Ci si interroga a sinistra sul perché, dopo un anno di governo così così, tendente più al negativo che al positivo, i tre partiti di destra, stando ai sondaggi, non abbiano perduto consensi, in particolare Fratelli d’Italia, partito che domina a Palazzo Chigi.
Probabilmente la motivazione va ricondotta all’antipatia che la sinistra non smette di suscitare intorno a sé, con i suoi atteggiamenti pedagogici e radicaloidi in tutti i campi, dai diritti ai migranti, dal fisco al lavoro.
Si prenda una delle ultime battaglie della sinistra, come quella del salario minimo: la si è presentata puntando sull’idea di uguaglianza, come misura rivolta a raccorciare le distanze sociali. Però agli italiani, soprattutto coloro che votano a destra, di ridurre le distanze sociali non importa un bel nulla. Chi vota a destra, almeno in Italia, “vuole lavorare”: quindi meno fisco, meno regole, e di conseguenza nessun salario minimo.
Allora cosa avrebbe dovuto fare la sinistra invece di battersi per il salario minimo? Cioè invece di introdurre forme di controllo nell’ambito dell’offerta di lavoro?
Presto detto. Sostenere la tesi dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Come però? Proponendo la defiscalizzazione e il trasferimento in busta paga della differenza. Si chiama anche taglio del cuneo fiscale. Causa che la destra ha sposato, sebbene in minima parte, soffiando così l’idea a quella che un tempo, rispetto alla sinistra radicaleggiante e ugualitarista di oggi, si chiamava sinistra riformista.
La rigida pedagogia politica della sinistra fa perdere voti e favorisce la destra, che invece va attaccata sul piano del riformismo liberale.
Quanto al problema dei problemi, quello dei migranti, la sinistra deve inquadrarlo come una sfida. Cioè, accettare l’idea del rischio, sposata dalla destra, ma al tempo stesso, respingerne le tensioni ansiogene e le tendenze repressive.
La sinistra deve imparare a scorgere nel migrante, non un oggetto passivo da welfarizzare ma un soggetto attivo capace di scegliere la modernità. Però, anche qui si deve credere nel valore della modernità occidentale e nelle capacità inclusive di una società di mercato. Atteggiamento, quest’ultimo, da sinistra riformista e non da sinistra radicale tormentata dall’ incubo ugualitarista.
Pertanto rischiamo di assistere, in termini di ciclo politico (cioè di conquista, conservazione e perdita del potere), a un fenomeno apparentemente inspiegabile dal punto di vista di chi si proponga come la sinistra di tornare al potere: quanto più la sinistra si radicalizza, irrigidendosi, tanto più la destra si rafforza, a prescindere dagli esiti delle sue politiche di governo.
Il che spiega perché Giorgia Meloni, dopo un anno di governo così così, sia ancora acciambellata sulla poltrona di Palazzo Chigi.
Traduzione: occorre una sinistra riformista non radicale. Ecco il vero punto della questione.
Carlo Gambescia
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