Nell’ interessante editoriale sulle dichiarazioni di Macron a proposito dell’inevitabilità di intervenire sul campo in Ucraina, Piero Ignazi riduce all’osso la questione. Forse troppo. Si legga qui.
«L’intervento di Macron sprona l’occidente a prendere una decisione: entrare in campo per sconfiggere la Russia fino alla sua debellatio, con tutti i rischi connessi, oppure finirla con i grandi proclami e cercare una soluzione. Alla fine la scelta è tra continuare con la logica bellicista, fino alle estreme conseguenze, o dare spazio alla logica della pace e far tacere le armi prima possibile. E prima che qualcosa sfugga di mano» (*).
Le cose non stanno proprio così. Non esiste un taglio netto tra “logica bellicista” e “logica della pace”. Spesso, la “logica della pace” è collegata alla logica bellicista, nel senso che dipende dai risultati sul campo.
Per fare un esempio legato alla situazione Ucraina, nel giugno dell’anno passato, quando la Russia sembrava cedere terreno, si verificò addirittura un tentativo di golpe, che metteva in discussione il potere di Putin. Che dietro di esso, vi fosse la “logica della pace” non è sicuro. Però il collegamento con l’andamento allora negativo della guerra per i russi resta certo. Oggi, che invece a cedere terreno è l’Ucraina, se non è proprio Kiev a chiedere di intavolare trattative, sono di certo alcuni alleati occidentali.
Le cose perciò sono più complesse di quel che sostiene Ignazi. Il quadro evolutivo-involutivo sul campo può influire sulla decisione di iniziare le trattative. Mentre le trattative di pace presuppongono il congelamento della situazione sul campo. Si pensi, in quest’ultimo caso, alla differenza in meccanica fisica, valida anche in politica, tra statica e dinamica.
Però in questo quadro complicato la Russia, rispetto all’Occidente, ha per così dire due marce in più: la prima, è rappresentata dall’unità di comando politico e militare. Il Cremlino, non deve contrattare con nessun alleato interno ed esterno la conduzione politica e militare della guerra, siamo dinanzi a un' autocrazia che risponde solo a se stessa; la seconda, conseguenza della prima, è costituita dall’arsenale atomico, che la Russia, non dovendo rispondere a nessun interlocutore politico, esterno ed interno, può minacciare di usare in qualsiasi momento. L’autocrazia non si pone scrupoli di nessun genere.
Pertanto, “dare spazio alla logica della pace”, dinanzi a un interlocutore del genere, significa “dare spazio” a un nemico che mai rinuncerà alla “logica bellicista”: perché l’Occidente euro-americano ha davanti a sé un’autocrazia, priva di remore, che per giunta dispone di armi atomiche.
La Russia è pericolosa. Di conseguenza, ogni cedimento sul campo , nella migliore delle ipotesi, corrobora, se ci si passa l’espressione, l’ “autostima” di Mosca. In altri termini ne accresce il senso di superiorità nei riguardi dell’Occidente.
Come tipo di mentalità si nutre dello stesso disprezzo che Hitler e Mussolini riservavano alle decadenti democrazie occidentali. E tutti ricordano come finì. Vinse l’Occidente, dopo una guerra colossale, che vide le potenze occidentali costrette ad allearsi con la Russia comunista. Oggi potrebbe toccare alla Cina. Che però potrebbe uscire rafforzata da un’alleanza con l’Occidente, come fu per la Russia dopo il 1945.
Insomma, può apparire incredibile, ma l’Occidente paga ancora, “per li rami”, le conseguenze della politica di appeasement (riappacificazione) verso Hitler della seconda metà degli anni Trenta.
Se al primo accenno dell’ aggressività hitleriana, si pensi al tentativo di Anschluss dell’Austria nel 1934, nel nome di una “Grande Germania” (come oggi si parla di “Grande Russia”), le potenze occidentali, allora fortemente divise, fossero intervenute radicalmente, estirpando il male, la storia mondiale avrebbe presso un’altra piega.
Come si può frenare l’autocrazia russa? La cui preparazione militare però è di molto superiore a quella della Germania nel 1934? Di sicuro, evitando di mostrarsi divisi. Quindi puntando sull’unità di comando politica e militare. Cosa non facile per le democrazie che devono rendere conto a una pubblica opinione, quasi sempre divisa e pacifista (come già notò Tocqueville).
Inoltre, il concetto di guerra fino alla debellatio reintrodotto da Ignazi, non è gradito in Occidente, a meno che non via sia costretto come nel 1939 (invasione della Polonia) e 1941 (attacco a Pearl Harbour). Infine su queste incertezze pesa la continua minaccia russa di usare le armi atomiche, che divide ancora di più l’Occidente al suo interno.
Che cosa vogliamo dire? Che, se l’accettazione della “logica bellicista”, della debellatio, che si collega a un crescente intervento sul campo, implica il rischio della guerra atomica, l’adesione alla “logica della pace” non esclude la moltiplicazione degli appetiti russi e il rischio di altre guerre di conquista, che non escludono da parte della Russia la rinuncia all’ uso di armi atomiche.
Ovviamente è una nostra opinione, ma riteniamo che la minaccia atomica russa, sia un’arma per spaventare e dividere l’Occidente. Si chiama politica della paura. Sul piano strategico da una guerra atomica non uscirebbero né vinti né vincitori. E i russi, pur nella loro grossolanità, lo sanno benissimo. Certo, il famigerato errore del bottone premuto per sbaglio non può essere escluso.
Però, ecco il punto, la vera alternativa non è tra “logica bellicista” e “logica di pace”, ma tra l’accettazione o meno del rischio atomico. Ovviamente, chi non ha coraggio, non se lo può dare. E su questo fattore paura, ormai quasi una seconda natura dell’Occidente, gioca, diciamo sporco, la Russia. Che, forte del suo tradizionalismo, si sente superiore, come si proclama, rispetto agli effeminati occidentali, proprio come si sentiva la Germania nazista, secondo il mantra nazionalsocialista, nei riguardi delle degenerate democrazie europee.
Certo, si può cedere e abbandonare l’Ucraina al suo destino. Come fu per Austria e Cecoslovacchia. Però non si parli di “logica della pace”, di buon senso, uso della ragione, eccetera, eccetera.
Si tratta invece dell'esatto contrario. Si chiama logica della paura. E per chi scrive della resa.
Carlo Gambescia
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