Oggi Marcello Veneziani sulla “Verità” celebra Giorgia Meloni, in particolare il suo discorso di Rimini, chiedendole però di essere più decisa. Non ricorre all’infausto “noi tireremo dritto”, però…
Intellettuale reazionario, c’è una lunga bibliografia anti-illuminista dietro di lui, Veneziani sbava come tanti neofascisti per l’“Uomo Forte”, disposti però, pur di mandare i liberali a casa ( o meglio in prigione), ad accontentarsi della “Donna Forte”. Un linguaggio non più patetico come un tempo. Oggi pericoloso per la liberal-democrazia.
Ma Veneziani non è che la punta dell’ iceberg di un immaginario di destra che sembra ormai dilagare su tutti i fronti: dai social ai media tradizionali, dalle scuole alle piazze. Coperto dai silenzi, quando occorre, di Giorgia Meloni e dei suoi colonnelli. Un silenzio che non piace all’anti-illuminismo duro e puro di Veneziani.
Si prenda il caso della ricomparsa della croce celtica in via Acca Larentia (*). Non è un dettaglio di cronaca locale o una fissazione antifascista. È un fatto politico. Anzi, simbolico-politico, il che in Italia spesso pesa di più dei fatti stessi. Non siamo di fronte a una bravata di strada, ma al riemergere – letterale – di un segno che appartiene all’immaginario neofascista e che da decenni rivendica spazio nel discorso pubblico. Ed ora, come dicevamo, sembra dilagare.
Tecnicamente il Municipio, di sinistra, ha fatto la sua parte, sollecitando l’INPS, proprietario dell’area, a rimuovere il simbolo. Ma la vicenda non si esaurisce in una pratica amministrativa. Il punto decisivo riguarda il silenzio del vertice politico: Giorgia Meloni. Quei silenzi, ripetiamo, che indispettiscono Veneziani.
Però sia chiaro: che un Presidente del Consiglio non si pronunci non significa che sia neutrale. In politica, il silenzio è un atto. Soprattutto nel caso di Giorgia Meloni.
Il silenzio equivale a un segnale, a un calcolo. In questo caso, il messaggio appare chiaro: non irritare una parte del proprio elettorato nostalgico, mantenendo una zona grigia dove i simboli del passato possono sopravvivere, se non addirittura prosperare. E poi, magari piano piano, chissà, sdoganare, anche nei fatti, il regime fascista.
Meloni conosce bene il valore dei simboli. È cresciuta politicamente proprio dentro quell’immaginario e ne ha fatto esperienza diretta. Il suo curriculum non le permette di fingere distrazione. Il silenzio, dunque, diventa scelta.
La domanda da porre è semplice: può un Presidente del Consiglio di una democrazia che si dice ancora liberale tollerare che un simbolo neofascista, riconosciuto come tale a livello internazionale, occupi lo spazio pubblico davanti a un luogo segnato dalla violenza politica degli anni Settanta? Una specie di rivendicazione ideologica nel senso, per capirsi, dell’“avevamo ragione noi”.
La croce celtica fu adottata dal movimento francese Jeune Nation negli anni Cinquanta del secolo scorso e poi diffusa nel neofascismo europeo degli anni Sessanta. È diventata il simbolo identitario per eccellenza: richiama la purezza barbarica e l’appartenenza atavica a un mondo ideologico arcaico (quindi antimoderno, antiliberale, anti-illuminista). Privilegia la comunità “bianca ed europea”. In breve, siamo davanti a una specie di “svastica accettabile”, meno ingombrante ma altrettanto carica di estremismo (**).
Il problema perciò non è la manutenzione delle strade. Il problema è il segnale che viene dato alla società: che la Repubblica nata dalla lezione impartita nel 1945 al nazi-fascismo può convivere con l’iconografia dei suoi nemici storici. Che la memoria può essere piegata, rimosso il conflitto simbolico.
In realtà, nessuna democrazia liberale sopporta gravissime zone d’ombra di questo tipo. In Germania o in Francia, un simbolo simile non resterebbe visibile per un giorno senza una presa di posizione pubblica.
Il caso di Acca Larentia mostra anche la fragilità della memoria pubblica italiana. Un simbolo che sembrava sbiadito ricompare con prepotenza e subito diventa terreno di contesa. Non è un episodio isolato: come dicevamo, da anni assistiamo a un ritorno di segni e linguaggi del neofascismo nello spazio urbano e digitale. Ma il contesto politico attuale rende la questione ancora più grave. Chi guida il governo proviene proprio da quella tradizione.
Pertanto Giorgia Meloni ha il dovere – politico, culturale, istituzionale – di rompere il silenzio. Un dovere, diremmo per parlare difficile, illuministico, di dire no a un simbolo di barbarie. Di rivendicare il valore della civiltà liberale, che ha radici nella rivoluzione illuminista, davanti ai barbari fascisti.
Non sarà facile. Perché l’universo culturale dal quale proviene Giorgia Meloni è lo stesso di Marcello Veneziani e di tanti altri, intellettuali o meno. Purtroppo è una specie di riflesso pavloviano. Lo si chiami pure richiamo della foresta.
Perciò rompere il silenzio non sarebbe un semplice gesto di “distinzione” tattica, utile a Bruxelles o a Washington, ma uno spezzare il circolo vizioso dei barbari istinti bestiali dell'estrema destra.
Equivarrebbe all’assunzione di un impegno reale verso la democrazia liberale. Perché un simbolo non è mai solo un segno: è un discorso muto, una rivendicazione implicita. E quando chi governa tace, quel discorso diventa più potente.
Il silenzio, oggi, non è prudenza. È corresponsabilità.
Carlo Gambescia
(**) Per comprendere le origini della croce celtica e il suo ruolo nel neofascismo europeo, si può fare riferimento a P. Milza, Europa estrema. Il radicalismo di destra dal 1945 a oggi, Carocci, Roma 2005, pp. 66-70, testo ancora valido per lo studio di Jeune Nation e dei movimenti radicali di destra nel dopoguerra. Sulla croce celtica in particolare, con la necessaria cautela interpretativa, è utile la voce in L. Lanna e F. Rossi, Fascisti immaginari. Tutto quello che c’è da sapere sulla destra, Vallecchi, Firenze 2003, pp. 131-136, che fornisce un’analisi informata, sebbene in parte benevola, del simbolo e della sua diffusione.


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