
Si potrebbe parlare dei frutti velenosi del protezionismo.  Ci spieghiamo meglio.
Si inondano i mercati di euro.  Le esportazioni volano, ma le importazioni divengono più costose. E alla lunga, dal momento che la moneta cattiva la scaccia  la buona, le importazioni, per essere pagate, impongono  l’uso di monete  forti o  una  riduzione dei traffici in entrata. Alla lunga, a causa  della riduzione delle importazioni, diminuiscono inevitabilmente, anche le esportazioni di tutti gli altri paesi.  Il che determina  in ogni nazione, ristagno,  disoccupazione e comunque calo del tenore di vita. Il che favorisce o rafforza l’estremismo politico e la credulità dei popoli verso la figura politica del castigamatti, se ci si passa l’espressione, che in genere è un protezionista.  Uno che sul  fuoco acceso, versa la benzina... 
Il protezionismo è un errore. Un grave errore.  E anche Draghi ha abboccato…

Carlo Gambescia


martedì 18 giugno 2019

Caso e  Storia
Lunga vita a Camilleri e Salvini!



Diciamo  una cosa che può apparire tremenda. Anzi lo è.  Non poteva toccare a Salvini invece che a Camilleri? A un uomo rozzo, incolto, brutale, invece che a un uomo colto, se non addirittura geniale,  e dai modi civili?
Certo Camilleri  è decisamente vecchio, Salvini, tutto sommato, giovane.  La  vita è  giusta o ingiusta? Difficile dire.  Governa  il  caso.  In un vecchio  film di Woody Allen,  una specie di Delitto e Castigo spiegato al popolo,  un uomo si libera dell’amante, uccidendola,  e la fortuna continua a baciarlo. Prospera e fa soldi più di prima,  Forse, però,  se Hitler fosse morto in fasce -   tuttavia si piange sempre l' ingiusta morte di un neonato  - quanti guai si sarebbe risparmiata  l’umanità? 
Gli storici  strutturalisti invece sostengono, che stante le condizioni  della Germania di allora,  qualcun altro si sarebbe comunque inventato il nazismo o qualcosa di simile…  
E questo "illustre" sconosciuto  avrebbe scritto anche un libro maledetto come il  Mein Kampf?  Dove si spiegava per filo  e per segno cosa sarebbe accaduto? Difficile rispondere.  Anche un Hitler con un altro nome avrebbe sterminato milioni e milioni di ebrei? Sul punto gli strutturalisti tacciono.
Negli Stati Uniti,  in  particolare diversi  attori e comici, discutono in tv  di come eliminare fisicamente un uomo pericoloso come Trump.  Si ride… Però dietro  scherzi e  battute da Saturday Night Live affiora la  grande questione filosofica e storica del tirannicidio.  Che ci riporta, semplificando,  a Cesare e alle Idi di Marzo.  Ma Cesare era veramente un dittatore?  I suoi assassini  erano  autentici difensori della libertà? 

Gli storici, dopo duemila anni,  non concordano. Mentre si trovano perfettamente d’accordo sul fatto che  ogni epoca ha una sua idea della libertà come della democrazia. Il che significa che non c’è risposta sicura, né sulla figura del tiranno, né su quella del tirannicida.
Per tornare a Hitler, se l’attentato del 20 luglio del 1944 fosse riuscito, forse la guerra sarebbe finita  prima. Oppure no? Magari, i suoi fedelissimi, proprio per onorarlo, si sarebbero gettati nella fornace della battaglia con inaudita ferocia, per vendicarne la morte.  Insomma, bisogna sempre fare i conti, per capirsi, con hitlerismo, trumpismo, e così via...     
Anche Mussolini, all’inizio della sua dittatura, subì alcuni attentati, addirittura tre in un anno, nel 1926.   Secondo certi  storici, probabilmente di parte, se fossero riusciti, l’Italia sarebbe precipitata nella guerra civile e tra bande fasciste. Mentre il Duce, indenne,  favorì comunque  un periodo di pace, non lungo, però…
Sono tesi, che con il senno di poi,  di cui sono piene le famigerate fosse, possono anche acquisire un senso storico positivo mescolando, on the rocks,  storicismo e ottimismo.  In fondo, si dice,  il fascismo, fino a un certo punto, fu meno totalitario del nazismo. Al peggio, come si ripete,  non c’è mai fine.
Allora?  Lunga vita a Salvini?  Lunghissima. E speriamo, nonostante il pessimismo dei medici, lunghissima vita anche al geniale Camilleri.  


In realtà, la storia, come la vita, dipende dagli uomini fino a un certo punto.  Perché,    come diceva Machiavelli, per il cinquanta per cento dipende dalla fortuna.   Che però  va sfidata, egli aggiungeva.   Sul punto sono d’accordo perfino i bigliettai delle lotterie, che  non hanno mai letto Il principe.     
Giusto, va sfidata. Però  dipende pure come,  da chi e  contro chi...  

  Carlo Gambescia