venerdì 15 giugno 2018

La polemica  sulla via di Roma da intitolare a Giorgio Almirante
 Perché non dedicarne una a Giano Accame?




La toponomastica  è una continuazione della politica con altri mezzi. E la politica, per parafrasare (e pasticciare) una celebre definizione,  è la continuazione della guerra con altri mezzi.
Pertanto  intitolare o meno  una via  a un personaggio politico,  non è cosa da prendere sottogamba. Soprattutto in un’ Italia  che non si è mai lasciata alle spalle  una guerra -  prima guerra guerra, poi pure civile -   preceduta da una dittatura  dai pesanti risvolti, prima che cadesse,  totalitari  e antisemiti.
In questo senso,  l’idea di intitolare una strada di Roma a Giorgio Almirante, prima approvata (“Il consiglio comunale e sovrano come il parlamento”), poi respinta in nome dell’antifascismo e dell’antirazzismo),  non  è comunque un’idea felice.  Certo,  i ripensamenti del Sindaco, anzi della “Sindaca”,  rinviano  all’ inguaribile infantilismo politico di Cinque Stelle. Cosa che qui però  non desideriamo affrontare. Oggi ci prendiamo un turno di riposo.
Dicevamo, idea infelice.  Perché?  Per una semplice ragione. Che non riguarda Almirante come persona. Del resto le strade non si intitolano alle persone  in quanto tali, ma agli uomini rappresentativi di qualcosa.  E qui  purtroppo, l’ex segretario del MSI, anzi la sua stessa figura politica,  come si può scoprire leggendone la pur interessante autobiografia,  anche se da posizioni non di vertice, evoca, con il solo far parte dell'establishment saloino,  le terribili pagine della guerra civile.  Con il suo doloroso pendant -  per così dire -   di rastrellamenti,  fucilazioni, persecuzioni di antifascisti ed ebrei.  Che poi Almirante non fosse, personalmente,  antisemita (anzi, aiutò e venne aiutato…),  non cancella  una pagina di storia italiana,  decisamente brutta.   Da dimenticare, eventualmente.
Si dirà,  ma allora  le strade, non solo a Roma, dedicate a Lenin  e Togliatti?  La via intitolata  a  quest’ultimo è addirittura  la più lunga della Capitale.  Sì, una strada  intitolata  al “Migliore”,  che,  a Mosca e Madrid,  non alzò un dito per difendere i desaparecidos italiani,  comunisti e anarchici che non piacevano  a Stalin. .
Touché.   Diciamo però  che siamo dinanzi a un  circolo vizioso.  I neofascisti, nonostante gli sdoganamenti politici (successivi), continuano a vivere la toponomastica  come una forma di rivincita: una guerra civile condotta con altri mezzi.  Un senso di rivalsa  che, abilmente (almeno,  così credono), amano  presentare  come un  fattore di pacificazione. E a ogni no,  rovesciano sugli avversari politici, in genere la sinistra,  l’accusa di voler perpetuare la guerra civile. Per sentirsi subito rispondere: " Ah!  Proprio Voi, eccetera, eccetera". "Noi siamo  i Buoni, Voi i Cattivi, eccetera, eccetera". Una partita a tennis, noiosa e insopportabile,  che va avanti da settant’anni.
Diciamo però che  Resistenza e Antifascismo, può piacere o meno, sono i due  valori  fondanti della Repubblica  e della Costituzione. Certo, anche  la sinistra ha i suoi scheletri nell’armadio: i famigerati triangoli rossi, al plurale perché al  Nord furono più di uno; le stesse Foibe - e soprattutto il successivo e vergognoso  silenzio -   non  furono  una bella pagina, anche prendendo atto,  delle precedenti violenze  fasciste al seguito dei nazisti nei Balcani e al confine Orientale dell’Italia.      
Come il neofascismo, anche la sinistra, soprattutto di provenienza comunista,  non ha mai fatto veramente i conti con se stessa.   Va però detto che l’opinione  progressista, ma  anche moderata, scorge tuttora nella Rivoluzione d’Ottobre (il colpo di stato bolscevico),  che spesso confonde con la Rivoluzione russa tout court (cosa che capita soprattutto ai moderati),  un plusvalore egualitario, che invece giustamente  disconosce alle cosiddette rivoluzioni nazionali,  ispirate dal  fascismo e dal nazismo tra le due guerre mondiali. Del resto, dell’ antiegualitarismo, per giunta cristallizzato-gerarchizzato in uno stato totalitario “antiplutocratico”, come si diceva allora,   Hitler e Mussolini furono i  campioni.  Chi semina vento raccoglie tempesta, per dirla alla buona.
Per queste ragioni la toponomastica continua a restare, ripetiamo, una continuazione della guerra civile con altri mezzi… Alla fin fine, senza  vinti né vincitori. 
Che fare allora?  Probabilmente si dovrebbe  avere il buon senso, a cominciare dalla destra postfascista,   di abbassare le armi appuntite delle targhe stradali, la destra per prima, ripetiamo.  E con un atto di coraggio, fuoriuscire, per così dire,  dalla logica del colpo su colpo,  e  proporre  eventualmente, nomi meno discussi e discutibili.

Ne vogliamo fare uno anche noi.  Giano Accame (nella foto), al quale, scusandoci per l'autocitazione, abbiamo  dedicato un libro, uscito proprio in questi giorni. Accame è mancato nel 2009.  Sono quasi trascorsi  dieci anni.  Perché non dedicargli una via di Roma?  Uomo coltissimo,  casa-studio piena di libri (oltre che di gatti e cani), letti e riletti (i libri), e di ogni tendenza e quel che è più importante  quasi  tutti volumi  di taglio scientifico. Giornalista, scrittore,  storico,   né  razzista né antisemita (si veda il bel libro di Gianni Scipione Rossi sulla destra e gli ebrei). Diresse  “Il Secolo d’Italia”, in modo scintillante, sontuoso, dialogico.  Scrisse libri importanti, tra i quali una magnifica Storia della Repubblica, colta, dialogante, ricca di citazioni, spunti, stimoli.
Figlio e nipote di ammiragli, pur avendo militato per un solo giorno, nella Repubblica Sociale,  ad appena sedici anni, il 25 aprile 1945, cosa sulla quale  talvolta ironizzava,  Accame  era apprezzato in tutti gli ambienti, a cominciare dalla sinistra più colta, simpatica, ideologicamente disinibita.  Un vero maestro di cultura attiva: un costruttore di ponti. E  nel nome di una retorica della transigenza, della tolleranza, della comprensione, dell’amicizia. Un uomo, ancora prima che l’ intellettuale,  buono.  
Però meno amato proprio  a destra,  perché certi parrucconi  lo  reputavano  un mezzo socialista e, in ogni caso  un giornalista poco controllabile. Maledizione che pesa, tremendamente,  su tutti gli intellettuali liberi.  Dentro e fuori. 
Un interdetto che colpisce senza pietà, per parafrasare un Maggiore,  coloro che al tempo stesso sono nemici di dio e dei nemici dei nemici di dio.  E che, una volta morti,  difficilmente  consente di  finire effigiati su una bella targa stradale. O no? 

Carlo Gambescia