venerdì 31 ottobre 2025

Samurai di plastica: test culturale sulla destra radicale

 


Oggi facciamo un bel test culturale sulla destra radicale, quella che critica Giorgia Meloni perché – così dicono i “camerati” – è troppo moderata.

Non faremo nomi: tanto si tratta dei soliti venditori di fumo pseudo-eroico, fascista o neofascista (scelga pure il lettore). Basta fare un giretto sui social e se ne leggono di belle.

Questi monomaniaci politici, che non hanno mai capito la dura lezione del 1945 – dura e giusta – credono di scorgere ovunque anche i più piccoli segnali di fumo (fumo che abbraccia altro fumo, il loro).

Da ultimo, non pochi di quell’ambito politico hanno salutato la premier giapponese Sanae Takaichi come possibile simbolo di una riscossa nazionale.

Nostalgia del Ro-Ber-To? Roma-Berlino-Tokyo, come proclamava l’ottuso federale Tognazzi, salvato dal linciaggio (nonostante i soprusi subiti) da un professore liberale? Cosa sulla quale i nostalgici di Salò non hanno mai riflettuto abbastanza. Ma questa è un’altra storia.

Forse. La fanta-tesi è la seguente: saremmo davanti alla prima donna al potere che sogna un Giappone deciso a “staccarsi” dagli Stati Uniti, pronto a riallacciare rapporti con Mosca per garantirsi energia a basso costo.

Un racconto suggestivo, certo. Ma più vicino alla mitologia che alla politica.

 


Da ottant’anni Tokyo vive una condizione particolare: un Paese sovrano, ma dentro un sistema di sicurezza dettato da Washington. Questo equilibrio, comodo ma limitante, ha garantito pace e prosperità.

Oggi, però, il mondo è cambiato. Gli Stati Uniti arretrano, la Cina avanza, la Russia gioca sporco e l’energia costa cara.

E qui conviene fermarsi un attimo: il punto che sfugge ai samurai italiani è semplice. Il Giappone non sogna alcuna revanche. Se si conoscesse meglio, storicamente parlando, l’etica dell’adattamento del Giappone, si capirebbe che Tokyo semplicemente si conforma non a un mitico passato ma al flusso degli eventi. Come ha sempre fatto: Il giusto, che è anche bello, come senso delal misura. Dato per l’appunto dall’adattamento a regole, che possono anche cambiare, anche per gradi, ma cambiare. E qui si pensi al sincretismo religioso giapponese (*)

Le classi imperiali, pur dure nei secoli con nobili, contadini e mercanti, aspiravano a una vita armonica, non al geo-potere. Il bellicismo, prima nazionalista poi fascista, che va da Tsushima a Pearl Harbor, rinvia alla sbornia di prussianesimo – fin dalla costituzione – che investì le classi dirigenti giapponesi. Un vero corpo estraneo. Si può chiamare anche “modernismo reazionario”, prontamente corretto dopo il 1945, con il ritorno del senso della misura.

Oggi il Giappone è tornato quello di sempre: pacifico e armonico, e con più di un tocco di benefico consumismo occidentale.

La figura del samurai – di regola nobili declassati dalla katana facile o contadini riqualificati nel mestiere delle armi – è, quanto a ruolo politico effettivo, anche quando contava qualcosa nel Giappone Tokugawa, più un mito occidentale che una realtà orientale.

Per dirla alla buona, il samurai era uno sfigato, feroce ma sfigato, che non voleva lavorare la terra. Si pensi, solo per fare un esempio nostrano, al Brancaleone di Monicelli.



Quando Takaichi parla di “dialogo con tutti i vicini”, non annuncia una conversione geopolitica. Cerca margini di manovra, non rivoluzioni. Riafferma la centralità dell’alleanza con gli Stati Uniti, mentre prova – con prudenza – a riaprire qualche canale pragmatico verso Mosca. È la normalità diplomatica di una potenza industriale che ha bisogno di benzina e stabilità, non di proclami e di un nuovo Mishima – il D’Annunzio giapponese che, a differenza del vate abruzzese, faceva sul serio, fino alla morte per seppuku (autosventramento rituale).

Il Giappone si sta emancipando, sì, ma dentro l’ordine di cui ancora fa parte. Nessun seppuku, nessuna vendetta simbolica contro l’Occidente: solo il lento e razionale processo di un Paese che vuole più voce in capitolo sul proprio destino.

Del resto, quale Mishima? Il Giappone di oggi è una società di pensionati: un terzo della popolazione ha più di 65 anni e l’età media sfiora i cinquanta. È un Paese che tutto sogna, fuorché la guerra e la vita eroica. La sua battaglia quotidiana è un’altra: tenere in piedi un sistema di welfare sempre più costoso e un’economia che invecchia insieme ai suoi cittadini (**).

E mentre qualcuno sogna ancora samurai e riscatti nazionali, la realtà giapponese cammina piano, con passo prudente, verso un futuro di robot, badanti e bilanci da far quadrare. Sincretica ma robusta.

E invece? Qui torniamo al nostro test. Una parte della destra, quella che scorge in Meloni una specie di Badoglio, continua a inseguire fantasie romantiche di riscatto e orgoglio nazionale, più vicine alla letteratura che alla politica.

 


Ma il mondo non si piega ai miti, e la geopolitica non è un romanzo d’onore.Prima o poi, anche i sogni devono fare i conti con il prezzo del gas e nel caso del giappone con una antropologia della giusta misura.

Autonomia non è ribellione. È ritorno alla maturità.

E se c’è un risveglio in corso, non è quello dei demoni nazionalisti, ma della politica che finalmente torna a fare i conti con la realtà, secondo le buone tradizioni giapponesi.

Per concludere: è un movimento di maturazione politica, non di rivolta. Meno Mishima, più Weber: razionalizzazione dell’indipendenza, non eroismo del gesto. 

Quindi  test non superato. 

Qualcuno lo spieghi a questi cialtroni che impugnano la katana di plastica dell’Atlantic giochi.

Difficile che capiranno. Però, non si sa mai...

Carlo Gambescia

(*) Sul punto, scusandoci per la sinteticità del giudizio, si veda, come approfondimento, il bel saggio di L. Caillet, La Civilisation japonaise, in J. Poirier ( a cura di), Histoire des moeurs, Gallimard, Paris, 1991, III, vol. 2, pp. 978-1038.
 

(**) In argomento si vedano Yoshitaka Ishikawa (a cura di), Japanese Population Geographies I: Migration, Urban Areas, and a New Concept e Japanese Population Geographies II: Minority Populations and Future Prospects, Springer Nature, Singapore 2023. I volumi trattano, in chiave sintetica ma con dovizia di dati e tabelle, migrazione, invecchiamento della popolazione, concentrazione urbana e scelte abitative delle minoranze, offrendo strumenti di previsione demografica e implicazioni politiche.

giovedì 30 ottobre 2025

Il ponte sullo Stato di diritto

 


La Corte dei Conti ha bloccato la delibera sul Ponte di Messina perché ha riscontrato coperture finanziarie incerte, stime di traffico e costi poco attendibili, e dubbi sulla legittimità e completezza dell’iter ambientale e amministrativo. Apriti cielo.

Tuttavia, il governo può comunque sbloccare i lavori: la legge che autorizza la realizzazione del progetto consente di superare il diniego della Corte con una delibera motivata del Consiglio dei Ministri, invocando il “preminente interesse pubblico nazionale”.

