venerdì 1 agosto 2025

Israele e Fratelli d’Italia: psicodramma nero

 


Nel salotto buono della politica occidentale, Giorgia Meloni siede oggi accanto a Netanyahu, stringe la mano a Zelensky e benedice i destini dell’“Occidente cristiano”. Ma nei piani bassi del partito che guida, le pareti, diciamo mentali, e non sempre solo mentali, sono tappezzate di busti del duce e croci celtiche.

La contraddizione non è solo estetica, è strategica. Ed è lì che si consuma — e si aggrava — un vero e proprio psicodramma ideologico: quello di un partito che non riesce a liberarsi del proprio passato, ma ha bisogno disperato di fingersi moderno.

Fratelli d’Italia non è “un partito come gli altri”. È l’erede diretto del Movimento Sociale Italiano, a sua volta rigenerato dalle ceneri della Repubblica di Salò. Come del resto prova, a livello comunicativo, persino elementare, diremmo pavloviano, la fiamma ancora presente nel simbolo.

In questa filiazione vi è più che una suggestione storica: c’è un codice genetico. Il fascismo italiano fu, nella sua essenza, un progetto autoritario, secondo alcuni addirittura totalitario, nazionalista e profondamente antisemita, anche se l’antisemitismo mussoliniano fu meno “teologico” di quello hitleriano. Ma fu comunque ideologico, e poi tragicamente applicato.

Chi conosce la storia del neofascismo nel dopoguerra sa bene che l’antisemitismo, più o meno velato, ha rappresentato uno dei pilastri culturali del Movimento Sociale Italiano — fatta eccezione per rarissimi casi, come quello di Giano Accame — e, per certi versi, ha continuato a permeare anche Alleanza Nazionale. Talvolta si manifestava attraverso sorrisetti, battute sul “male assoluto”, persino da parte di figure apparentemente insospettabili. Per decenni, ambiguità linguistiche come “sionismo”, “plutocrazia” o “lobby” sono servite a celare stereotipi razziali mai davvero superati (*).

 E oggi?

Oggi Meloni dichiara: «Israele ha diritto a difendersi». Ma chi le sta dietro, spesso, non è d’accordo. L’inchiesta di Fanpage lo ha mostrato senza pietà: militanti e quadri giovanili di Fratelli d’Italia che scherzano su Hitler, fanno saluti romani, evocano “il potere degli ebrei” con ghigni compiaciuti. Meloni ha reagito espellendo alcuni soggetti coinvolti, ma lo ha fatto con malcelato fastidio. Come se le telecamere fossero il vero problema, non le idee espresse. Il messaggio è chiaro: non rinnegare davvero, ma mettere sotto silenzio. Pura tattica. Non una scelta strategica, cioè etico-politica di natura liberale.

Eppure, quella frangia radicale  non è affatto marginale. Non si tratta solo di qualche cane sciolto o nostalgico folcloristico: è linfa militante, strutturata, spesso radicata nei territori. È carne viva del partito, quella che attacca i manifesti, fa campagna porta a porta, tiene acceso il fuoco identitario. E ora si sente tradita. Non tanto perché si condanni Hamas — condanna che rientra ancora nella retorica securitaria e nell’ossessione per l’“ordine” — ma perché si difenda apertamente Israele, magari anche per compiacere l'”amerikano” Trump.

Un gesto che appare come una resa simbolica al nemico di sempre: lo Stato ebraico, letto in quell’ambiente come incarnazione del “potere globalista”, della “finanza apolide”, dell’Occidente decadente. Netanyahu, per questi ambienti, non è un alleato: è un tabù infranto. Un tradimento della memoria, quasi una provocazione deliberata.

E qui il corto circuito: erede di un partito nato per rappresentare una destra anti-illuminista, illiberale e identitaria è oggi costretto a recitare la parte della guardia d’onore dell’Occidente atlantista e filo-israeliano. Semplificando, dalla nostalgia del fascismo alla nostalgia della NATO: lo psicodramma è servito.

Meloni ha trovato più facile l’appoggio all’Ucraina. Putin, agli occhi delle radici neofasciste, può essere ancora letto come “post-comunista”. La russofobia, quella vera, ha radici profonde nella destra italiana, dalla Guerra fredda in poi. Ma Israele no: Israele, a parte alcune rare eccezioni, non è mai stato “un amico” nella galassia nera. In molti ambienti neofascisti, il Medio Oriente è stato per decenni letto attraverso la lente terzomondista e antisionista: meglio i palestinesi, “popolo oppresso”. Questa visione è ancora viva. E le uscite pubbliche di Meloni, sempre più squillanti nel sostegno a Netanyahu, obbligano il partito a un esercizio schizofrenico: fingere compattezza mentre si mormora, si mugugna, si digrigna.

Fratelli d’Italia è attraversato da tensioni forti. Gli esponenti più ideologizzati — da La Russa a Fidanza, da Donzelli a figure meno visibili ma ben radicate (come Mollicone, Delmastro, Pozzolo) — devono fare buon viso a cattiva sorte, mentre la base è in fermento. La leadership meloniana, improntata alla normalizzazione euro-atlantica, è indigesta a molti militanti, che sognavano una rivoluzione nazionale, non la diplomazia da palazzo.

Quanto reggerà questa finzione? Il rischio non è solo la frattura interna. È il ritorno del rimosso. Come insegna Freud, ciò che viene represso, prima o poi, riemerge. E nei partiti identitari il passato non muore mai davvero: si nasconde, si mimetizza, poi riappare sotto forma di scandalo, ribellione, scissione. Oppure, peggio, sotto forma di conformismo ideologico che avvelena la politica senza mai dichiararsi.

Fratelli d’Italia è a un bivio. Può scegliere, cosa che ritieniamo non facile, se diventare davvero una destra moderna — liberandosi del proprio passato — o continuare a recitare in eterno, una parte che non le appartiene. Ma per ora la commedia continua. E sotto la maschera, il volto vero non ha ancora deciso chi vuole essere.

Carlo Gambescia 

(*) Su questi aspetti si veda l'onesto  libro di Gianni Scipione Rossi, La destra e gli ebrei. Una storia italiana, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003.


Nessun commento:

Posta un commento