Il ritorno del mito della sconfitta eroica
La politica, si sa, è fatta anche di gesti simbolici. Ma quando i simboli evocati non sono neutri, bensì gravidi di senso mitologico, il gesto si trasforma in messaggio. E quando il messaggio non è spiegato, né argomentato, ma lasciato in sospensione, allora può diventare pericoloso. È quanto accaduto con la visita celebrativa del Ministro della Cultura Alessandro Giuli a Canne, lo scorso 2 agosto, luogo di una delle più grandi disfatte militari dell’antichità.
Una visita passata sotto silenzio dai più. Chi ha notato il fatto ha preferito sbrigarsela con due battute ironiche, da social, o con superficiali critiche politiche.
In realtà, e abbiamo pensato a lungo prima di scrivere questo articolo, quel pellegrinaggio simbolico ha tutto il sapore di una precisa operazione culturale, ideologica, diremmo quasi metapolitica. La destra, in particolare, quelle dalla radice missina, è tuttora intrisa di “debeinostismo” . Da Alain de Benoist, capofila, fin dai tardi anni Settanta, della Nuova destra francese, che si proponeva reinterpretando in modo eclettico, il concetto di egemonia culturale di Gramsci, la conquista ideologica, metapolitica ripetiamo, prima che politica, della società.
Senza ovviamente dimenticare, come elemento non solo aggiuntivo, la profonda influenza tra i neofascisti italiani, quale esempio, del ruolo giocato dalla gigantesca macchina propagandistica del fascismo, messa su da Mussolini.
E se non si coglie questo, si resta prigionieri del chiacchiericcio quotidiano, perdendo di vista le grandi manovre che si svolgono nei sotterranei dell’immaginario.
Riattivare Canne
Canne, 2 agosto 216 a.C: il disastro romano. Un’intera armata spazzata via dal genio tattico di Annibale. Ma Roma non si arrese. Non trattò. E vinse. Il mito di Canne si costruisce così: dalla rovina alla rinascita, attraverso la disciplina, il sacrificio, il sangue.
Chi conosce la genealogia ideologica del fascismo sa che Canne occupa un posto speciale nel pantheon delle “sconfitte fondative”. Mussolini, Evola, Gentile: tutti, a vario titolo, hanno coltivato il culto della morte eroica come strumento di rigenerazione. Canne, nella retorica dell’intransigenza fascista, non è il luogo del fallimento, ma la culla del nuovo romano, del cittadino che non teme la morte perché sa che il vero senso della vita è il sacrificio per la comunità. Da ultimo si pensi, frutto di un enorme sforzo intepretativo, alle tesi di Rauti e Sermonti, sulla sconfitta necessaria, di un fascismo "nato come idea forza dopo la propria morte" (*).
Ecco allora che la visita di Alessandro Giuli non può essere letta come un atto neutro.
Giuli è sì un uomo intelligente, e persino colto, ma la sua non è una cultura “liberale” o pluralista: è una cultura che affonda le radici nel culto della romanità come archetipo metastorico, spirituale prima ancora che politico. Una romanità esoterica più che essoterica, plasmata da letture che si nutrono di tradizione, gerarchia, sacralità del potere, e persino di simbolismo iniziatico. Una cultura, insomma, che riflette l’impronta spiritualista e volontaristica di certo fascismo colto, e che non disprezza affatto l’azione politica, purché preceduta e sostenuta da una solida opera di rifondazione culturale. Una destra, come dicevamo, che ha ben assorbito, la lezione del debenoistismo metapolitico (**).
In questo senso, Giuli non celebra Canne: la riattiva. E così facendo, riattiva un’intera mitologia dell’“Italia invitta”, pronta a rinascere dalle proprie sconfitte, a patto che siano ritualizzate nel sangue, nel sacrificio, nella fedeltà identitaria (***).
Canne come macchina mitologica: la lezione di Jesi (che nessuno legge più)
Per Furio Jesi, il mito non è una favola: è un dispositivo, una macchina culturale che produce senso assoluto e sospende il tempo storico. Canne, nell’operazione di Giuli, diventa esattamente questo: non un luogo storico, ma un simbolo metastorico, un eterno presente, un segno che chiama all’ordine. È l’inizio di una nuova epopea identitaria: si cade, si soffre, si combatte. Si rinasce. O si muore, puri.
Come osservava Furio Jesi in Cultura di destra, (Garzanti 1979) la destra fascista non ha bisogno di concetti articolati: le sue idee viaggiano attraverso il “linguaggio delle idee senza parole” (tra l’altro sottotitolo del suo libro), fatto di simboli, gesti, liturgie, che bypassano la razionalità e parlano direttamente all’inconscio mitologico della comunità (****). La visita di Giuli a Canne rientra esattamente in questo schema: un’azione silenziosa, apparentemente neutra, che tuttavia attiva un universo simbolico potentissimo, dove la sconfitta diventa destino, e il sacrificio, mito fondativo.