Insomma una specie di “ponte sullo Stato di diritto”. E questa possibilità è un profilo molto pericoloso. Perché in questo modo si elude il controllo della magistratura – oggi si tratta di un ponte, domani di un giornale o di un partito non gradito – apre la porta al potere assoluto del governo.

Ora, in una democrazia liberale “normale”, una decisione del genere viene accolta come fisiologica: una magistratura — nella fattispecie contabile — che fa le pulci al governo, esercita un controllo necessario, un contrappeso al potere politico. Diciamo pure: alle sue manie di grandezza, di qualunque natura esse siano.



Lo statuto liberale – si badi non il potere politico: il fatto è pre-politico, culturale, di mentalità – delle nostre società ha delegato alla giustizia, nelle sue varie branche, l’esercizio di un potere terzo, fondamentale per la tutela delle libertà in generale.

Si noti una cosa, che a nostro avviso ha un valore decisivo in termini di conseguenze: il governo, come detto, può ovviare alla decisione della Corte dei Conti invocando il “preminente interesse pubblico nazionale”.

Dietro questo escamotage si nasconde il solito ritornello: “i giudici sono politicizzati”, eccetera. Certo, lo sono, perché sono esseri umani come tutti gli altri: a volte pendono a destra, altre a sinistra. Ma il punto fondamentale è un altro: il loro ruolo non è fare politica, bensì garantire il corretto funzionamento del “sistema”, impedendo al governo di oltrepassare i propri limiti.

Di “sistema”, appunto. Perché? Per la semplice ragione che caratteristica della democrazia liberale è la cosiddetta teoria dei pesi e contrappesi, che storicamente è un’invenzione del liberalismo.

Chi è contro, è contro il liberalismo. In qualche misura reagisce d’istinto. Giorgia Meloni, dotata di un forte istinto autoritario — quindi non liberale — cosa ha detto? Che si tratta dell’“ennesimo atto di invasione dei giudici” e che comunque il governo “andrà avanti”.



Qui mi si consenta un piccolo aneddoto calcistico. L’allenatore della Lazio, Maurizio Sarri, ha dichiarato di recente — cosa che colpisce, perché indica la qualità di pensiero dell’allenatore — che, con i giocatori che ha a disposizione quest’anno, i suoi schemi di gioco funzionano fino a un certo punto: molti giocatori agiscono d’istinto e quindi non ascoltano l’allenatore. O comunque, se ascoltano, a un certo punto scattano gli “istinti” e salta tutto.

Ecco, Giorgia Meloni gioca d’istinto. Quali sono le sue radici? Di sicuro non liberali. Proviene da un partito neofascista. E, per giunta, anche se per giochi di parole si fa vanto delle sue “radici”. Fratelli d’Italia, purtroppo, ricorda un’intera puntata di Tali e Quali. Con una particolarità: imitazioni, sì, ma fino a un certo punto.

Molti si dolgono di questa nostra battaglia. “Gambescia vede fascisti ovunque”, si dice. Eppure chi ha fatto strame, nel Novecento, della magistratura? Creando addirittura un tribunale speciale politico? Chi ha violato ogni regola di legalità e di polizia, picchiando, torturando, confinando i dissenzienti? Appena — caso raro — la magistratura assolveva, scattava il confino di polizia.

Tangentopoli, quanto al comportamento “politicizzato” dei giudici, è, per dirla — visto che siamo in giornata — con un commentatore calcistico, un “pranzo al sacco”.


Questa è la cultura antiliberale che anima il principale partito di governo. E non parliamo degli alleati…

Stiamo scivolando verso il fascismo? Sul piano della cultura istituzionale, la risposta sembra sì: oggi, con le riforme in discussione, si assiste a una tendenza a concentrare tutto il potere nelle mani del governo, secondo una logica plebiscitaria. Che concede alle minoranze appena un diritto di tribuna.

C’è un problema di mentalità. Da una parte una cultura di derivazione fascista, che vuole mettere in ginocchio la magistratura; dall’altra una cultura liberale, quella dei pesi e contrappesi, che la vuole in piedi: sveglia, "woke" , per essere (non più tanto) alla moda.

Chi vincerà?

Dipenderà da noi, da quanto sapremo difendere la cultura liberale della separazione dei poteri.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.ansa.it/sito/notizie/economia/2025/10/29/la-corte-dei-conti-boccia-il-ponte-sullo-stretto.-meloni-attacca-ennesimo_62954644-cdde-4faa-8faa-6b3474b74323.html .

mercoledì 29 ottobre 2025

Milei e il rischio leninista

 


Seguiamo l’ “esperimento Javier Milei” fin dall’inizio. Per l’Argentina devastata da ottant’anni di ideologia peronista nelle sue varie incarnazioni è qualcosa di nuovo e interessante (*).

Tuttavia Milei, a sua volta, incarna le contraddizioni, inevitabili, dell’introduzione dei principi liberali (a cominciare dai principi economici) in società welfarizzate o comunque contagiate dall’individualismo protetto. Cioè dal perseguimento personale della felicità  sentito  non  più come diritto individuale ma come dovere dello stato. 

E poichè  la politica, almeno dalla Rivoluzione francese in poi,  risulta divisa in destra e sinistra, il ruolo dello stato interventista non può che riflettere, con smottamenti talvolta gravissimi, come in questo momento, letali divisioni tra posizioni conservatrici, in molti casi addirittura reazionarie, e progressiste, ciclicamente sconfinanti nel radicalismo.

Sicché il dibattito politico degenera – semplificando – in battaglie tra estremisti politici, al punto di favorire il successo di demagoghi che sposano le cause più radicali, a destra come a sinistra. Oggi si chiamano populismi.

Al momento sta prevalendo la destra estrema, che sventola la bandiera del dio, patria e famiglia, alla quale si oppone una sinistra che proclama la necessità improrogabile di un’uguaglianza sostanziale.

 


Sia destra che sinistra proclamano l’importanza del ruolo dello stato nel perseguimento della felicità individuale. Di qui la tendenza degli individui a scorgere nei poteri pubblici un padre al quale chiedere protezione, perché conosce alla perfezione quale sia il bene per ogni singolo cittadino. 

 La credenza, in questo fatto, finta o vera che sia, genera ciò che abbiamo definito l’ individualismo protetto. L’esatto contrario dell’individualismo puro, spesso addirittura eroico, che ha fatto grande la società occidentale e liberale, dalle navi da corsa alle navi digitali.

In questo contesto, già di per sé abbastanza complicato, si muove Milei, che però se fosse veramente, come dice ( e dicono i suoi sfegatati fans), libertario, anarco-capitalista, “austriaco” (seguace di Mises, Hayek, eccetera), non dovrebbe neppure stringere la mano a Trump.
 

Si rifletta. Che Milei non la stringa ai suoi avversari socialisti, nazionali o meno, è scontato. Ma cosa può avere in comune un liberale an-archico, con un protezionista, fondamentalista religioso, reazionario come Trump? Nulla.

Certo, ogni ideologia politica, una volta al potere, non può non fare i conti con la realtà. E per chi sia nato in Argentina è difficile non tenere conto della potenza statunitense.

 


Ma il liberalismo è un’ideologia come le altre? O qualcosa che costituisce la spina dorsale del mondo moderno? Oppure ne è  una   vertebra, come può essere il socialismo, per giunta difettosa...

Spina dorsale. E lo si dica senza esitazioni. 

