Povertà
in Italia?
Ma mi faccia il piacere...
Oggi
l’Istat ha comunicato facendo la
gioia dei populisti che in Italia
povertà relativa e povertà assoluta di famiglie e individui, rispetto al 2016, sono cresciute, di poco, ma cresciute (*). E tutti giù a strapparsi in capelli e, di nascosto, cominciando da Di Maio e Salvini, a suonare la trombetta.
Quel che ci interessa segnalare per
evidenziare i limiti di una statistica che ignora il tenore di vita, e soprattutto il cammino sociale percorso dall'Italia, sono le
cifre al di sotto delle quale un soggetto è considerato, qui da noi, povero
in senso assoluto. Argomento sul quale la stampa di solito non si sofferma, dando per scontato che il nostro mondo sia peggiore dei mondi possibili (**).
Concentriamoci allora sulla
povertà in senso assoluto, quella - in teoria - più grave. Ora, secondo l’Istat, si è poveri
in senso assoluto con un valore di spesa per consumi rapportata a un paniere
di beni e servizi ( affitto, bollette, prodotti alimentari, abbigliamento,
spostamenti, svaghi) che, nel contesto italiano, vengono considerati essenziali per conseguire, sul piano della famiglia, uno standard di vita minimamente
accettabile. Si parla di una cifra
media, per individuo, di 710,00 euro, 23 euro circa al giorno (per difetto). Moltiplicabili, con l’uso
di correttivi, per i membri occupati della famiglia.
Ora, secondo la Banca Mondiale ,
il livello di povertà assoluta, ruota
nel mondo intorno a una cifra media di 2 dollari,
pari a 1,79 euro per individuo, 60 dollari al
mese, pari a circa 54,00 euro mensili. Altro che bollette, alimenti, affitto e svaghi…
Povertà
in Italia? Di che cosa stiamo parlando? Forse andrebbero riformulati, non tanto gli attuali panieri di spesa quanto le
aspettative dei colleghi sociologi. I quali hanno completamente perduto di vista la realtà di un paese ricco, dove la
soglia di povertà, anche quella assoluta, permette di fruire di beni e servizi,
che i poveri, quelli veri, in altre nazioni, neppure sognano. Oppure - parliamo sempre dei poveri autentici - immaginano, eccome: il che spiega perché preferiscono, giustamente, vivere da poveri qui e non dove sono nati.
Andrebbe perciò introdotto un coefficiente di “buona vita”, da calcolare, sulle differenze dei consumi di spesa, su base annua, tra il 1945 e il 2005, anno in cui l’Istat ha fatto ripartire le serie storiche (apportando alcune modifiche tecniche, se ricordiamo bene, come l’inserimento delle famiglie con quattro persone, che ovviamente ha aumentato, rispetto al passato, il numero dei poveri individuali). I poveri, diminuirebbero d'incanto e il quadro d'insieme sarebbe più realistico.
Andrebbe perciò introdotto un coefficiente di “buona vita”, da calcolare, sulle differenze dei consumi di spesa, su base annua, tra il 1945 e il 2005, anno in cui l’Istat ha fatto ripartire le serie storiche (apportando alcune modifiche tecniche, se ricordiamo bene, come l’inserimento delle famiglie con quattro persone, che ovviamente ha aumentato, rispetto al passato, il numero dei poveri individuali). I poveri, diminuirebbero d'incanto e il quadro d'insieme sarebbe più realistico.
Le
metodologie statistiche ci sono. I
concetti operativi si possono elaborare. Probabilmente, è la voglia di tradurli in corposi report che manca. Chissà per quale ragione? Forse perché la sociologia si è tramutata in scienza ausiliaria del welfare state? E il povero, che poi non è tale, come abbiamo visto, porta finanziamenti, occupazioni e cattedre.
Insomma, dispiace dirlo, pure i sociologi devono vivere. Meno uno. Indovinate chi?
Carlo Gambescia
(*) Per il testo integrale qui: https://www.istat.it/it/archivio/217650
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