Eppure, ciò che colpisce non è solo l’operazione della destra. È
l’assenza assordante della cultura antifascista, liberale e
progressista, che da anni ha smesso di leggere Jesi, che non riflette
più sui meccanismi della mitopoiesi, che ha abbandonato il campo del
simbolico.
Una cultura che deride, ironizza, ma non comprende, e che non studia più il nemico. Peggio: non riconosce più i suoi linguaggi.
Mentre la destra riscopre Canne, la sinistra non ha più nulla da contrapporre, se non il vuoto di una memoria rituale, ormai scollegata da ogni riflessione teorica.
Cartagine come archetipo dell’“Altro”
Canne fu teatro dello scontro tra Roma e Cartagine. E Cartagine, nella lettura ideologica fascista e neofascista, non è solo un nemico esterno. È l’“Altro” per eccellenza. Semita, mercantile, urbana, femminea. Tutto ciò che Roma non è: virile, agricola, guerriera. Una contrapposizione che ritorna — sotto nuove forme — nella retorica identitaria contemporanea.
Roma è sangue e suolo. Cartagine è denaro e disgregazione. È il capitalismo sradicante, l’ebraismo fantasmatico, l’individualismo anti-comunitario. Giuli lo sa. Non lo dice, ma lo evoca. E chi ha orecchie per intendere, intende.
Il 2 agosto e il gioco delle date
Alcuni hanno ironizzato: “Giuli è andato a Canne per fare dispetto alla commemorazione della strage neofascista di Bologna.”
Una provocazione? Forse. Ma il punto non è il dispetto: è lo spostamento semantico.
Mentre a Bologna si commemorano vittime civili, a Canne si celebra l’eroismo dei caduti. Mentre a Bologna si parla di giustizia, a Canne si parla (o si tace, ma si evoca) del destino. Non è negazione: è sostituzione. Non è revisionismo: è mitopoiesi alternativa.
Il pantheon cambia. I martiri cambiano. I luoghi della memoria si riplasmano. E tutto questo avviene senza che nessuno, o quasi, se ne accorga.
Il vero pericolo
Allora la domanda non è se Giuli sia andato a Canne per “provocare”. La domanda è: perché può farlo senza incontrare resistenza?
Perché una cultura che si dice antifascista non studia più i meccanismi della mitopoiesi politica? Perché non legge più Jesi, non legge più Gentile, non legge nemmeno Evola? Perché non ha più strumenti per riconoscere il pericolo quando si presenta non con stivali e camicie nere, ma con abiti ministeriali e selfie istituzionali?
Giuli, a Canne, non sta semplicemente celebrando il passato. Sta costruendo un futuro. Un futuro fondato sul culto della stirpe, del sacrificio, dell’identità guerriera. E se non lo si comprende, la prossima battaglia sarà persa prima ancora di cominciare.
Perché oggi non si combatte più con le armi, o comunque non solo. Si combatte con i simboli. E chi controlla i simboli, controlla la storia.
Chi controlla la storia, controlla il futuro.E chi lascia che i libri si impolverino, si ritroverà prigioniero del mito altrui.
Carlo Gambescia
In copertina incisione di Heinrich Leutemann (1824-1905) pubblicata in Wilhelm Wagner, Rom (1877).
(*) Si veda P. Rauti e R. Sermonti, Storia del fascismo, Centro Editoriale nazionale, Roma 1978, vol. VI, Nel grande conflitto, p. 379.
(**) In argomento si veda A. de Benoist, Le idee a posto, Akropolis, Napoli 1983, pp. 256-267, nonché il suo più “celebre”, Visto da destra. Antologia critica delle idee contemporanee, Akropolis, Napoli 1981, pp. 626-633.
(***) Su questi aspetti si veda G. Accame, La morte dei fascisti, Mursia, Milano 2010: un’opera partecipe ma equilibrata, che si distingue soprattutto per la ricchezza di esempi storici relativi al concetto di “bella morte”, vissuto fino in fondo da molti tra i fascisti.
(****) Dell’importante libro di Jesi si veda la nuova edizione accresciuta Cultura di destra. Con tre inediti e un’intervista, a cura di A. Cavalletti, Nottetempo, Roma 2011. Jesi probabilmente, nonostante i lavoro successivi di altri, resta lo studioso che ha saputo individuare, con maggior precisione e in tempi non sospetti, le radici mitologiche, o se si preferisce mitopoietiche, della destra fascista. Si veda, come propedeutica al suo approccio in argomento, F. Jesi, Mito, ISEDI, Milano 1973 (e successive edizioni) .

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