Si pensi al liberalismo come contenitore di tutto ciò che nel mondo moderno respira aria propria: idee, libertà, desideri, persino le sue contraddizioni. Un grande serbatoio d’ossigeno politico, dove convivono -  litigando civilmente, senza dover chiamare la polizia o l’esercito -  destra e sinistra. Grazie allo stato di diritto, alle istituzioni parlamentari, alla separazione dei poteri, alla libertà di stampa.

Detto questo, come si possono definire, i quasi due anni di governo Milei? Tra l’altro culminati nel successo elettorale di domenica scorsa?   Che però lo vede dipendere per governare dai partiti di centro?

Vediamo prima cosa ha combinato Milei in questo lasso di tempo.

Milei ha tentato il colpo di machete sullo stato argentino: ha tagliato, deregolato, smontato ministeri, ottenendo il primo surplus di bilancio dopo 14 anni e un calo dell’inflazione.

Ma il prezzo sociale è stato alto : povertà esplosa nel 2024, poi rientrata solo parzialmente.

 


Altra cosa, Milei ha tolto controlli sui capitali ma li ha messi sui giornalisti; parla di libertà ma nel frattempo ha ridotto gli spazi di manifestazione e informazione.

Raymond Aron, liberale triste, ricordava  a un pensatore del calibro di Hayek (il quale, tra il serio e il faceto non respingeva del tutto l’idea), i pericoli di un liberalismo economico che vada troppo a braccetto con l’ autoritarismo politico (**).

Detto altrimenti il rischio è quello di privatizzare i beni pubblici e di “statizzare” le coscienze, trascurando gli aspetti interiori dell’uomo, che hanno inevitabilmente una ricaduta sociologica in chiave di riduzione di fatto del pluralismo delle idee (***).

Ciò significa che l’ Argentina rischia di diventare  il laboratorio di una “libertà zoppa”, dove la mano invisibile del mercato convive con il pugno visibilissimo dello stato.

 


Ecco perché, se ci si passa l’espressione, il “pappa e ciccia” con Trump, l’uomo dei decreti esecutivi, della guardia nazionale federalizzata, dello squadrismo contro i migranti, non promette nulla di buono.

Perciò, al di là delle esagerazioni delle opposte tifoserie pro o contro il sacro ( o maledetto) esperimento argentino, non è facile emettere un giudizio “sereno” su Milei. Al momento diremmo che è quasi impossibile: chi lo adora vede il ribelle che taglia le unghie alla casta; chi lo detesta vede un demolitore con il martello in mano che mena colpi alla cieca.

Come detto, Milei si proclama “anarco-libertario”: nemico dello Stato, difensore dell’individuo assoluto. 

Eppure governa come un statista interventista: decreti d’emergenza, limitazioni al diritto di sciopero, sorveglianza digitale, insulti ai giornalisti.

Qui la contraddizione è teorica e profonda: l’anarco-libertarismo nasce per ridurre il potere coercitivo dello stato, ma in Milei lo stato diventa il braccio armato, come pare, della “libertà economica”.

È come se Milei volesse distruggere il Leviatano usando il Leviatano stesso. Un po’ come se un pacifista si affidasse ai carri armati per spiegare la pace.

 


Il risultato è un libertarismo autoritario: un ossimoro politico che rivela la fragilità di una visione dottrinaria quando passa dal seminario per pochi alla realtà sociale di tutti.

Certo, come si ripete, si deve avere pazienza,  perché la mano invisibile vincerà o  comunque l'economia decollerà  grazie all'opera di individui razionali e informati.

Una visione che dal punto di vista della struttura mentale ricorda quella di Lenin. Il quale confidava nella dittatura del proletariato, proprio come Milei confida in quella dello stato. E si badi, tutti e due (il primo apertamente, il secondo molto meno), sostengono la stessa tesi. Un miscuglio di utopia e dottrinarismo: un veleno ideologico molto pericoloso.

Si dirà che senza maniere forti, nessuna idea può essere realizzata. E qui torniamo a quanto dicevamo sul liberalismo come contenitore. 

Il liberalismo non è di destra né di sinistra. E per questo garantisce, grazie a una serie di istituzioni (a cominciare dallo stato di diritto), quella tensione naturale tra destra e sinistra che è molla di progresso. Che però non deve mai degenerare come sta accadendo.  Serve senso della misura.

Detto altrimenti Tocqueville non deve mai cedere il posto a Lenin, che a sua volta può generare Mussolini. E nel caso argentino, un nuovo Peron.

Che poi siano idee anarco “qualche cosa” o comuniste non cambia nulla. Perché ogni eccesso di dottrinarismo rischia di provocare l’agonia e la morte del liberalismo. 

Al momento, il  migliore dei regimi politici possibili. E come dicevamo,  spina dorsale della modernità.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/search?q=milei .
 

(**) Su Hayek si veda R. Aron, Il concetto di libertà, pref. di E Craveri, Ideazione Editrice, Roma 1997, pp. 33-76.
 

(***) Su punto si veda sempre di R. Aron, Teoria dei regimi politici, Edizioni di Comunità, Milano 1973.

martedì 28 ottobre 2025

Orbán, l’amico del Cremlino a Palazzo Chigi: la visita che l’Italia non doveva concedere

 


C’è un momento, nella diplomazia, in cui la cortesia diventa complicità.

E ricevere Viktor Orbán a Palazzo Chigi, nel pieno di un conflitto in cui l’Europa cerca disperatamente di restare unita, appartiene esattamente alla seconda categoria. Non ci si dica, che in Europa ognuno va per conto proprio. E che alla fin fine, vale la regola del si salvi chi può. Quindi perché non trattare in modo amichevole e realistico anche l’amico di un nostro nemico?

In realtà, se proprio di realismo politico si vuole parlare, la regola è: i nemici dei miei nemici sono miei amici.

E invece Giorgia Meloni ha accolto a Roma il premier ungherese, l’uomo che da anni rappresenta la spina più pungente nel fianco dell’Unione Europea. L’incontro è stato descritto come bilaterale, cordiale, utile al dialogo. Ma dietro il linguaggio neutro del cerimoniale si nasconde un fatto politico inequivocabile: Orbán è il principale alleato di Vladimir Putin dentro l’Occidente, e riceverlo con tutti gli onori significa concedere legittimità a un amico di un nostro nemico.

Da tempo, il leader ungherese gioca una partita personale: quella di un’Europa “illiberale”, cristiana nei simboli e autoritaria nei metodi, ostile a Bruxelles ma dipendente dai suoi fondi.

Una specie di parassita, che però diffondendosi, può uccidere, l’organismo europeo, già in condizioni cattive, a causa dei successi dell’estrema destra un poco ovunque.

Orbán ha bloccato pacchetti di aiuti militari all’Ucraina, indebolito la linea comune sulle sanzioni e intrattenuto rapporti economici e diplomatici con Mosca anche dopo l’invasione del 2022.



Ogni volta lo fa con lo stesso refrain: “Noi vogliamo la pace”. Ma nel suo linguaggio “pace” significa resa, e “neutralità” significa convenienza energetica.

Dietro l’immagine del pacificatore c’è un calcolo: erodere dall’interno la compattezza dell’Unione e costruire una rete di “resistenze sovraniste” — dall’Ungheria all’Italia, passando per altri paesi, magari dell’Est— che indebolisca l’asse euro-atlantico.

Un piano che a Mosca non dispiace affatto. E che probabilmente promuove puntando sulla disinformazione e altri colpi proibiti.

