sabato 9 agosto 2025

Modernità di cartapesta. Il Ponte sullo Stretto tra vuoto della sinistra e mimetismo della destra

 




È curioso, a tratti perfino grottesco, osservare come il progetto del Ponte sullo Stretto — simbolo per eccellenza di una modernità fattiva, visionaria, capace di accettare il rischio imprenditoriale — finisca oggi per concretizzarsi proprio grazie all’inerzia storica di una sinistra che, da almeno mezzo secolo, ha rinunciato a comprendere il senso più profondo della modernità. Una modernità di cartapesta, fragile nelle mani di chi la brandisce senza crederci davvero, e vuota nelle intenzioni di chi la respinge per principio.

Una sinistra che ha sempre guardato con sospetto al rischio d’impresa, al dinamismo capitalistico, alla volontà creativa della libera iniziativa. Preferendo, invece, una concezione amministrativa e tecnocratica dello sviluppo, dove il pubblico pianifica e il privato esegue, obbediente e grato. Quando non viene demonizzato in nome dell’uguaglianza “sostanziale” (quindi dei punti di arrivo non di partenza) e di un ambientalismo “militante” che scorge nello “stato controllore”, se si vuole poliziotto sociale, il volano di una utopistica società senza vincitori né vinti.

Così, mentre la destra — che pure, come vedremo più avanti, ha i suoi difetti e le sue nostalgie — oggi cavalca il Ponte come simbolo di progresso infrastrutturale, la sinistra si aggrappa a un ecologismo posticcio, punteggiato da riflessi luddisti e da una certa attrazione per il ritorno ai ritmi di vita “naturali”: lenti, armoniosi, possibilmente pre-industriali. Un’utopia regressiva, che scambia il rifiuto del rischio per saggezza, e la paralisi decisionale per prudenza civile, l’assenza di una benefica eterogeneità sociale come trionfo dell’armonia.

Non si tratta, sia chiaro, di negare il valore dell’ambiente o la necessità, per quanto umanamente possibile, di individuare senza demonizzarli gli effetti collaterali dello sviluppo. Ma una cosa è la riflessione razionale del progresso, altra cosa è la negazione sistematica di ogni trasformazione che non rientri nei rassicuranti confini del “piccolo è bello” e di un armonia sociale tipo rigor mortis.

In questo quadro, il Ponte diventa un caso emblematico. Perché non è soltanto un’opera ingegneristica: è una cartina tornasole ideologica. Che rivela, ancora una volta, il vicolo cieco in cui è finita una sinistra che ha smarrito la fede nel futuro, rifugiandosi in un presentismo moralistico. Mentre la modernità — quella vera — richiede, come detto, coraggio, visione e capacità di rischiare. Tutte cose che, oggi, sembrano lontane dal pensiero progressista.

E così, alla fine, tocca a Matteo Salvini e al governo Meloni — prigionieri del peggiore sciovinismo propagandistico — intestarsi l’idea di modernità.

Perché, si badi bene, la destra vince non per merito proprio, ma per demerito altrui: occupa spazi lasciati vuoti da una sinistra che ha smesso di credere nel cambiamento e preferisce aggrapparsi a una nostalgia del passato, travestita da etica del limite.

Si pensi al culto, a sinistra dell’arcaismo di Pasolini. Oppure alla raffigurazione degli anni del decollo economico, Cinquanta e Sessanta, come un inganno. Per non parlare della modernizzazione dei costumi degli anni Ottanta, altrettanto demonizzata.

Il Ponte, insomma, non è solo un attraversamento fisico: è il simbolo di un vuoto culturale attraversato — e colonizzato — dalla politica più scaltra di una destraccia razzista con pesantissime inclinazioni fasciste che sa trarre partito dagli errori e dalle debolezze di una sinistra con l’ occhio fisso su una visione bucolica del passato pre-moderno.

Il vero problema, e non ci stancheremo mai di ripeterlo, è il giudizio sulla modernità. E qui si deve essere chiari.

La destra, tradizionalista e reazionaria, con fortissime propensioni fasciste, non l’ha mai amata. La sinistra, dopo l’innamoramento per il socialismo scientifico, è tornata alle utopie pre-industriali. Cedendo così largo spazio a una destra capace di convogliare le paure, artatamente manovrate dalla destra stessa, di un cittadino, già iperprotetto, , quindi che vale meno di zero come individuo, verso una società della sorveglianza, che finge di celebrare la modernità. Un culto posticcio che in realtà non è altro che un paravento politico per distruggerla, partendo proprio dalla demolizione della libertà individuale.

Il che non riguarda solo la propaganda sul Ponte, ma il grande parlare di pace, della fedeltà verso l’ Occidente, Ucraina, Israele, fumo retorico, che risulta tale quando si vanno a scoprire le carte sul piano dei diritti politici e dei diritti civili, per non parlare dell’atteggiamento verso il migrante e l’altro, soprattutto se portatore idee non linea con l’integralismo di una destra che ha sempre disprezzato l’individualismo, in particolare quando liberale.

Piaccia o meno, la modernità va accettata in blocco. Nel bene e nel male. Non si discute si ama. Perché è il nostro imprescindibile orizzonte politico, sociale, culturale, economico. La modernità resta ovviamente un esperimento: nella storia, come nella vita, nulla è eterno. Un esperimento, dicevamo, che ha solo alcuni secoli, e tanti nemici, a destra e sinistra.

E i più subdoli sono a destra, perché a differenza della sinistra, la destra ha capito che un tocco modernità – una specie di riverniciatura – alla stregua del comportamento di certi animali mimetici, aiuta a nascondersi meglio per poi aggredire mortalmente uscendo dall’ombra. Come per l’appunto nel caso del Ponte.

Insomma, per Salvini, Meloni e sodali il Ponte è un mezzo, non un fine. Ecco il paradosso: il progresso ridotto a slogan da una destra che lo disprezza, consegnato, su un piatto d’argento, da una sinistra che non sa più riconoscerlo.

Modernità di cartapesta per un Paese di cartapesta.

Carlo Gambescia

 

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