venerdì 20 ottobre 2023

Pure l’esercito israeliano non è più quello di una volta…

 



Cari amici lettori sapete cosa mi ha detto l’altro ieri il portinaio, con tanto di scopa in mano? “Dotto', pure gli Israeliani, non sono più quelli di una volta”. Alla domanda di chiarire meglio il concetto, ha aggiunto: “Chi mena prima, mena due volte. Troppe preoccupazioni per i civili. La guerra è guerra e deve essere lampo”.

E io gli ho dato ragione e pure la mancia, la “propina” come si dice il castigliano.

Al di là dell’aneddoto. Non è degno, almeno fino a questo momento, delle tradizioni militari israeliane quel che sta accadendo. Troppe chiacchiere, troppe remore morali. In realtà l’alleato americano, che a parole dichiara di appoggiare Israele,  sta facendo una pressione fortissima perché si faccia un passo indietro. Nessuna invasione, con conseguente distruzione di Hamas, nessuna occupazione militare, niente di niente. Si rivolterà nella tomba Moshe Dayan, vincitore nel 1967 nella guerra dei sei giorni, e teorico della guerra preventiva, ma anche degli accordi di Campi di David con l’Egitto di Sadat nel 1978, strategia condivisa con il primo ministro Begin, altro leone delle guerra. Perché, regola numero uno, chi sa fare la guerra sa fare anche la pace.

Il problema è che in realtà Israele, come ogni democrazia liberale,  mostra inevitabili remore morali nei riguardi della guerra. La pubblica opinione, anche internazionale, gioca un ruolo importante nelle decisioni militari, spesso diluendole, eccetera, eccetera. La guerra preventiva non sembra essere più ben vista. Specialità che invece era il forte di Israele. Come nel 1956, quando condusse i suoi soldati fino alle rive del Nilo. E anche lì si misero di mezzo gli Stati Uniti, favorendo indirettamente Nasser, il dittatore egiziano, mezzo (o tutto) nazista, arcinemico di Israele.

Tra l’altro questa volta è Israele a subire un duro attacco preventivo di natura terroristica. Del resto dominano le divisioni interne. La sinistra israeliana ha sposato la tesi del non si può morire per Gaza, i tradizionalisti o fondamentalisti, che non sono poi così politicamente influenti come proclamano le sinistre europee, non hanno una chiara idea  politica sulla gestione politica dopoguerra, che non può essere solo filo spinato.

Sicché il conservatore Netanyahu temporeggia, perdendo così l’iniziativa militare, che si nebulizza, disperdendosi nelle minutissime goccioline delle polemiche mediatiche internazionali frutto velenoso della ruffianeria pro Hamas delle sinistra antisemita (altro che antisionista) e dei lamenti a comando del pacifismo mondiale che piange con un occhio solo prostrandosi dinanzi ai nemici dell’Occidente.

In realtà, non non si è ancora capito che i nemici dell’Occidente hanno dichiarato guerra da un pezzo a Stati Uniti ed Europa. Come prova l’invasione russa dell’Ucraina.

Chi scrive non è un militarista, né un difensore dei pronunciamenti militari, ma ritiene che dinanzi al nemico, che si propone solo la distruzione, non si possa porgere l’altra guancia. Il ragionamento è semplice: Hamas vuole distruggere Israele, di conseguenza Israele se vuole sopravvivere deve distruggere Hamas. Finché in tempo. E di tempo in questi giorni Israele ne ha perso tanto, troppo.

Si dirà che ragioniamo come  un portinaio… In realtà, perché pensare che sulle questioni di vita o di morte, un portinaio debba essere meno preparato di Gad Lerner?

Carlo Gambescia

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