Come al solito, Giorgia Meloni, rivendica un realismo pragmatico, corrompendone il significato. “Si parla con tutti”, dice.

No. il realismo politico, quello vero, imporrebbe di parlare con gli amici dei miei nemici.

In un’Europa che fatica a trovare coerenza tra le dichiarazioni di principio e le convenienze energetiche, Orbán è il testimone perfetto, nell’ipotesi migliore, dell’ambiguità.

Accoglierlo a Roma significa rischiare di importare quantomeno quell’ambiguità dentro la nostra stessa politica estera.

Giorgia Meloni si presenta come una leader che ha dato all’Italia una postura atlantista, affidabile, coerente, nonostante l’origine post-fascista del suo partito.



Eppure, con Orbán in salotto, quella credibilità traballa: l’Italia meloniana sembra tentata dal doppio gioco: solidale con Kiev a parole, indulgente con Mosca nei fatti.

Ora, ammesso e non concesso il pragmatismo meloniano, il punto non è vietare il dialogo, ma riconoscere il peso simbolico di chi si invita.

Orbán non è un interlocutore qualsiasi: è un premier che censura la stampa, riscrive le regole elettorali, e usa la religione come legittimazione politica. 

Il caso di Ilaria Salis dipinta su base indiziaria come pericolosa terrorista, è una prova evidente dell’arretramento sul fronte dello stato di diritto. Senza dimenticare l’antisemitismo strisciante culminato nella sanzioni politico contro Soros. L’Ungheria di Orbán è nei fatti, il volto istituzionale dell’anti-liberalismo europeo. E la cosa non va sottovalutata nel paese che vide nascere e impazzare le Croci Frecciate, cioè i nazisti ungheresi: veri talenti nella caccia agli ebrei.

L’Italia che si fregia di essere madre della democrazia occidentale dovrebbe sapere che certi incontri non si archiviano con la formula scambio franco e costruttivo. Perché non si tratta di diplomazia: si tratta di identità politica. Liberale

C’è una pericolosa illusione che attraversa una parte della destra europea, la peggiore quella dalle radici o simpatie fasciste: di poter costruire un “altro Occidente”, più chiuso, più etnico, più muscolare. Probabilmente, fatte le debite proporzioni, un “Nuovo Ordine” che parla ai cuori neri. E che piace a Trump, cuore malvagio di una America che tradisce i valori liberali racchiusi nella Dichiarazione d’Indipendenza, nella Costituzione e argomentati in modo sontuoso nel montesquieuano The Federalist.



Ma l’Occidente, quello vero, non è una categoria geografica o razziale — è un insieme di valori: libertà di stampa, pluralismo, separazione dei poteri, responsabilità internazionale. Orbán li ha svuotati uno per uno, fino a farne un guscio retorico.

Riceverlo come un pari non è solo un errore di stile: è una concessione di principio. Giorgia Meloni aveva una scelta: riceverlo come partner o considerarlo come problema.

Ha scelto la prima opzione, nella speranza di apparire come la “voce del dialogo”. Ma in politica estera, il dialogo senza una linea di vero realismo politico è solo rumore per imbrogliare le cose.

E così Roma, per un giorno, è sembrata più vicina a Budapest che a Bruxelles. Un dettaglio? Forse. Ma nella geografia morale di un’Europa assediata dalle guerre e dai populismi assetati di un “Ordine Nuovo”, i dettagli contano.

E Giorgia Meloni, per le sue origini neofasciste, sembra sapere benissimo da che parte stare: di sicuro non quella dell’Occidente liberale.
 

Carlo Gambescia

lunedì 27 ottobre 2025

Le sorelle Meloni. Le radici, il selfie e l’arte dell’ammiccamento

 


Colpisce questo selfie delle sorelle Meloni. Una foto familiare, certo, ma anche  - come spesso accade nella politica contemporanea -  occasione per un piccolo esercizio di metapolitica. Sotto vi si parla di radici. Si razionalizza, cioè si giustifica ex post, l’ esistenza di un passato degno di essere trasmesso ed evocato. E come  evidenzia, quasi messo lì per caso quel "Giorgia 2027", già si lavora, in modo previdente, per le prossime politiche. Le metastasi  reazionarie si fanno ambiziose.

Intanto, quali radici, esattamente?

Tra i commentatori (fin dove siamo riusciti a leggere), alcuni evocano la Garbatella: il quartiere popolare dove Giorgia Meloni è cresciuta per un certo periodo della sua infanzia. È il consueto repertorio mitizzante: il popolo vero, l’autenticità, la romanità, il quartiere come habitat identitario. Ma a guardare meglio, quella parola - radici - funziona come un segnale a più livelli.

Le radici, nel linguaggio della destra nostalgica italiana, non sono mai solo geografiche o affettive. Sono un modo elegante per parlare d’identità, di appartenenza, e soprattutto di continuità. Nel caso specifico al Movimento Sociale Italiano, partito che si richiamava al fascismo. E al quale Giorgia aderì giovanissima. Poi vennero Alleanza Nazionale e Fratelli d’Italia. 

Gli unici tentativi di costruire una destra democratica in momenti diversi – Democrazia Nazionale (1976) e Futuro e Libertà per l’Italia (2010) – abortirono miseramente: la base post-missina e soprattutto gli elettori non vollero saperne.

Pertanto radici è una parola che rassicura e insieme seleziona: fa sentire “a casa” chi riconosce il codice “nero”, e lascia tranquilli gli altri, cioè coloro che chi vi leggono solo un richiamo familiare.

Però - cosa che va detta -  sotto quel selfie non appare nessun commento apertamente neofascista, almeno non nello spazio visibile.

Ma non è questo il punto. Il linguaggio allusivo serve proprio a non dover dire. È un gioco di riconoscimento tra chi parla e chi ascolta, un ammiccamento simbolico che lega la comunità politica molto più di qualsiasi slogan. Non dimentichiamo che stiamo parlando di un’area politica legata, e da sempre, alla retorica dell’ “esule in patria”.

Ovviamente “esule” nella patria democratica, cioè dopo il 1945. Sarebbe invece necessario parlare di barbari accampati in Italia per oltre vent’anni, dopo averla messa a ferro e fuoco. Perché il fascismo, per sua stessa ammissione, teorizzò e praticò l’antidemocrazia. Ma quali “esiliati in patria”? Quali “esuli”? Se di radici si tratta, sono radici che affondano nella barbarie del "Ventennio".

Di conseguenza, la Garbatella -  in realtà quartiere antifascista che nel dopoguerra si affiancò a San Lorenzo, altro luogo simbolico della resistenza romana (durante la cosiddetta Marcia su Roma vi furono lì gli unici scontri armati con i fascisti) - diventa oggi il pretesto popolare di una genealogia più profonda: quello di celebrare, senza fare troppo rumore le vere radici, quelle ideologiche, che affondano nel Movimento Sociale Italiano e, più indietro ancora, nel fascismo storico.

Nessuno le nomina, si preferisce evocarle. È un linguaggio di superficie che rimanda a un fondale ben noto, “nero”: chi sa, capisce. E apprezza. Sotto il selfie si legge qualcosa di tremendo se lo si riconduce alle radici fasciste e neofasciste: “Le radici sono la nostra forza. Chi ti conosce da sempre sa da dove vieni e perché non ti fermerai mai”. Occhio: dietro il cuoricino c'è il  vecchio santo manganello. 

