Alle radici (sociologiche) del
razzismo
Salvini scherza col fuoco
Il
razzismo per chiunque lo abbia studiato seriamente è una brutta bestia, sì
l’ultimo termine è forte, ma sostanzialmente corretto. In termini tecnici, si
parla di etnocentrismo, come fenomeno scalare, fondato alle origini, sul pregiudizio di supremazia di un
gruppo etnico sull’altro. Non è dunque solo una
questione di colore della pelle, ma, come indica il prefisso, di
popolo, quindi il pregiudizio si estende alle scelte religiose,
politiche, sessuali, economiche, culturali, eccetera.
Di
regola, l'etnocentrista, o per essere più precisi il razzista, quale etnocentrista apicale, rivendica
idealmente la propria superiorità "gruppale", per poi praticarla introducendo nella vita reale discriminazioni legali. Quindi esiste un razzismo ideale, che resta a livello
di pregiudizi diffusi, e un razzismo ideale-reale che mette in pratica. Pertanto in una società possono esistere
pregiudizi razzisti a livello culturale, come ad esempio nella società
italiana, ma non una legislazione, come negli Stati Uniti dell’Ottocento, ma
anche dopo la guerra civile, che
converte i pregiudizi in norme di legge o comunque che li recepisce come consuetudini sociali con la stessa cogenza delle norme.
Ora,
il tentativo di Salvini di proporre la schedatura dei Rom rientra pienamente
nella categoria del razzismo ideale-reale. Se approvata, saremmo davanti alla
legalizzazione del razzismo. Un salto di qualità, per così dire (pur considerano i gravissimi precedenti del 1938). E questo in un’Italia e in un’Europa che nel Novecento hanno vissuto,
sulla propria pelle, l’attacco gigantesco delle forze bestiali
dell’antisemitismo e del razzismo.
Molti
sembrano non ricordare
- a parte neofascisti e
neonazisti, che se ne vantano tuttora, anzi in questi giorni di “letizia”, sono usciti dalle fogne - la
catastrofe del razzismo applicato. La distruzione di milioni di vite umane solo perché non pure sotto il profilo razziale,
Come
del resto sembra accadere, davanti al pericoloso agitarsi del “sovranismo”, con il ricordo dei danni catastrofici provocati dai nazionalismi armati.
Perché
questo? Per una ragione semplicissima:
la necessità del nemico,
come bisogno di addossare
all’altro, al diverso da noi, le colpe
vere o presunte dei nostri problemi di adattamento sociale. Le società hanno
necessità di capri espiatori per reintegrare e rafforzare il proprio spirito di superiorità. E in
questo buco nero il razzismo trova i
suoi proseliti, prima tra gli scontenti, i falliti, i collerici, i nevrotici, dopo tra gli ambiziosi, gli intransigenti, i vanitosi, gli istrioni.
Di regola, più una società è mobile, quindi aperta alle
carriere, più nascono problemi di adattamento, perché la socializzazione
culturale ha tempi più lunghi rispetto all’adattamento economico e sociale. Di qui, la discrasia culturale tra coloro che ce l’hanno fatta e coloro che
non ce l’hanno fatta. O che comunque, per varie ragioni, anche
ideologiche, non credono nel valore del
cosiddetto ascensore sociale. Persone che non hanno “introiettato”, socializzandola, la
cultura competitiva, ma al fondo benefica, delle
società liberali. Non capiscono che il fallimento di alcuni è il seme per il
successo di altri.
Il
razzismo, come provano moltissimi studi, prospera, all’interno dei gruppi sociali
più poveri - o che si ritengono tali - ma meno poveri dei gruppi sociali, che sono
subito sotto di essi. Per farla breve: dove la povertà - sempre in chiave soggettiva - è relativa (quindi non assoluta), maggiore il bisogno di un capro espiatorio al
mancato adattamento.
Per
contro, i gruppi sociali più in alto, che hanno completato, per ragioni culturali in
particolare, il processo di adattamento, non hanno bisogno di capri espiatori
sociali. Il che spiega - parliamo sempre delle società mobili (dove la mobilità è un valore) - la posizione
antirazzista delle classi elevate.
Sia chiaro però, il razzismo e l’antirazzismo
non sono legati al reddito economico, ma
al mancato (o meno) adattamento tra carriera sociale e convinzioni culturali.
Quale
può essere la morale politica della nostra analisi? Quanto più alto è il livello di risentimento sociale, legato non sempre alle reali condizioni economiche, ma più semplicemente al sistema delle aspettative
sociali crescenti, vincolato, a sua volta, alla memoria
sociale a breve (passato prossimo), cioè non consapevole del progressi fatti a lungo termine ( passato remoto), tanto più
aumenta il rischio della ricerca di un capro espiatorio. E dunque del razzismo "reintegratorio", per così dire.
Il
risentimento, come noto, non dipende dalle condizioni economiche reali (quindi da un giudizio oggettivo), bensì da
valutazioni personali (soggettive), prodotte dal grado di adattamento. In sintesi, maggiore è
l’adattamento, minore il bisogno di cercarsi un colpevole, dunque un nemico.
Il
che non significa, che in politica non
esista la figura del nemico. Esiste eccome. Però accanto a essa, esiste
la figura del nemico immaginario. Ed è quella di cui si serve il razzismo. O se si preferisce, per parlare difficile, l'etnocentrismo apicale.
Salvini,
ad esempio, è un seminatore di odio per eccellenza, che gioca sul
disadattamento altrui, causato da quel risentimento diffuso contro tutto e
tutti che pervade ormai la società italiana da almeno un quarto di secolo. Tra le campagne politiche e mediatiche contro le "caste" e il razzismo c'è un legame assai stretto.
Salvini, ovviamente fa questo per ragioni di potere, mosso da ambizioni
personali, contando su non comuni capacità istrioniche. Però, di fatto, scherza con il fuoco. E dire, come si legge, che è dalla parte della ragione perché gli italiani sono con lui, è roba da fascisti: il linguaggio del demagogo che spiana la strada al tiranno, usando artatamente la democrazia contro la democrazia.
Diciamo invece che gli italiani sono sempre più prigionieri del risentimento sociale. Il che è molto pericoloso perché si tratta di uno stato d'animo, qualcosa di totalmente sganciato dalla situazione reale .Una forza poco controllabile. Insomma, la bestia
razzista potrebbe risvegliarsi e la
storia ripetersi. Purtroppo.
Carlo Gambescia