Le radici della guerra civile spagnola del 1936 si possono condensare nel “ Que no se rompa España” (" Che non si faccia a pezzi la Spagna"), grido d’allarme intorno al quale le destre e i militari si mobilitarono per puntare al colpo di stato contro la Repubblica laica e socialista favorevole se non al separatismo a larghissime forme di autonomia.
Ne seguì una guerra civile, terminata nell’aprile del 1939, che portò il generale Franco al potere. Un militare intelligente, cattolicissimo, conservatore, per alcuni reazionario, che prudentemente tenne fuori la Spagna dalla Seconda guerra mondiale, avviandola dopo il conflitto, con l’aiuto degli Stati Uniti, verso uno sviluppo economico che favorì – influendo di rimbalzo sui cambiamenti di costume – il ritorno alla democrazia dopo la morte del Caudillo nel novembre del 1975. Classico esempio di eterogenesi dei fini. O se si vuole di ironia metapolitica.
Dal 1978, anno del varo della la nuova Costituzione democratica aperta alle autonomie, fino all’inizio degli anni Duemila, la Spagna si è retta su una specie di patto non scritto: né vendette né assoluzioni. In modo politicamente intelligente si è preferito lasciare che il tempo rimarginasse le ferite, senza alcun intervento diretto degli uomini, includendo vincitori e vinti di ieri e di oggi, attraverso i naturali passaggi generazionali e gli spontanei cambiamenti di costume.
Se Franco non era mai stato tenero con gli sconfitti, la nuova Spagna democratica invece “lasciava fare, lasciava passare”: dai quattro nostalgici in visita alla Valle dei Caduti, una specie di Escorial, che Franco, come Filippo II, si era fatto costruire su misura, alla trasgressiva e liberatoria Movida madrilena degli anni Ottanta, che simbolicamente rappresentò un’eccezionale fase di mutamento culturale in direzione di una europeizzazione dei consumi e dei valori.
Questo patto tacito è stato violato dai socialisti, una volta ritiratosi l’abilissimo leader socialista Felipe Gonzáles, intelligente dominatore della politica spagnola tra il 1982 e il 1996. A sua volta succeduto, come premier, a un abile leader moderato, come Adolfo Suárez, proveniente dalle file del franchismo ma attentissimo all’evoluzione dei tempi e dei costumi verso la democrazia. Suárez tra il 1977 e 1981 guidò con abilità la transizione dalla dittatura alla democrazia. Anche grazie al saggio sostegno del re Juan Carlos. Ma anche, soprattutto nella fase più delicata, di giuristi come Torcuato Fernández-Miranda Hevia, improvvisamente scomparso nel 1980.
Si può dire che i successori di Gonzáles e Suarez non si sono mostrati all’altezza, in particolare di parte socialista. E qui pensiamo a José Luis Rodríguez Zapatero (2004) e Pedro Sánchez (2018), che sembra abbiano fatto del loro meglio per risuscitare l’antico odio delle destre.
Per contro i Popolari – diciamo il centrodestra spagnolo – hanno espresso, sullo sfondo di padri nobili, come il vulcanico Manuel Fraga Iribarne, personaggi non proprio eccelsi come José María Aznar, se non mediocri come Mariano Rajoy e Pablo Casado Blanco, capaci solo di gestire, spesso neppure bene, l’esistente. Da ultimo: Alberto Núñez Feijóo, che però deve ancora scoprire le sue carte.
Sotto questo aspetto, Vox, partito fondato da alcuni dissidenti del Partito Popolare, definito di estrema destra, non è altro che una risposta radicale, al radicalismo socialista. Può apparire una banalità: ma gli estremismi sono tutti uguali e finiscono per reagire l’uno sull’altro. Di qui una pericolosa spirale di odio reciproco.
Il nodo è perciò rappresentato, come nel 1936, dal “ Que no se rompa España”, nel quadro di una progressiva radicalizzazione politica che sta entrando in una fase in cui i socialisti, sebbene divisi al loro interno, pur di conservare il potere, sembrano voler favorire il separatismo catalano.
La questione catalana, come del resto quella basca (per fare un altro esempio), per la Spagna, non è solamente economica, ma rinvia allo scontro tra due precise tradizioni politiche, se non ideologiche: una centripeta e inclusiva, moderna diciamo, che va da Isabella di Castiglia Ferdinando d’Aragona a Franco, passando per la centralizzazione borbonica; una centrifuga ed esclusiva che risale alla Spagna medievale e che come un fiume carsico giunge fino ai nostri giorni.
Pertanto, come si può intuire, non è in ballo solo la formazione del governo Sánchez, ma la tragica riformulazione di un secolare conflitto tra due tradizioni storiche e ideologiche.
In una interessante miniserie televisiva, trasmessa nel novembre del 2008, “20-N: los últimos días de Franco”, interpretata da un magistrale Manuel Alexandre, Franco sul letto di morte, recuperando per un attimo le sue energie vitali, apostrofa così Juan Carlos, accorso al suo capezzale: “ Que non se rompa España” (*).
Come si usa dire, anche se non vero è ben detto. Franco era un dittatore. Però interpretava, piaccia o meno, una delle tradizioni cui abbiamo fatto riferimento: quella centripeta e inclusiva, che prescinde da Franco. Guai non tenerne conto…
Un’ultima notazione, diciamo impressionistica. In Spagna c’è un termine – “mala leche” – che rimanda a certo presunto carattere cattivo (“tener mala leche”), talvolta esteso anche agli spagnoli (**). Ovviamente è un’esagerazione. Però…
Carlo Gambescia
(*) Qui: https://www.youtube.com/watch?v=Xw6yJJFHpoc , minuto 3:30.
(**) Qui: http://www.inspagnolo.it/2013/02/cosa-significa-mala-leche-in-spagnolo.html .
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