Quando il linguaggio politico diventa fortemente simbolico e cifrato, la trasparenza democratica ne risente: l’elettore “capisce” se sa leggere il codice, chi non lo sa può restare fuori o interpretare diversamente: ciò porta a una sfida nella sfera pubblica: come discutere ciò che non viene detto esplicitamente? 

È qui che la complicità simbolica mostra la sua forza: costruisce consenso senza confronto, appartenenza senza argomentazione.

E infatti oggi si parla sempre meno di fascismo e neofascismo.

Il rischio democratico non sta tanto ( o solo) nei saluti romani quanto in un fatto preciso: se la destra utilizza simboli che richiamano il passato fascista e neofascista senza nominarlo, si ha una normalizzazione simbolica. che in altri tempi sarebbe stato oggetto di dibattito pubblico acceso e di ben altre reazioni politiche.

Quando un messaggio riesce a dire due cose diverse a due pubblici diversi, rassicurando i moderati e galvanizzando i nostalgici, la democrazia si ritrova davanti a una nuova ambiguità: quella dell’identità che non osa dirsi, ma che organizza il consenso.

In fondo, non siamo davanti a un selfie privato ma a un autoritratto politico. Che potrebbe essere anche quello del popolo italiano, un popolo di smemorati, che sembra aver dimenticato cosa fu il fascismo: la dittatura, le persecuzioni, l’antisemitismo, l’alleanza con Hitler, la guerra civile. Ma come si può dire che Mussolini “fece anche cose buone”?

Eppure lo si dice, se non lo si dice lo si pensa. Sicché quel selfie è intriso di una nostalgia che è genealogia. E quando la genealogia si traveste da affetto, la storia smette di essere maestra,  diventa complice di una ideologia: la neofascista.

Carlo Gambescia

domenica 26 ottobre 2025

Lira ed euro. Breve metapolitica della nostalgia monetaria

 


C’è una tendenza, mai scomparsa, a rimpiangere la lira. Una specie di dato metapolitico. La nostalgia rimanda non tanto al suo valore economico, quanto a ciò che rappresentava: una moneta “nostra”, tangibile, familiare. 

La memoria monetaria si intreccia con quella collettiva e finisce per trasformarsi in mito un poco fascista.: la lira come emblema di un’Italia più ordinata, più concreta, più seria. Capito? dio, patria, famiglia e lira… Sogni che possono tramutarsi in incubi politici.

Anche perché i numeri raccontano un’altra storia.

Per fare un esempio terra terra, nel 1978, un cappuccino costava circa 250 lire, un cornetto 150–200 lire: totale 400–450 lire, 50 centesimi di euro, per capirsi. Nel 2002, ventiquattro anni dopo, con l’arrivo dell’euro come moneta liquida, la stessa colazione costava 1,50 euro, pari a 2.900 lire. Oggi, nel 2025, ventitré anni dopo, la paghi mediamente 2,80 euro, cioè circa 5.400 lire.

Dunque, in quasi mezzo secolo, il prezzo è cresciuto di circa dodici volte. Ma nello stesso periodo il livello generale dei prezzi è aumentato di circa dieci volte, mentre i salari reali — pur stagnanti nell’ultimo ventennio — erano molto più bassi negli anni Settanta.

In altre parole, non era la lira a essere forte, ma la capacità di mitizzazione del passato dell’essere umano, in particolare se italiano e di simpatie nazional-fasciste, per dirla con Salvatorelli.

Altri numeri. Nel 1978, lo stipendio medio di un operaio era di 250.000 lire al mese. Oggi l’equivalente, in potere d’acquisto, supera i 1.200 euro, cioè circa 2,3 milioni di lire. Se si divide lo stipendio per il costo di una colazione, si scopre che l'ordine delle grandezze è più o meno simile.

La “catastrofe dell’euro” non esiste: come detto, esiste il ricordo, spesso infedele, di un’epoca di cui piace credere fosse tutto più semplice. Forse perché da boomers, si era più giovani e belli e le cifre erano più piccole e graziose (*).

La nostalgia monetaria, dunque, è un fatto sociologico prima che economico. Diremmo addirittura metapolitico. Rivela la difficoltà antropologica di adattarsi all’astrazione della modernità, del denaro come segno simbolico e oggettivo, secondo l’insegnamento del grande Simmel.

Tradotto: l’euro non è più la moneta che si tocca e si accumula nel salvadanaio: è simbolo e sistema, una convenzione complessa che funziona solo dentro reti fiduciarie globali. La perdita non è materiale, ma immaginaria: riguarda il passaggio da un’economia visibile a una invisibile, da un mondo di oggetti a un mondo di segni.

C’è poi un aspetto geopolitico (per usare un termine purtroppo tornato di moda), raramente affrontato con serietà: la vulnerabilità dell’Italia se davvero decidesse di uscire dall’euro.

Un ritorno alla lira significherebbe esporre il Paese a una tempesta perfetta: immediata svalutazione della nuova moneta, aumento del costo delle importazioni e del debito pubblico denominato in euro, fuga di capitali, inflazione incontrollata.

In assenza dello “scudo” rappresentato dall’area euro, il nostro Paese tornerebbe ad avere una moneta debole in un contesto di mercati forti, come negli anni Settanta e Ottanta,  ma senza più il margine di crescita industriale che allora permetteva di assorbire gli shock valutari.

Il vero problema italiano, non è l’euro, ma la bassa produttività (**).

Infine, se si uscisse dall’euro, la credibilità internazionale dell’Italia ne risulterebbe gravemente compromessa: tassi d’interesse più alti, aumento del debito, contrazione dei risparmi, minore attrattività per gli investimenti. In breve, una sovranità monetaria senza potenza economica: l’indipendenza apparente che si paga con la dipendenza reale.

Concludendo, la nostalgia della lira non parla di economia, ma di società: di come gli italiani faticano ad accettare la complessità, confondono memoria e mito, e cedono al fascino di simboli tangibili che rassicurano ma ingannano. L’euro non è un nemico, la lira non è mai stata un paradiso: ciò che resta è un desiderio di semplicità, di concretezza, di sicurezza perduta, desideri che, se politicizzati, diventano terreno fertile per fantasie autoritarie.

In altre parole, la nostalgia monetaria non è mai innocua: è una fessura nella storia, pronta a trasformare il ricordo in inganno, il mito in pericolo.

Carlo Gambescia

(*) Gli esempi sono frutto di nostre elaborazioni su fonti economiche affidabili: https://www.istat.it/wp-content/uploads/2025/02/REPORT_SES_2022_ENG.pdf?utm_source=chatgpt.com (ISTAT); https://fred.stlouisfed.org/series/FPCPITOTLZGITA?utm_source=chatgpt.com# (FRED); https://www.worlddata.info/europe/italy/inflation-rates.php?utm_source=chatgpt.com (WORLDDATA.INFO). Infine, a proposito di tazzine di caffè, pur con alcune imprecisioni, diciamo per eccesso (ma simpatia assicurata) si ceda qui: https://www.youtube.com/watch?v=10Fh7EjmOKE .

(**) Per una analisi approfondita della questione si legga qui: https://lavoce.info/archives/105243/la-crescita-italiana-che-non-ce/?utm_source=chatgpt.com .

sabato 25 ottobre 2025

Intelligenza Artificiale. Purtroppo Heidegger e Marx vivono e lottano insieme a noi

 


Il nostro titolo è frutto di esagerazione? No. Sicché rilanciamo. L’ arcaica antipatia, se non odio, di Heidegger, filosofo che ammirava Hitler, verso ogni forma di tecnologia vive e lotta insieme a noi. Quantomeno come mentalità. Purtroppo. E Marx? Idem, ma in versione statalista-collettivista. 

