La storia filosofica dell’Occidente ruota intorno a una questione fondamentale. Ovviamente dalle ripercussioni sociali.
Il principio in questione è il seguente: la conoscenza è virtù? Un principio in discussione da millenni, almeno a far tempo da Socrate e con forti accentuazioni di pedagogia politica negli ultimi due secoli.
Detto altrimenti: il sapere, dal possesso delle conoscenze più elevate all’essere semplicemente bene informato, implica automaticamente l’ingentilimento morale del costumi rispetto a quel ricorso alla violenza che sembra accompagnare l’uomo fin dalle più antiche civiltà?
Purtroppo, la figura del saggio o (più modernamente) del cittadino bene informato non è frutto della sola istruzione, cioè della accumulazione di nozioni su nozioni. Ma anche dall’educazione morale, che al tempo stesso è assunzione di schemi (nozioni) e di esempi (comportamenti, propri e altrui). Però gli schemi si possono mandare memoria, i comportamenti richiedono invece la volontà di comportarsi in un certo modo.
Per fare un esempio banale: si possono imparare a memoria i Dieci Comandamenti, conoscerne gli aspetti teologici storici e filologici, per poi violarli tutti. Per quale motivo? Perché manca la volontà di applicarsi al bene, per le ragioni più disparate, argomentate o meno. Ragioni che non stiamo qui a indagare.
Il che significa, non che la conoscenza non sia virtù, ma che chi conosce, per non parlare di chi non conosce, può sottrarsi, volontariamente o meno al bene.
Ecco perché l’educazione è sempre una scommessa. Per non parlare poi dell’istruzione sganciata da qualsiasi processo educativo, che, a sua volta, come detto, può generare, comportamenti contrari a quelli che si prefigge di assolvere.
Pertanto, la pretesa di “educare il maschio”, alla stregua della pretesa di educare chicchessia, non tiene conto del fatto che purtroppo la conoscenza non sempre è virtù.
Ciò non significa che i costumi sociali non cambino. Cambiano eccome. Ma lentamente, non per decreto.
La società italiana negli ultimi sessant’anni è mutata. La posizione della donna non è certamente più quella degli anni Cinquanta del Novecento. Siamo addirittura entrati in una fase di accelerazione riformista. Si badi, non semplicemente riformista ma di accelerazione riformista. Il che può generare problemi. E spieghiamo perché.
Gli argini conservatori hanno ceduto. E come avviene inevitabilmente nei processi di modernizzazione, le richieste da parte dei modernizzatori, che avvertono la crescente debolezza della avversario conservatore, che ormai ha ceduto sui principi, si fanno sempre più pressanti e vincolanti. Si accelera.
Il femminismo, come un rullo compressore, è entrato nell’agenda politica mondiale. La sua pressione è fortissima. Il che può essere un male, proprio per il femminismo. Che ovviamente, anche in Italia è entrato in una fase di accelerazione riformista.
Di conseguenza la richiesta di “educare il maschio”, accettata anche in alcuni circoli conservatori, per un verso si fonda sull’idea che la conoscenza sia virtù, e per l’altro sul fatto che il femminismo avverte ormai la debolezza dell’avversario conservatore. Perciò, ogni minimo appiglio, attinto dalla cronaca giudiziaria o politica, diventa occasione per alzare velocemente l’asticella di un riformismo che non interagisce più con il costume, ma che vuole comandarlo a bacchetta, per decreto. Un riformismo accelerato che vuole educare i “maschi”, per dirla alla buona, anche a calci nel sedere.
La retorica femminista, ovviamente, respinge questa tesi, sostenendo che la società italiana è cambiata per effetto delle “lotte femministe”, dei calci nel sedere diciamo. Il che non può essere negato. Come pure è vero che grazie a queste lotte è stata introdotta una legislazione in materia.
Ma non va dimenticato un altro aspetto, altrettanto importante. In realtà il “maschio”, a poco a poco, ha capito e accettato, a prescindere dagli obblighi normativi e dalle “lotte”, grazie allo sviluppo, frutto di interazioni individuali, di stili di vita più liberi, di una crescente mobilità sociale e professionale tipica della società di mercato occidentali. Detto altrimenti: attenzione, la modernizzazione è un tutto, non è costituita solo dalle “lotte” femministe.
Certo, sono serviti sessant’anni. Ora però sembra essere giunto il momento dell’accelerazione riformista. La vittoria finale sembra essere a portata di mano, quindi non si vogliono fare prigionieri, per così dire.
Di regola questi processi di modernizzazione accelerata generano reazioni contrarie. Che possono provocarne il rallentamento, come pure causare l’inasprimento dei conflitti tra i progressisti e quella parte dei conservatori che vuole resistere ad ogni costo.
L’ idea di “educazione del maschio”, fa pensare, all’educazione proletaria, assai amata da Stalin, alla quale si oppose per reazione l’educazione nazionalsocialista di marca hitleriana.
Si dirà che siamo in una democrazia e che il parallelo è improprio. In realtà, l’accelerazione riformista, ha un risvolto totalitario, o comunque statalista – da stato docente di etica femminista – perché vuole bruciare le tappe, dal momento che scorge la meta vicina.
Troppa fretta può però provocare contraccolpi conservatori se non addirittura reazionari.
Che fare allora? Non abbiamo risposte definitive. Hic sunt leones.
Carlo Gambescia
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