mercoledì 22 novembre 2023

La guerra dei generi

 


Il colmo dell’imbecillità, lo diciamo da studiosi di metapolitica, si tocca quando alcune femministe proclamano che il potere maschile è finito.

Il che può anche essere vero, ma non significa che sia finito il potere del potere. Nel senso che il potere tende sempre a ricostituirsi, quindi una volta scomparso il potere maschile, ad esso di sostituirà il potere femminile, diviso al suo interno, secondo una gerarchia del merito, in relazione alla stratigrafia sociale, nonché frutto, talvolta amaro, del caso.

Per dirla alla buona, una volta finita la battaglia, questa volta vittoriosa per il genere femminile, toccherà ai maschi giocare in Serie D mentre le donne giocheranno in Serie A, B e C. Quindi “gerachicamente” suddivise, come in precedenza gli uomini.

Se le cose stanno così – e stanno così, perché il potere tende sempre a ricostituirsi – che senso ha la guerra dei generi? Perché, tutto sommato, chiunque vinca non potrà sottrarsi alla forza di gravità del potere e alla inevitabile spartizione del bottino tra i vincitori. Insomma a vincere sarà lo stato redistributore, democratico o meno, moderna personificazione del potere.  Spieghiamo perché.

Quanto diciamo ha un senso obiettivo, metapolitico, perché riflette, due fondamentali regolarità: la persistenza del conflitto amico-nemico come pure la presenza del ciclo politico di conquista, conservazione e perdita del potere.

Però ne ha anche uno soggettivo, che riguarda gli attori politici: che senso può avere la sostituzione del potere maschile con quello femminile? Potere che, a sua volta, si struttura in gerarchie interne ed esterne ai generi? Infatti la spartizione del bottino (sociale) cui abbiamo accennato non potrà che rispondere ai poteri di uno stato finalmente espugnato, ma non meno forte di prima. E’ matematico.

Invece di inveire contro gli uomini o contro le donne, di inneggiare al patriarcato o al matriarcato, si dovrebbe semplicemente fare spazio al merito. Come? Lasciando fare, lasciando passare. Le società si strutturano e ristrutturano, lentamente e non per decreto. Implicano flussi e riflussi, spesso lacrime e sangue, per usare una espressione letteraria

Perciò, dal momento che il potere del potere è inevitabile, l’unico modo per favorirne una redistribuzione è quello di lasciare che sia il  setaccio sociale, e non lo stato occupato da questo o quel genere,  a selezionare  il materiale umano migliore,  prescindendo  per l’appunto  dal genere.

Si dirà, qui, che le donne partono svantaggiate, che bisogna rettificarne prima la posizione socilae  ed economica, per metterle alla pari con gli uomini, e solo allora, eccetera, eccetera. Uguaglianza sostanziale insomma, dei punti di arrivo. Classica filosofia welfarista, estranea allo stato di diritto.

In realtà, ogni diritto concesso, al di là della doverosa statuizione dell’ uguaglianza formale,  giuridica, preziosa conquista del liberalismo moderno, non è gratis, perché è sempre “pagato” da qualcun altro. Si pensi qui alle quote rosa, vera e propria discriminazione di genere “pagata” dagli uomini. Di solito le femministe rispondono che è giusto che sia così, perché gli uomini per secoli hanno oppresso le donne, eccetera, eccetera.

In realtà il concetto di riparazione storico-politica è molto pericoloso perché implica due fattori: 1)un attore che lo faccia rispettare, in questo caso lo Stato e 2) la collaborazione fattiva di un altro attore, la vittima.

Pertanto quanto più si applica la logica riparativa tanto più si estende il potere dello stato che, piaccia o meno, converte la giustizia in vendetta delle vittime sul colpevole, che nel caso delle battaglie femministe (come di ogni altra battaglia categoriale, come ora vedremo) non è più rivolto a un uomo con tanto di nome e cognome (cioè lo è, ma in un secondo momento), ma contro una “categoria” di soggetti.

Il diritto, “martellato” dallo stato diventa così il veicolo giuridico armato di una guerra “totalitaria”, come capitato in passato, contro il borghese, l’ebreo, il liberale, il capitalista. Oggi tocca al genere maschile. Che a sua volta, rispondendo agli attacchi, giustificati o meno, categorizza quello femminile. E così via lungo una spirale di odio e di imbecillità, perché, per dirla alla buona, tra i due litiganti è il terzo a godere: lo stato.

Ripetiamo: a trarne vantaggio è solo il potere dello stato, questa volta, messosi al servizio del potere femminile. Ciò significa solo una cosa: che pur “cambiando padrone” il potere dello stato non sarà meno esteso. Come detto, il concetto applicato di giustizia riparativa trasforma lo stato in una specie di Angelo Vendicatore che dispone di larghissimi poteri.

Tutto questo può essere evitato solo facendo un passo indietro, soprattutto da parte dello stato. Come? Permettendo a uomini e donne di trovare la propria strada da soli e farsi largo grazie ai propri meriti. Ne guadagnerà la selezione delle élite dirigenti che “pescherà” talenti in un mare più grande.

Il che, ovviamente, imporrà più tempo, più sacrifici, forse più dolore, ma contribuirà a evitare due fenomeni socialmente disastrosi: la categorizzazione totalitaria del nemico e la guerra dei generi, o detto altrimenti, la guerra imbecille tra patriarchi e matriarche.

Carlo Gambescia

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