Da questo mese di ottobre, ogni professionista italiano – dal notaio all’architetto, fino ai consulenti di qualsiasi tipo, anche in assenza di albi professionali – dovrà dichiarare ai propri clienti se, come e quanto si avvale dell’intelligenza artificiale.

È l’effetto della Legge 132/2025, che nel suo articolo 13 introduce un obbligo heideggeriano. Quale? Informare, con linguaggio chiaro e semplice, dell’eventuale uso di sistemi di IA “a supporto” della prestazione professionale (*).

Dietro la cortina della trasparenza si intravede un riflesso più profondo e inquietante.
Perché lo Stato che chiede al professionista di giustificare l’uso dell’IA non sta difendendo il cittadino, ma affermando un principio: la tecnologia è pericolosa. E, comunque sia, il suo uso va regolamentato.

Si rifletta: se Watt, Kay o Hargreaves fossero stati costretti a rispettare obblighi di trasparenza, informative preventive e regole per ogni microinvenzione, come accade oggi con l’uso dell’intelligenza artificiale, probabilmente la rivoluzione industriale non sarebbe mai nata.

Quelle piccole modifiche quotidiane, quei perfezionamenti empirici nei motori, nei telai o nelle filatrici — come dicevamo le microinvenzioni — erano il vero motore dell’innovazione: si provava, si sbagliava, si correggeva, si accumulava esperienza pratica. La libertà di sperimentare senza barriere normative ha permesso di trasformare idee isolate in sistemi produttivi funzionanti.

Oggi, invece, ogni piccolo progresso rischia di essere soffocato da moduli, obblighi di dichiarazione e autocertificazioni, come se la creatività potesse essere ingabbiata prima ancora di esprimersi. E questo è l’aspetto heideggeriano della misura.

Il secondo aspetto rinvia alle professioni un tempo chiamate liberali, richiamando l’idea liberale del libero esercizio di un lavoro e della responsabilità attiva. In realtà, questa legge sembra giudicare la competenza professionale — se si lavora in proprio — come sospetta quando mediata da strumenti tecnologici.

 


Come se l’algoritmo contaminasse la libertà di fruire del sapere, e l’unico modo per redimersi fosse la confessione preventiva.

Siamo davanti a una forma di burocrazia etica, diffidente nei riguardi della tecnologia e della libertà individuale. Una burocrazia basata sull’idea collettivista che il pubblico sappia meglio del privato ciò che sia bene per ogni singolo individuo. Dopo Heidegger, Marx. Una miscela esplosiva, tra un filosofo nazista e un filosofo comunista.

Un pubblico che non sa regolare il potere reale dell’IA – quello delle grandi piattaforme, dei data center e soprattutto dei monopoli informativi – e che ripiega sui micro-poteri privati, per giunta quotidiani: avvocati, ingegneri, docenti, consulenti.

Non potendo controllare le Big Tech, controlla i professionisti. Ripetiamo. Heidegger e Marx vivono e lottano insieme a noi. Purtroppo.

Va anche detto che l’Italia arriva dopo l’Europa, e male. Perché fa di più. E peggio.

 


Il Regolamento UE 2024/1689 (“AI Act”), approvato a Bruxelles la scorsa primavera, già prevede obblighi di trasparenza e tracciabilità per i sistemi di intelligenza artificiale, ma li rivolge ai produttori e agli utilizzatori industriali — non ai singoli professionisti. L’obiettivo europeo è regolare il rischio dei sistemi, non moralizzare l’uso che ne fa un avvocato o un architetto (**).

L’Italia, come spesso accade, ha tradotto una norma di principio in un adempimento cartaceo. Dove Bruxelles chiede trasparenza tecnologica, Roma impone trasparenza notarile…

Risultato: un’ulteriore sovrapposizione di carte, moduli e dichiarazioni preventive, come se la fiducia si costruisse a colpi di autocertificazioni.

Si dirà: è solo un obbligo di informazione, nulla di più. Ma anche i moduli in Italia fanno cultura. Cultura statalista e illiberale.

Concludendo: Heidegger, Marx e Meloni. Perché non va dimenticato che questo è un regalino del governo di destra. Anzi, per meglio dire, fasciocomunista.

Carlo Gambescia

(*) Normativa italiana qui: https://www.uilpa.it/wordpress/wp-content/uploads/2025/09/Legge-132-2025-intelligenza-artificiale.pdf?utm_source=chatgpt.com
(**) Normativa europea qui: https://eur-lex.europa.eu/eli/reg/2024/1689/oj/eng?utm_source=chatgpt.com;

venerdì 24 ottobre 2025

L’Europa e l’arte di sprecare l' intelligenza (finanziaria) liberale

 


L’Unione Europea sembra aver trovato ieri la soluzione per finanziare la resistenza e la ricostruzione dell’Ucraina senza chiedere un euro ai propri cittadini: usare i soldi russi. O per essere precisi far finta di usarli.

Dopo mesi di discussioni, Bruxelles ha trasformato l’ipotesi in una decisione: i proventi finanziari generati dagli asset russi congelati saranno automaticamente destinati all’Ucraina.

Non il capitale — quello resta intoccabile, per ora — ma gli interessi maturati, cioè la liquidità che i  circa 210 miliardi di euro russi “parcheggiati” presso la Euroclear di Bruxelles continuano a produrre.

 


Tradotto: gli interessi, cioè i rendimenti generati dagli asset russi congelati, verranno utilizzati dall’UE per emettere o finanziare titoli/debiti da collocare sui mercati o all’interno della struttura comunitaria, e parte di questi fondi sono destinati all’Ucraina, sotto forma di prestito molto agevolato, si parla perfino di tasso zero. Fondi che l’Ucraina dovrà restituire solo quando la Russia effettuerà le riparazioni di guerra (*).

Si dirà: una magnifica decisione frutto dell’intelligenza (finanziaria) liberale. E per varie ragioni: come capacità di mediare tra i decisori (spesso indecisi); come articolazione finanziaria: trasformazione di liquidità (gli interessi) in titoli, con commissioni, quindi ci si guadagna pure qualcosa; come collegamento a un evento futuro, di rischio calcolato: il pagamento delle riparazioni di guerra da parte della Russia.

Insomma un’operazione elegante. Certamente, ma più di forma che di sostanza.

L’intelligenza liberale in campo economico si mostra evidente. Ma tutto questo alimenta in noi la percezione dello spreco: un abile gioco di alta ingegneria finanziaria che finisce per mascherare una politica troppo povera di sostanza.

Un passo indietro. I numeri, come sempre, parlano da soli.

Come detto gli asset russi congelati ammontano a circa 210 miliardi di euro; gli interessi generati da questo “tesoretto” fruttano all’incirca 3 miliardi di euro l’anno, che, se i mercati risponderanno, verranno convogliati nel fondo per l’Ucraina.



Una cifra che a Bruxelles definiscono “significativa”, ma che al confronto con il fabbisogno ucraino — tra i 30 e i 40 miliardi l’anno solo per mantenere in vita lo Stato — appare per quello che è: spiccioli, una manciata di miliardi in tutto (**). L’alta ingegneria finanziaria si risolve in quattro soldi di elemosina.

