sabato 23 agosto 2025

Draghi vede solo i conti, ma l’Europa rischia la Bastiglia

 


Ieri, al Meeting di Rimini, Mario Draghi ha pronunciato parole severe sull’Europa. 

Ha detto, in sostanza, che il 2025 sarà ricordato come l’anno in cui è evaporata l’illusione europea di contare. Che l’Unione, pur essendo il maggiore finanziatore della guerra in Ucraina, è rimasta spettatrice. Che lo scetticismo cresce, non sui valori, ma sulla capacità di difenderli. E che la via d’uscita sarebbe una maggiore coesione economica e fiscale. Prima l’economia, poi la politica.

Tutto giusto, verrebbe da dire. Eppure qualcosa stona.

Il parallelo corre facile con i quattro ministri delle finanze di Luigi XVI. “Controllori Generali” come si diceva allora: Turgot, Necker, Calonne, Brienne: uomini capaci, intelligenti, seri. Eppure destinati al fallimento. Per quale ragione? Perché credevano che il problema fosse solo economico. Tentavano riforme fiscali, bilanci trasparenti, imposte universali. Ma non compresero la vera natura della crisi: politica, cioè la lotta di potere tra Monarchia, Nobiltà, Clero e un Terzo Stato borghese in ebollizione: che voleva contare politicamente. Necker, tornato al potere, nell’agosto del 1788, per la seconda volta, gestì malinconicamente la fine, tra veti reali ed egoismi di ceto. Si dimise l’11 luglio del 1789, da nemico di dio e dei nemici di dio. Tre giorni prima della presa alla Bastiglia.

Risultato: la Rivoluzione francese. E le acque della storia si richiusero su Necker.

Draghi rischia la stessa cecità. Non coglie – o non vuole cogliere – che la crisi europea non è solo questione di bilanci, di debiti, di unione fiscale. È questione politica. Di potere, di sovranità, di identità europea. In un continente dove le destre nazionaliste, sorde e cieche come la nobiltà, il clero, pensano solo a se stesse. Però non tentennano come Luigi XVI. Tutt’altro, le destre avanzano tracotanti, favorendo il gioco di Trump, Russia e Cina che hanno tutto l’interesse a vedere l’Europa frantumata.

Probabilmente forziamo l’analisi. Però resta il fatto che il nodo è politico. E che Draghi purtroppo non lo coglie.

Si rifletta: il rischio è chiaro: come i ministri di Luigi XVI, Draghi spinge sull’economia pensando che la politica seguirà da sé. Ma la metapolitica ci dice che è vero il contrario: la politica decide sulla cornice, l’economia viene dopo.

Si dirà: ma come, Gambescia, che è liberale, difensore del laissez-faire, oggi viene a invocare la politica? Non è una contraddizione? No. Il liberalismo non è culto della partita doppia, ma cultura dei limiti e delle regole. La politica serve a garantire il quadro entro cui l’economia può funzionare: istituzioni, diritti, libertà. Senza quel quadro, l’economia diventa giungla, preda dei più forti, o terreno di conquista per potenze esterne. Mai confondere la fisiologia dello stato (stato di diritto) con la sua patologia (lo stato interventista).

Il liberale autentico sa che l’economia prospera se c’è uno stato di diritto, se ci sono istituzioni condivise, se c’è una cornice politica solida. Non chiede più stato per distribuire prebende, ma più politica per difendere lo spazio della libertà.

Inoltre, cosa non secondaria, mai confondere la politica (ciò che non muta, come insegna la metapolitica) con il transitorio (le forme storiche che assume la politica, come ai nostri giorni con lo stato interventista).

Draghi, al contrario, sembra invertire addirittura il ragionamento. Cioè crede che la politica sia una derivata dell’economia. Neppure si pone il problema metapolitico del rapporto tra contenuto (immutabile) e forme (variabili) della politica. La declassa, punto. È un economista più liberale di noi? Direi il contrario: è un tecnico che scambia il liberalismo con il ragionierismo.

Quale potrebbe essere, allora, la “Rivoluzione francese” di oggi? La fine dell’Unione europea. La sua disgregazione in staterelli nazionali, ciascuno col proprio dazio, la propria moneta, i propri muri, le proprie Meloni che sbraitano suo dio, patria e famiglia. Una disfatta pilotata dall’interno da torvi leader nazionalisti, e dall’esterno da chi sogna un’Europa irrilevante.

Draghi è un eccellente economista, un amministratore serio, una brava persona, per dirla alla buona. Ma, come i suoi antenati francesi, non coglie appieno la dimensione politica della crisi: la vede come derivata dell’economia, non come cornice necessaria. Questo talvolta lo rende impopolare, come Necker. E senza visione politica, l’Europa non si governa: si subisce.

Carlo Gambescia

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