La polemica sulla via di Roma da intitolare a Giorgio
Almirante
Perché non dedicarne una a Giano Accame?
La
toponomastica è una continuazione della
politica con altri mezzi. E la politica, per parafrasare (e pasticciare) una celebre
definizione, è la continuazione della
guerra con altri mezzi.
Pertanto intitolare o meno una via
a un personaggio politico, non
è cosa da prendere sottogamba. Soprattutto
in un’ Italia che non si è mai lasciata alle spalle una guerra - prima guerra guerra, poi pure civile - preceduta da una dittatura dai pesanti risvolti, prima che cadesse, totalitari
e antisemiti.
In
questo senso, l’idea di intitolare una
strada di Roma a Giorgio Almirante, prima approvata (“Il consiglio comunale e
sovrano come il parlamento”), poi respinta in nome dell’antifascismo e
dell’antirazzismo), non è comunque un’idea
felice. Certo, i ripensamenti del
Sindaco, anzi della “Sindaca”, rinviano all’ inguaribile infantilismo
politico di Cinque Stelle. Cosa che qui però non desideriamo affrontare. Oggi ci prendiamo un turno di riposo.
Dicevamo,
idea infelice. Perché? Per una semplice ragione. Che non riguarda
Almirante come persona. Del resto le
strade non si intitolano alle persone in quanto tali, ma agli uomini
rappresentativi di qualcosa. E qui purtroppo, l’ex segretario del MSI, anzi la sua stessa figura politica, come si
può scoprire leggendone la pur interessante autobiografia, anche se da posizioni non di vertice, evoca,
con il solo far parte dell'establishment saloino, le terribili
pagine della guerra civile. Con il suo
doloroso pendant - per così dire - di rastrellamenti, fucilazioni, persecuzioni di antifascisti ed
ebrei. Che poi Almirante non fosse,
personalmente, antisemita (anzi, aiutò e venne aiutato…), non
cancella una pagina di storia italiana, decisamente brutta. Da
dimenticare, eventualmente.
Si
dirà, ma allora le strade, non solo a Roma, dedicate a
Lenin e Togliatti? La via intitolata a
quest’ultimo è addirittura la più
lunga della Capitale. Sì, una strada intitolata al “Migliore”,
che, a Mosca e Madrid, non alzò
un dito per difendere i desaparecidos italiani,
comunisti e anarchici che non
piacevano a Stalin. .
Touché. Diciamo però che siamo dinanzi a un circolo vizioso. I neofascisti, nonostante gli sdoganamenti politici (successivi), continuano a
vivere la toponomastica come una forma
di rivincita: una guerra civile condotta con altri mezzi. Un senso di rivalsa che, abilmente (almeno, così credono), amano presentare come un fattore di
pacificazione. E a ogni no, rovesciano
sugli avversari politici, in genere la sinistra, l’accusa di voler perpetuare la guerra civile. Per sentirsi subito rispondere: " Ah! Proprio Voi, eccetera, eccetera". "Noi siamo i Buoni, Voi i Cattivi, eccetera, eccetera". Una partita a tennis, noiosa e insopportabile, che va avanti da settant’anni.
Diciamo però che Resistenza e Antifascismo, può piacere o meno, sono i due valori fondanti della Repubblica e della Costituzione. Certo, anche la
sinistra ha i suoi scheletri nell’armadio: i famigerati triangoli rossi, al plurale perché al Nord furono più di uno; le stesse
Foibe - e soprattutto il successivo e vergognoso silenzio - non furono una bella pagina, anche prendendo atto, delle
precedenti violenze fasciste al seguito
dei nazisti nei Balcani e al confine Orientale dell’Italia.
Come
il neofascismo, anche la sinistra, soprattutto di provenienza comunista, non ha mai fatto veramente i conti con se stessa. Va però detto che l’opinione progressista, ma anche moderata, scorge tuttora nella Rivoluzione d’Ottobre (il colpo di stato bolscevico), che spesso confonde con la Rivoluzione russa tout court (cosa che capita soprattutto ai moderati), un plusvalore
egualitario, che invece giustamente disconosce alle cosiddette rivoluzioni nazionali, ispirate dal fascismo e dal nazismo tra le due guerre mondiali.
Del resto, dell’ antiegualitarismo, per giunta cristallizzato-gerarchizzato in uno stato
totalitario “antiplutocratico”, come si diceva allora, Hitler e Mussolini furono i campioni. Chi semina vento raccoglie tempesta, per dirla alla buona.
Per
queste ragioni la toponomastica continua a restare, ripetiamo, una continuazione
della guerra civile con altri mezzi… Alla fin fine, senza vinti né vincitori.
Che fare allora? Probabilmente
si dovrebbe avere il buon senso, a cominciare dalla destra postfascista, di abbassare le armi appuntite delle targhe stradali, la destra per prima, ripetiamo. E con
un atto di coraggio, fuoriuscire, per così dire, dalla logica del colpo su colpo, e proporre
eventualmente, nomi meno discussi e discutibili.
Ne
vogliamo fare uno anche noi. Giano Accame (nella foto), al quale, scusandoci per l'autocitazione, abbiamo dedicato un libro, uscito proprio in questi giorni. Accame è mancato nel 2009. Sono quasi trascorsi dieci anni. Perché non dedicargli una via di Roma? Uomo coltissimo, casa-studio piena di libri (oltre che di gatti e cani), letti
e riletti (i libri), e di ogni tendenza e quel che è più importante quasi tutti volumi di taglio scientifico. Giornalista,
scrittore, storico, né razzista né antisemita (si veda il bel libro
di Gianni Scipione Rossi sulla destra e gli ebrei). Diresse “Il Secolo d’Italia”, in modo scintillante,
sontuoso, dialogico. Scrisse libri importanti, tra
i quali una magnifica Storia della Repubblica, colta, dialogante, ricca di citazioni, spunti, stimoli.
Figlio e
nipote di ammiragli, pur avendo militato per un solo giorno, nella Repubblica
Sociale, ad appena sedici anni, il 25
aprile 1945, cosa sulla quale talvolta
ironizzava, Accame era apprezzato in tutti gli ambienti, a
cominciare dalla sinistra più colta, simpatica, ideologicamente disinibita. Un vero maestro di cultura attiva: un costruttore di ponti. E nel nome di una retorica della transigenza,
della tolleranza, della comprensione, dell’amicizia. Un uomo, ancora prima che
l’ intellettuale, buono.
Però
meno amato proprio a destra, perché certi parrucconi lo
reputavano un mezzo socialista e,
in ogni caso un giornalista poco
controllabile. Maledizione
che pesa, tremendamente, su tutti gli
intellettuali liberi. Dentro e fuori.
Un
interdetto che colpisce senza pietà, per parafrasare un Maggiore, coloro che al tempo stesso sono nemici di dio e dei nemici dei nemici di dio.
E che, una volta morti, difficilmente consente di finire
effigiati su una bella targa stradale. O
no?
Carlo Gambescia