Eppure, il meccanismo viene celebrato come una “svolta storica”.

In realtà, per dirla alla buona, si tratta della classica montagna che partorisce il topolino. Oppure, se si preferisce, dell’altrettanto classico dito, sul quale ci si fissa, dimenticando che invece è rivolto verso la Luna. Il dito — per restare nella metafora — sono gli asset russi: un simbolo politicamente comodo, che permette di dire “l’Europa agisce”, senza chiedere sacrifici ai contribuenti. La Luna, invece, è la domanda vera: come finanziare in modo stabile la difesa e la ricostruzione ucraina, e a quale prezzo politico.

Ma su questo, silenzio. Meglio far parlare le formule e i regolamenti, meglio rifugiarsi nel linguaggio asettico dei meccanismi “innovativi”. Qui lo spreco dell’intelligenza economica, quando si pone al servizio della politica.



Del resto, si sa, la contabilità rassicura. E la “furbata contabile” — appena istituzionalizzata — è il vero cemento dell’Unione. Insomma un’Europa che continua a preferire i raffinati lifting di bilancio alle scelte politiche, truccando il volto della realtà mentre il conflitto avanza.

Detto altrimenti: un’Unione che, sprizzando intelligenza finanziaria da tutti i pori, cerca di occultare il proprio deficit politico. Soprattutto decisionale. Che si rifugia nei meccanismi contabili per non scegliere.

Il risultato è un liberalismo che strizza l’occhio alla tecnocrazia per mascherare la propria depoliticizzazione. Così il fine — la politica — viene delegato al mezzo — l’economia.

Quanta intelligenza liberale sprecata.

Carlo Gambescia

(*) Qui sulle decisioni prese ieri: https://www.consilium.europa.eu/en/press/press-releases/2025/10/23/19th-package-of-sanctions-against-russia-eu-targets-russian-energy-third-country-banks-and-crypto-providers/?utm_source=chatgpt.com . Qui sul supporto europeo all’Ucraina: https://commission.europa.eu/topics/eu-solidarity-ukraine/eu-assistance-ukraine/ukraine-facility_en?utm_source=chatgpt.com.

(**) Qui sul fabbisogno ucraino: https://english.nv.ua/business/ukraine-has-received-30-6-billion-in-financial-aid-this-year-but-still-needs-more-50546907.html .

giovedì 23 ottobre 2025

No Kings Day. Il 3 per cento e il modulo B della libertà

 


Dopo il No Kings Day, ben riuscito (e ne siamo felici), impazza negli ambienti liberal la teoria di una studiosa, Erica Chenoweth, che insegna a Harvard, nota non solo negli ambienti accademici per la cosiddetta “regola del 3 per cento” (*).

Secondo le sue ricerche, se una minoranza pari ad almeno il tre per cento della popolazione partecipa a un movimento non violento, quel movimento ha buone probabilità di cambiare un regime o di determinare una svolta politica.

Questo significherebbe che, se davvero alla manifestazione No Kings hanno partecipato — come sostengono gli organizzatori — circa sette milioni di persone, il traguardo del tre per cento (vale a dire poco più di undici milioni di americani) sarebbe ormai a portata di mano. E con esso, dicono, la caduta di Trump. Ma in che senso? Per via elettorale? Per logoramento politico interno? O per un improvviso risveglio democratico? Non è affatto chiaro.

A suo tempo abbiamo letto il libro di Erica Chenoweth, e non ci ha convinto, per ragioni di “campione”.

Il campo degli esempi storici, ridotti in termini quantitativi (cosa già di per sé soggetta a errori legati alla diversità delle fonti statistiche), è ristretto al Novecento e alle democrazie non mature o in via di costruzione,  soprattutto in Europa orientale e nel mondo asiatico.

Apparentemente gli Stati Uniti — la democrazia con la costituzione scritta più antica e una cultura politica pattizia — potrebbero rientrare nel “campione”. Però non confideremmo troppo nella regola del 3 per cento estesa agli Stati Uniti di oggi.

Perché?  A dirla tutta, si tratta di una teoria che nasce da un’interpretazione apologetica del gandhismo. Ci spieghiamo meglio: fu movimento non violento, quindi cosa verissima, ma incontrò sulla sua strada la cultura pattizia britannica, predisposta al compromesso. Mentre Trump e il suo movimento sembrano addirittura disprezzare la cultura pattizia, allontandosi in questo modo dalla sane tradizioni liberali americane.

 


Insomma, perché la regola del 3 per cento funzioni, bisogna essere in due. Oppure deve trattarsi, come in alcuni Stati nella transizione dal comunismo al postcomunismo, di regimi in avanzato stato di decomposizione, incapaci perfino di ricorrere all’uso delle armi per difendersi.

Nonostante ciò, un dato empirico — interessante ma ballerino — è diventato rapidamente dogma nelle ONG, nei policy paper e nelle aule universitarie: quei movimenti e ambienti odiati, piaccia o meno, dalla destra non solo trumpiana.

Ma non è tutto. Curiosando nella biografia di Chenoweth, si scopre un altro primato: nel 2023 è diventata il primo dean pubblicamente non binario di Harvard. 

“Binario”, per i meno informati, significa che non si riconosce in nessuno dei due generi. Diciamo pure: un genere fluttuante. Nulla di male, anzi.

Ma qui la sociologia politica lascia spazio all’antropologia del paradosso.

Perché il punto non è l’identità personale, che va rispettata, ma la sua istituzionalizzazione. Siamo davanti al trionfo di quello che potremmo chiamare progressismo burocratico: la tendenza tipica delle società tardo-moderne — le democrazie mature di cui sopra — a trasformare ogni gesto emancipativo in procedura, ogni diversità in regolamento, ogni atto di rottura in un nuovo modulo da compilare. La ribellione con timbro in protocollo.

Forse esageriamo, ma esiste un filo rosso — sottile, ma visibile — tra la “regola del 3 per cento” e la nuova sensibilità accademica progressista che celebra la fluidità di genere come status istituzionale.

In questo senso, la “regola del 3 per cento” e carriera simbolica e teorie politiche della – pardon – di Chenoweth raccontano la stessa storia: la rivoluzione come gestione, la dissidenza come progetto finanziato, la coscienza civile come brand morale.

Tutto rientra in un ordine, persino la disobbedienza. Come dire? E vissero tutti felici e contenti. Magari fosse così, saremmo tra i primi iscritti al nuovo gruppo “Regno di Utopia”.



La verità, purtroppo, è un’altra: un liberalismo ridotto a etichetta di correttezza non spaventa nessuno, tantomeno la selvaggia destra americana (e non solo), che si nutre proprio di questa mollezza. “Dio, patria e famiglia” può sembrare — e lo è — un trinomio arcaico, ma contro il progressismo dello schiaffo sugli attenti torna a suonare virile, rassicurante, vivo. Non si dimentichi l’Homo Ludens che ha letto Nietzsche. L’uomo è più arcaico e rozzo di quel che comunemente si crede.

Ecco il paradosso politico-antropologico: più il liberalismo proceduralizza la differenza, più si svuota.Più predica la tolleranza contro i nemici del sistema liberal-democratico, meno sa difendere la libertà dagli stessi nemici.

Si affida ai codici etici, alle linee guida, alla policy dei pronomi e dei nomi, come se la giustizia potesse essere garantita da un regolamento. E come se le scelte di genere, sessuali o affettive — chiamatele come volete — non fossero un fatto privato.

