martedì 12 agosto 2025

Senza Kiev al tavolo, è già resa

 




Il summit Trump–Putin del 15 agosto 2025 in Alaska segna un fatto grave: Zelensky non è stato invitato.

Un déjà-vu metapolitico. Nel settembre 1938, a Monaco, quando Germania, Italia, Francia e Gran Bretagna firmarono l’accordo che smembrò la Cecoslovacchia, Edvard Beneš venne ignorato e i suoi inviati, a titolo non ufficiale, vennero tenuti fuori dalla stanza dove si decideva il destino di quel disgraziato popolo. Solo a cose fatte fu loro comunicato che dovevano obbedire, pena l’isolamento politico e militare.

Quel gesto non fu solo un’umiliazione, fu la pietra tombale sulla democrazia cecoslovacca e l’apertura della strada alla guerra più devastante della storia moderna. Come dichiarò Churchill, non appena informato dell’accordo: “Avevano da scegliere tra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore e avranno la guerra” (*).

Oggi stiamo rischiando di ripetere lo stesso errore: decidere il destino di un paese aggredito, l’Ucraina, senza averlo al tavolo è un atto di vigliaccheria politica e strategica. Questa esclusione è esattamente ciò che rende quella storia un monito per oggi.

L’eco di quella umiliazione dovrebbe risuonare tuttora. Eppure… l’Europa, sì, si indigna — Italia, Francia, Germania, Polonia, Regno Unito, Finlandia e altri hanno alzato la voce in coro: "La pace non si decide senza l’Ucraina".  Dopo di che, però, si è rimessa alla finestra. Non ha una forza militare indipendente e i popoli europei vogliono la pace, solo la pace, anche a costo di cedere l’intera Ucraina alla Russia, almeno così dicono i sondaggi. Qualche protesta ufficiale, certo, ma l’Europa difficilmente contrasterà la politica dei “grandi”.

Quanto all’Italia, in un comunicato europeo congiunto del 10 agosto, Giorgia Meloni ha sottoscritto nero su bianco che “la pace in Ucraina non può essere decisa senza la partecipazione diretta del paese aggredito”. Una posizione netta sul piano formale, che però stride con la cautela mostrata verso Trump e la sua “diplomazia tra grandi potenze”, quasi a voler evitare lo scontro diretto con il presidente USA.

Diciamola tutta:  Giorgia Meloni è ferma sulla carta a proposito della presenza ucraina, ma nei fatti sembra intenzionata a non incrinare il rapporto con Washington, anche se gli Stati Uniti — oggi guidati da Trump — appaiono pronti a ridisegnare i confini senza Kiev. È il gioco dello “stare in due scarpe”: soddisfare Bruxelles con la frase giusta e compiacere Washington evitando quella sbagliata. Un equilibrio instabile che rischia di far passare l’Italia come complice silenziosa di un negoziato iniquo. Del resto, questo è l’andazzo anche a livello europeo.

E qui emerge la figura del piccolo, ma straordinariamente coraggioso, presidente Zelensky, che con fermezza ha ricordato come la Costituzione ucraina richieda un referendum per qualsiasi cessione territoriale: “Non regaleremo neppure un millimetro a chi ci ha invaso.” Un uomo che, pur venendo da un paese messo in ginocchio, non abdica e sfida i giganti, incarnando l’orgoglio e la dignità di un popolo.

Ma cosa significa, in concreto, cedere ai ricatti di Trump e Putin? Significa innanzitutto affondare l’Ucraina: ignorare la voce della vittima è un colpo mortale alla sua stessa esistenza. Significa poi mettere a rischio la nostra libertà: le frontiere cedute oggi saranno solo la rampa di lancio per le prossime aggressioni di domani. Infine, significa stimolare l’appetito russo, che vede ogni concessione non come segno di pace ma come un invito a pretendere ancora di più.

Ripetiamo, la storia è chiara: Monaco 1938 insegna che, quando i grandi decidono senza il piccolo, il piccolo sparisce. Allora fu la Cecoslovacchia; oggi rischia di esserlo l’Ucraina.

Accettare un negoziato senza l’Ucraina è legittimare la logica dell’aggressore e aprire la porta a nuove pretese. È il realismo del debole, che confonde prudenza e paura, pace e resa.

Oggi chi pensa di garantire la propria sicurezza lasciando Kiev fuori dalla stanza sta in realtà preparando il terreno al prossimo ricatto. La sovranità non si baratta: svenderla è solo un modo elegante per fissare la data della prossima catastrofe.

Carlo Gambescia

P.S. (amaro)
 

Probabilmente il lettore se ne sarà accorto: si può scrivere, scrivere e scrivere, ma senza la forza degli eserciti, quando serve, non si va da nessuna parte. L’Europa al momento non è in grado, militarmente, di spaventare nessuno. Di conseguenza, non conta nulla. 

Da qui nasce una politica di corto respiro che si nasconde dietro la volontà del popolo. Un popolo, ottuso ed egoista, che, come dicono i sondaggi, vuole la pace. Costi quel che costi.
 

Sotto tale aspetto, ecco l’amara verità: il nostro articolo, per ricordare il titolo di un famoso dramma di Ibsen, è quello di un nemico del popolo.

 

(*) Per una efficace ricostruzione dei fatti e per la citazione si veda M. Silvestri, La decadenza dell’Europa Occidentale. III. L’Equilibrio precario 1922-1939, Einaudi, Torino 1979, pp. 296-302 (per la cit. p. 302).

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