Il buffone di corte è una figura piuttosto antica (*). La risata, suscitata dall’evento imprevisto, o presentato come tale, quindi contrario all’ordine consueto delle cose, la si ritrova in tutte le società. E ovviamente, come ogni altro fenomeno sociale, non può non confrontarsi con la stratificazione sociale e politica. Insomma, anche i detentori del potere non possono fare a meno di ridere, almeno ogni tanto.
Il buffone di corte – funzione specializzatasi in professione alla fine del medioevo – aveva questo incarico. Per il resto della società esistevano comici itineranti e cantastorie. La risata era patrimonio di tutti, ma si uniformava all’ordine delle classi e dei ceti.
A queste cose pensavamo a proposito del fortunato programma mattutino di Fiorello. Come pure al riguardo della relazione tra comicità e politica, rapporto oggi così stretto, al punto di influenzare la politica, in particolare dal punto vista retorico e linguistico.
Il comico televisivo, o comunque mediatizzato, volgarizza le grandi questioni e ridicolizza il potere. Perciò ritenere che il buffone di corte di un tempo si sia tramutato in buffone mediatico non è sicuramente un’asserzione originale.
Sono nuove però le conseguenze sociali. Nel senso che in una società aristocratica il buffone di corte era al tempo stesso dentro e fuori di essa: esprimeva una critica popolaresca (quindi era fuori), ma all’interno di una corte (quindi era dentro il potere).
Per contro, nelle nostre società democratiche, il buffone mediatico, esprime una critica popolaresca a un potere, di derivazione popolare (perché eletto dal popolo). Quindi è dentro il potere, non più fuori. Per così dire, il popolo che parla al popolo. Questo fatto, come detto, implica conseguenze.
Si ascolti Fiorello: ne ha per tutti. Proprio perché, parla in nome del “popolo”, da cui deriva, almeno sulla carta, il suo potere di critica. Se il buffone di corte, parlava quando il re ordinava, il buffone mediatico parla sempre: non attende ordini. Ovviamente ciò è possibile dove non esiste alcuna censura. Sotto questo aspetto le società totalitarie, oltre ad altri fattori negativi, hanno quello di essere tristi.
La risata però, come ogni altra azione sociale, dovrebbe avere il suo tempo. L’ antica saggezza sociologica dell’ “Ecclesiaste” prescrive infatti che c’è un tempo per piangere un tempo per ridere. Anche i Dieci Comandamenti prescrivono. Però non sono in molti a osservarli. Il che spiega l’uso del condizionale.
Il buffone mediatico ride di tutto: la sua comicità non conosce limiti temporali. Qui ritroviamo quell’assenza di limiti tipica delle monarchie assolute, trasferita però al popolo, al quale si riconosce lo stesso potere assoluto dei monarchi. Con conseguenze sociali che vanno al di là della società di corte, perché il buffone mediatico, a differenza del buffone di corte, si rivolge a una società aperta e non chiusa. A ridere sono milioni e milioni di persone. E alla risata del popolo si attribuisce lo stesso potere taumaturgico – di guarire – che si attribuiva ai re. Una risata così potente, come addirittura si diceva nel ’68, da seppellire il potere. Un comico come Dario Fo, sposando questa filosofia, ha vinto un Nobel per la letteratura.
Perciò ricorrere alla censura, ad esempio di tipo religioso, a nulla servirebbe. Dal momento che oggi si ride di tutto, e collettivamente, perciò si ride anche di dio. Però attenzione: non si può ridere del popolo. Di qui, il riemergere di una volontà di censura, da parte dei “difensori” del popolo, che, ovviamente interpretano il concetto di popolo in chiave ideologica. Sicché esistono comici di sinistra, comici di destra, comici di centro e così via, secondo le varie posizioni e ideologie politiche sulla “natura” del popolo e conseguenti veti incrociati. Fiorello, probabilmente, è di centro. Accontenta tutti. Il che spiega il suo successo.
Due osservazioni finali.
La prima, è che la risata, di destra, di sinistra, di centro, eccetera, rende comunque la nostra vita più leggera, forse troppo leggera. Però non c’ è rimedio. La nostra è una società di massa, non di corte, e ogni fenomeno si tramuta inevitabilmente in fenomeno di massa, anche la risata.
La seconda, è che il buffone mediatico, come è capitato in Italia con Beppe Grillo, talvolta, proprio perché si immedesima fin troppo nel suo ruolo di “unica voce” autorizzata del popolo, può perdere la testa e decidere di scendere in politica. Va detto che storicamente parlando anche nel buffone di corte aleggiava un certa vena di follia. In realtà non si tratta di una scelta felice. Il comico in politica rischia di non far più ridere nessuno.
Ma questa è un’altra storia.
Carlo Gambescia
(*) Per un suggestivo volume in argomento si veda Tito Saffioti, Gli occhi della follia. Giullari e buffoni di corte nella storia e nell’arte, Book Time, Milano 2009.
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