Che cosa può importare al mondo delle mie scelte sentimentali? Ecco la maturità da perseguire: non per legge, ma per convinzione. Senza bolli né carte d’identità. 

Un tempo il liberalismo era un atto di coraggio: l’idea che la persona contasse più del gruppo, la ragione più del dogma. Oggi è un insieme di buone maniere digitali che sconfinano regolarmente in quel dogmatismo leguleio di cui approfitta la  propaganda di una destra che non si vergogna  di mostrare muscoli gonfi di steroidi fascisti o comunque molto simili.

Così, mentre l’università compila moduli sull’identità fluida, la politica reale torna a parlare il linguaggio arcaico del potere: forza, appartenenza, paura. E ci si illude che Trump farà un passo indietro: lui, un uomo animato da una volontà di potenza spaventevole, e che rifiuta, ed è questo il punto fondamentale, la cultura pattizia.

In realtà, il cambiamento, nel frattempo, è già morto. Mentre i suoi becchini stanno compilando il modulo B o si baloccano con la regoletta del tre per cento.

Carlo Gambescia

(*) E. Chenoweth e M.J. Stephan, Why Civil Resistance Works: The Strategic Logic of Nonviolent Conflict, Columbia University Press, 2011. In italiano si veda E. Chenoweth, Come risolvere i conflitti. Senza armi, senza odio e con la resistenza civile, Edizioni Sonda, 2023. In realtà Why Civil Resistance Works è  un volume scritto a quattro mani. Ma, come sembra, la fama ha baciato solo una delle autrici, pardon autori, no aripardon… faccia il lettore. Qui notizie, su Maria J. Stephan: https://serenoregis.org/autore/maria-j-stephan/.

mercoledì 22 ottobre 2025

Lo Stato paga, dunque comanda. L’amara lezione della Fenice

 


A Venezia La Fenice brucia di nuovo. Non per un incendio, ma per una vecchia malattia italiana: quella dello Stato padrone che paga, pretende e decide.

A dire il vero la cosa ci era sfuggita. Quale? La lettera aperta del Sottosegretario alla cultura, Gianmarco Mazzi ai musicisti della Fenice in agitazione contro la nomina a direttrice di Beatrice Venezi.

Facciamo ammenda. Anche perché la vicenda merita di essere approfondita da un punto di vista più generale.

Come anticipato, l’aspetto essenziale di questa storia non è poi così difficile da individuare. Non è una questione di destra o sinistra, di sessismo o di meritocrazia, ma di struttura del potere culturale in Italia. Certo, non si può ignorare che Mazzi sia iscritto a Fratelli d’Italia e che la Venezi sia, diciamo, simpatizzante. Tuttavia, se entrambi fossero di sinistra, la situazione non cambierebbe: il problema è strutturale.

Il vero nodo è che l’Italia non è un paese per liberali. Non lo è mai stata, e non lo è nemmeno oggi, quando un sottosegretario può rimproverare pubblicamente un’orchestra ricordandole che “la Fenice riceve 22 milioni di euro di fondi pubblici” Di più: con grande magnanimità Mazzi fa anche sapere che sono “soldi che gli italiani pagano perché si lavori e si produca musica” (*).

Dietro queste espressioni di finissimo rispetto per l’arte, tipo “Signo’ è mezz’etto in più di parmigiano, lascio?”, si cela una visione del mondo molto precisa: lo Stato paga, quindi lo Stato decide. È la logica del padrone neppure tanto illuminato, non quella di un mercato libero o di una cittadinanza adulta. È la stessa idea di cultura come concessione, non come espressione.

Nell’universo liberale sarebbero gli spettatori e i dirigenti di un teatro, rispondendo alle domande del pubblico e al gusto di chi paga il biglietto, a scegliere un direttore d’orchestra. In Italia, invece, la nomina di un artista diventa questione ministeriale, e il teatro un feudo amministrativo. A tale proposito, cosa non secondaria, il pubblico della Fenice sembra essere in perfetta sintonia con i musicisti.

 


Però non stupisce che i lavoratori reagiscano come sudditi scontenti di fronte a un nuovo governatore nominato da Roma. È il riflesso di un sistema paternalista, centralista e opaco, in cui la cultura non è bene comune ma patrimonio dello Stato, o comunque di istituzioni contaminate dallo Stato. Del resto le regioni e i comuni sono comunque prolungamento o doppioni di rigidi “poteri pubblici”, e non di spontanei poteri privati che si autofinanziano.

Il problema non sono le simpatie politiche (pur stonate, per chi fa dell’arte una forma di libertà), né le capacità direttoriali di Beatrice Venezi. Il punto è il principio: uno Stato che si sostituisce ai cittadini, decidendo ciò che “è bene per loro”.

Tra l’altro Mazzi fa sapere (cosa che per chi scrive è una vergogna) che “Le fondazioni liriche sono quattordici enti complessi,[che] godono di contributi pubblici pari a oltre 27 milioni di euro al mese, per un totale di 333 milioni all’anno, e nel 2023 sono state patrimonializzate con altri 271 milioni”.

Capito? Ovvio che chi paga poi voglia comandare.

Nel caso della Fenice, sono i poteri pubblici, variamente articolati, dentro una Fondazione (Governo, regione, comune) a decidere ciò che per i veneziani “è bene”. Cioè quello di avere un certo direttore, eccetera. Capace di dirigere? La cosa, alla fin fine, è secondaria. Perché, come detto, “Io pago”. Una bella prepotenza in nome dei soldi pubblici.

 


Finché resteremo ancorati alla logica dello Stato che paga la cultura, continueremo a parlare di nomine e scioperi anziché di idee e pubblico. La cultura, per essere viva, deve essere libera. E innanzitutto libera dal denaro pubblico.

Si dirà: ma allora i teatri fallirebbero, i posti di lavoro andrebbero perduti. Forse sì, ma in un’economia liberale chi decide della sopravvivenza di un teatro non è il ministro, il sottosegretario, i capi e i capetti locali, bensì il pubblico sovrano. È il mercato, bellezza. Taglia il nodo alla radice.

Non è un caso se l’idea di “cultura come funzione statale” risale al fascismo. Allora, il cinema era “l’arma più forte del regime”. Oggi, per il Ministero della Cultura, la lirica è una forma di inquinante e sotterraneo potere ideologico, un mezzo per esercitare controllo e costruire consenso. Per capirsi: “Ora al governo ci siamo noi, destra, dentro i nostri, fuori quelli di sinistra”.  Il che a prescindere da qualsiasi altra valutazione. Detto altrimenti, viva il merito…

Però, si badi bene, il punto non è che ci sia un nuovo regime, ma che l’imprinting istituzionale non è mai cambiato. La mano pubblica non solo finanzia: decide, nomina, indirizza. E chi contesta non è un cittadino che partecipa, ma un dipendente che disobbedisce. E il pubblico? “Chi se ne frega, tanto le spese le pagano Stato, regione, comune”… Si dice Fondazione ma si chiama Sovvenzione.

La Fenice, ironia della sorte, è un teatro che rinasce dalle proprie ceneri. Ma per rinascere davvero, l’Italia culturale dovrebbe bruciare l’idea stessa di cultura di Stato.

Solo allora si potrà parlare di libertà artistica. Solo allora un teatro sarà di chi lo ama, non di chi lo amministra.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://cultura.gov.it/comunicato/28125?utm_source=chatgpt.com .